Tristan da qualche tempo utilizza il suo profilo Instagram per fare divulgazione su tematiche relative all’identità di genere, alle politiche del corpo e ai disturbi del comportamento alimentare. Il punto di partenza è la sua esperienza di vita: alla nascita è stato assegnato al sesso femminile, ma non ha mai sentito pienamente sua l’identità di donna cisgender.
Un paio di anni fa ha intrapreso un percorso di riflessione sull’identità trans*, comprendendo che il senso di inadeguatezza ed estraneità sperimentato per anni derivava da «un processo progressivo di dis-identità, di scollamento della mia identità rispetto al corpo». Questo viaggio alla scoperta di sé lo ha portato a definirsi, oggi, un ragazzo trans masculine non binario.
Quella di Tristan è la storia di un viaggio di riallineamento tra il corpo materiale e quello percepito. Anche se non tutte le persone trans* e/o non binarie vivono una condizione di disforia di genere e l’iter di transizione medicalizzata non è affatto da considerarsi una tappa obbligata per rivendicare l’identità trans*, Tristan ci restituisce la narrazione di un rapporto complicato con il corpo fin dall’adolescenza: «ho vissuto in maniera molto traumatica l’esperienza della pubertà, non avevo le risorse necessarie per comprendere le origini del mio disagio e di questo graduale scollamento tra il mio corpo materiale e quello percepito».
Il corpo non è un involucro ma la forma che assumiamo di fronte al mondo, il correlativo oggettivo della nostra identità. Fare esperienza di un corpo che cambia, cosa che avviene in maniera tangibile in alcuni momenti della vita come l’adolescenza, può assumere le sembianze di un’esperienza traumatica che porta con sé la domanda: chi è la persona che sto diventando? «Qualche tempo fa raccontavo al mio psicoterapeuta, il quale mi sta seguendo nel percorso di transizione, che uno dei motivi per cui ho smesso di fare danza, una cosa che a me piaceva moltissimo, è stato perché quando è comparso il seno, quando sono comparsi i fianchi, le prime curve, lo specchio mi rimandava l’immagine di un corpo estraneo, non più allineato con il mio corpo percepito. È un sentito difficile da trasmettere a una persona cisgender, a cui magari non piace il proprio corpo, o alcune delle sue parti, ma che non lo considera estraneo a sé».
Se nel riflesso che rimanda lo specchio non ci si incontra la risposta a quella domanda – sì, ma chi è la persona che sto diventando? – può iniziare a far paura soprattutto se nell’ambiente circostante non si trovano persone con cui confrontarsi. Da adolescente in una cittadina di provincia alle porte di Roma nei primi anni 2000, senza il web e la capacità di creare rete, quando ancora il concetto di identità di genere era assente dal discorso pubblico, Tristan non disponeva delle conoscenze necessarie per elaborare razionalmente questo vissuto di disappartenenza: «ricorrevo spesso a strategie di mascheramento e compensazione. Ho sempre indossato abiti molto larghi e confortevoli per nascondere alcune parti del corpo tutt’ora molto problematiche per me, come il seno. Le nascondevo agli altri ma anche a me stesso».
Disturbi del comportamento alimentare
«Ho sofferto a più riprese di DCA, un’esperienza che nell’ultimo anno ho scoperto essere piuttosto comune nel vissuto delle persone trans*. Quello che cercavo di fare attraverso un regime di restrizione calorica o di digiuno era smaterializzare il corpo, adesso invece sto andando in una direzione contraria che è quella di ottenere una materialità di un corpo che sento mio, pieno, solido, autentico».
Il primo episodio di anoressia nervosa durante l’adolescenza poi una ricaduta in età adulta, il momento spartiacque, la fase di realizzazione: non si trattava tanto di un problema di grassofobia interiorizzata, che resta comunque un bias sistemico in una società fortemente grassofobica come la nostra, ma il problema era piuttosto legato al modo in cui quelle curve definivano il corpo e il messaggio che nella percezione di Tristan portavano con sé.
«Quel grasso era collocato in alcune parti del corpo che mi rimandavano un’immagine di femminile, almeno stereotipicamente femminile, che “non era me”. Attraverso pratiche di restrizione calorica arrivavo a ottenere una forma corporea che, sebbene non coincidesse pienamente con il mio corpo percepito, rispondeva a dei canoni di conformazione corporea molto più maschili. Durante il percorso di psicoterapia precedente intrapreso per uscire dall’anoressia ho iniziato a riflettere su questa questione delle linee, cioè sul fatto che percepivo il mio corpo come fatto di linee rette, e che la linea curva, soprattutto lungo i fianchi e intorno al seno, mi restituiva un’immagine corporea che non potevo abitare perché non mi apparteneva».
Il ricovero in un centro specializzato nel trattamento dei DCA, a causa di una ricaduta nel 2017, è stata un’esperienza elaborata molto tempo dopo averla vissuta, che ha messo Tristan a contatto diretto con l’istituzione totalitaria. Nonostante la rivoluzione basagliana abbia permesso di eliminare o limitare l’uso della contenzione meccanica, venivano utilizzati altri meccanismi di contenzione psicologica e relazionale altamente impattanti sulla salute dei pazienti e sulla loro effettiva possibilità di recupero. Nelle prime due settimane non era possibile uscire dal padiglione ospedaliero, mentre nelle successive due su autorizzazione dello psichiatra di riferimento l’uscita era consentita soltanto per un’ora al giorno. La vita all’interno del reparto era continuamente monitorata, sorvegliata e guidata dal personale medico: non si era più padroni del proprio tempo e dei propri spazi, non si poteva transitare in corridoio se non per andare in refettorio dove si mangiava, gli occhi erano ormai abituati a guardare una luce al neon al posto del sole. Il paziente in quella sorta di non-luogo è completamente deumanizzato.
«Nei professionisti che lavoravano nel centro non ho incontrato la volontà di comprendere quali erano le origini del mio dissidio, nessuno mi ha mai chiesto come mi identificavo in termini di genere o orientamento, hanno dato per scontato che avessi rapporti romantici e/o sessuali con dei ragazzi. Si impongono protocolli terapeutici standard, ma ognuno di noi ha delle storie diverse, dei tempi di recupero differenti. Non c’era attenzione neanche a cosa si desiderava mangiare: il paziente non era accompagnato in un percorso di rinnamoramento del cibo come strumento di nutrimento fisico ed emotivo, doveva sottostare a un regime militaresco, fondato sull’obbedienza e sul rispetto incondizionato dell’autorità. L’ho trovato molto problematico e controproducente per il recupero effettivo dei pazienti, molti dei quali infatti nel medio-lungo periodo sperimentavano delle severe ricadute».
Uscire dai confini del binarismo
«Nonostante abbia fatto pubblicamente coming out come persona trans*, mi rendo conto che c’è ancora una certa resistenza da parte di alcune persone a riconoscermi per quello che sono e dico di essere. Partendo dal presupposto errato che sesso e genere siano sinonimi, vedono un corpo stereotipicamente femminile, che non riescono ad associare a una diversa identità di genere, perciò non mi legittimano socialmente come ragazzo e invisibilizzano la mia identità non binaria».
Il corpo è la nostra interfaccia con il mondo, il modo in cui gli altri ci vedono, un dispositivo di relazione che non è mai neutro ed è irrigimentato in una concezione dicotomica e binaria del maschile e del femminile. E allora, la domanda: quanto fa male il pensiero di doversi conformare a uno standard per essere legittimati ad esistere?
«Certi corpi sono sistematicamente marginalizzati, sono corpi periferici perché non hanno quella legittimazione sociale che altri hanno in quanto bianchi, eterosessuali, cisgender, abili. È diverso non soltanto il modo in cui tu ti percepisci, ma anche il modo in cui lo sguardo esterno costruisce un’immagine di te con cui devi fare i conti. A me non piace molto utilizzare l’espressione identità non conforme o corpo non conforme perché non mette in discussione la conformità, l’idea che debba esserci una norma, invece dovremmo proprio uscire da questa prospettiva, decostruirla e dire che una norma non c’è. Non c’è un conforme o un non conforme, ci sono diverse forme».
La società, almeno quella occidentale, fatica a concepire il genere come un costrutto bio-psico-sociale culturale e a comprendere che il nostro modo di essere uomini, donne o persone non binarie nel mondo è fortemente influenzato dal contesto in cui cresciamo, dalla famiglia in cui cresciamo, oltre che dal rapporto con il nostro corpo. Il modo in cui performiamo il nostro genere è il risultato degli input esterni, non ha a che fare con il corredo anatomico o cromosomico.
Definire e incasellare sembra essere quasi un bisogno sociale più che del singolo individuo. Si richiede all’altro di delineare i propri confini, di assumere una forma riconoscibile, ché l’alterità fa sempre un po’ paura. Lo sanno bene le persone trans* quando, per esempio, continuano ad essere appellate con il nome anagrafico (deadnaming) e sottoposte a una costante invalidazione della propria identità di genere (misgendering).
«Io ho capito che per me, al fine di ottenere un maggior benessere psico-fisico, è necessario intraprendere un percorso medicalizzato, però penso che ci siano tante persone non binarie che non ne sentono il bisogno, ma che per questo vedono la loro identità sistematicamente ancor più invisibilizzata. La richiesta di essere visti e rispettati per quel che si è, di essere chiamati con il proprio nome e con i propri pronomi d’elezione, implica uno sforzo minimo per l’interlocutore, tuttavia alle volte questa richiesta viene accolta con una fatica e un disagio che paradossalmente finiscono per farti sentire in colpa per averla avanzata. Il rispetto implica credere all’altra persona, si basa su un atto di fiducia: io credo che tu sia quello che dici di essere e perciò contribuisco a creare le condizioni affinché tu sia più a tuo agio possibile».
Come ripensare il maschio nella società attuale
«All’inizio mi chiedevo come iniziare un percorso di transizione FtM (female to male), pur riconoscendo la tossicità di molte dimensioni della costruzione culturale del maschile nella nostra società». Quando si affronta il discorso relativo alla mascolinità tossica non è raro che qualcuno risponda con la classica espressione “not all men” – non tutti gli uomini – nel tentativo di scagionare il genere maschile da un’accusa generalizzata di eterosessismo, omofobia e transfobia. Diventa pertanto necessario riflettere sulla piramide di oppressione di cui il maschio etero cis bianco abile rappresenta il vertice e occorre ripensare la maschilità al di fuori della competizione, dell’abuso di potere e della sopraffazione.
«La mia maschilità si fonda su un’esperienza di socializzazione al femminile. Le donne vengono socializzate a mettersi in relazione agli altri, a costruirsi come soggettività inserite in una rete di rapporti di cura reciproca e questa eredità è parte integrante del mio progetto di maschilità, non lo voglio assolutamente cancellare. Rifiuto lo stereotipo della maschilità dominante, rispetto alla quale tutti i corpi non conformi sono in partenza oppressi, anche se poi ogni corpo si inserisce in un sistema specifico di privilegi e oppressioni in base a variabili di razza, genere, identità, classe etc. In opposizione al canone del corpo maschio, etero e cisgender, culturalmente percepito come strumento di dominio, rivendico la mia maschilità non binaria.
Se si vuole innescare un cambiamento sociale radicale bisogna superare il fallocentrismo: per esempio, i corpi degli uomini trans, in particolar modo se si decide di non effettuare una transizione medicalizzata completa mantenendo i propri organi genitali, vengono considerati meno uomini di quelli cisgender perché non possiedono una parte del corpo considerata fondamentale a definire la loro maschilità, sebbene la maschilità – così come la femminilità – sia molto altro. Non dobbiamo cadere nell’essenzialismo biologico del femminismo trans-escludente che identifica l’essere femmina con l’avere una vagina e l’essere maschio con l’avere un pene. Dobbiamo sviluppare la capacità come singoli e collettività di superare questo bias e di decostruire il nostro sistema di pensiero binario. Gli uomini trans, proprio perché incorporano un vissuto di socializzazione al femminile, possono essere un portale tra due esperienze molto diverse di come i nostri corpi vengono letti anche in termini di potere e detengono un grosso potenziale sovversivo da coltivare attraverso le pratiche di liberazione femminista, a partire dalla riappropriazione della rabbia che è stata sempre prerogativa degli uomini, ma che deve invece diventare una risorsa a disposizione di tutte le soggettività altre per mettere in discussione lo status quo e le sue falle strutturali».