Oggettificare un corpo vuol dire assoggettarlo ad uno sguardo che ne giustifica l’esistenza, o al contrario lo condanna all’esclusione.
A partire dalla sua esperienza personale, Stefania N’Kombo (@fioredarsenico) ci ha raccontato cosa significa essere una donna nera, oggi, in Italia. Abbiamo parlato di soggettività ridotte al proprio corpo, di appropriazione culturale e degli stereotipi che, rigidamente, tentano di ingabbiare le persone di etnia nera naturalizzando l’addomesticamento del corpo, da un lato, e la sua brutalizzazione, dall’altro.
Sul tuo profilo Instagram affronti argomenti quali razzismo sistemico, appropriazione culturale, white-saviorism. Qual è stata l’esigenza che ti ha spinta ad esporti?
Il mio percorso di attivazione politica è partito con un collettivo all’università, poi durante il lockdown ho sperimentato altri modi di fare quella che io ho sempre chiamato militanza, attraverso i social, i post, la scrittura sui blog, e forse questa “nuova” modalità si avvicina più all’attivismo individuale.
Lo scorso anno ho iniziato a seguire varie attiviste come Carlotta Vagnoli o Giulia Trapuzzano e in concomitanza ho vissuto un’esperienza particolare, ovvero per la prima volta ho avuto una coinquilina non bianca, italo-burundese. Con lei, e successivamente alla notizia dell’uccisione di George Floyd, ho intrapreso un confronto molto serio legato al tema del razzismo sistemico rendendomi conto che certe cose le vivevamo entrambe.
In un contesto come quello italiano, in cui molto spesso si è a maggioranza bianchi – soprattutto se non si è immigrate ma nate qui e quindi si ha una rete di amicizie che viene da qua – è difficile individuare lo scarto tra ciò che percepiamo e ciò che è reale. Ho compreso in quel periodo di aver vissuto delle microaggressioni, allora mi sono detta: «nessuno parla di questi temi, posso provare a farlo io dando un piccolo contributo». E ha funzionato.
Alcuni corpi, alcune esistenze, vivono costantemente ai bordi della società. Cosa vuol dire avere la pelle nera, oggi, in Italia?
Avere la pelle nera, in particolar modo quando mi capita di ascoltare frasi come «vorrei avere la pelle nera», è un bel disagio in realtà perché significa possedere una caratteristica visibile a tutti e capace di generare una serie di reazioni, come la diffidenza, che non esisterebbero in caso contrario. È una forma di pregiudizio misto allo stereotipo, misto a determinate reazioni emotive che dipendono molto anche dal contesto politico e sociale in cui ci troviamo e, soprattutto, vuol dire che tutto ciò che sei viene oscurato da questo contenuto di melanina.
Che io sia una persona cattiva o intelligente, gentile o ineducata, che sia una persona ignorante o, ancora, la più generosa del mondo, qualsiasi qualità una persona possa avere, che la definisce in quanto essere umano, viene oscurata dalla pelle nera, nel bene o nel male, soprattutto nel male in questo caso.
Avere la pelle nera significa non essere assunta perché si presuppone che non sia abbastanza competente, ricevere frasi del tipo «non affitto a stranieri» anche se la carta d’identità mostra la cittadinanza italiana, dare per scontato che non sappia parlare italiano e, nel caso in cui lo faccia, pensare «che brava, come fai a parlare così bene?». «Non lo so, come ci riesci tu» sarebbe la risposta che mi viene da dire. Significa ritrovarsi al di sotto di un qualsiasi sistema gerarchico, che in realtà non esiste. Essere costantemente sottovalutati e sottovalutate, persone disposte a farsi assoggettare, che in un qualche modo valgono meno, i cui diritti valgono meno.
Spesso parli di cosa voglia dire avere la pelle nera, ma in una tua riflessione pubblicata sui social hai scritto che essere donna e avere la pelle nera è una questione più complessa. Ti va di condividere il tuo pensiero su questo argomento?
Il fatto di essere donna forse è qualcosa che si tocca con mano più facilmente, perché sappiamo cosa rappresenta il maschilismo sistemico in una società molto patriarcale: significa essere un oggetto sessuale. Essere donna e nera ti rende, letteralmente, l’oggetto sessuale della conquista, una conquista facile volta a mantenere la superiorità su due livelli: quello del genere e quello della razza, che è proprio di stampo coloniale.
Stefania N’Kombo e Alessia Lambazzi. Fotografia di Martina Lambazzi
Toni Morrison ha una vasta letteratura che si basa sull’essere donna e nera. Nella prima pagina di «Beloved», tradotto in «Amatissima» – che è un romanzo molto bello ma di una pesantezza emotiva estrema – la protagonista vuole scrivere sulla lapide della figlia un nome che non ha e sceglie «Beloved», otto lettere per otto minuti. Otto minuti di stupro. Siamo nell’epoca dello schiavismo, nell’ambito della guerra di secessione, e la protagonista fa parte del gruppo di quei fuggiaschi neri che, dopo l’abolizione della schiavitù, scappano dai loro padroni per arrivare al nord e riaffermare la loro libertà.
Emerge così il tentativo di mantenere il potere maschile bianco su una donna, che purtroppo si manifesta anche adesso. Essere una donna nera in Italia, nel 2021, vuol dire che c’è ancora qualcuno che una sera per uscire con te ti dice: «a me piacciono tantissimo le donne nere», come se fossi la categoria di un porn
È come se fossi esaurita dal tuo corpo, da alcune caratteristiche del tuo corpo…
Sì. La difficoltà maggiore l’ho vissuta durante lo sviluppo, quando mi sono resa conto che le mie forme, la mia fisicità, erano diverse da quelle che vedevo attorno a me. Se nel contesto più piccolo in cui sono cresciuta avere un seno troppo grande, dei fianchi troppo pronunciati, era motivo di vergogna per me, qualcosa che dovevo nascondere, arrivata qui a Roma quelle parti del mio corpo sono diventate oggetto del desiderio, proprio come si desidera la pizza il sabato sera, o il dessert al banchetto del matrimonio.
Molte volte mi sono sentita un pezzo di torta da dover agognare perché ero solo ed esclusivamente il mio corpo, il corpo di una donna nera con le forme. E non è un caso che questa tendenza sia nata contestualmente alla fascinazione della cultura rap e trap riscoperta dalla cultura afroamericana, arrivata in Europa tramite la trap francese. C’è sempre questa esterofilia che ci porta a trasformare le persone in feticci.
Hai scritto: «la radice di questo peso – l’oggettificazione del corpo femminile nero – che ci portiamo addosso viene direttamente dal colonialismo». Puoi spiegarci questo concetto?
È forse l’argomento più complicato perché bisogna scavare una storia diffusa, una storia non scritta. Vari film ci hanno mostrato il corpo dello schiavo nero – che è corpo da lavoro – come fosse un animale, invece il corpo della donna viene taciuto. Quello della donna non è il corpo del lavoro manuale, del lavoro nei campi, è il corpo del lavoro sessuale. È il corpo attraverso cui il potere bianco si può manifestare tramite il sesso, che diventa violenza perpetua, è il corpo della scappatoia.
A causa di questi meccanismi di violenza si sono sedimentati una serie di bias cognitivi che vogliono la donna nera avvenente, seduttrice: è lei che ruba l’uomo alla vita familiare, per bene. La donna nera nell’immaginario collettivo è più calorosa e più focosa della donna bianca, ma tutto questo calore e questo fuoco sono rappresentativi della violenza che il suo corpo subisce. Un po’ come quando si dice che l’uomo nero per la sua fisicità è adatto ai lavori pesanti, ai lavori che in realtà farebbero gli animali in un’altra società, comunque specista. Il corpo della donna nera è per un tipo di lavoro taciuto perché non è neanche come la prostituta, è semplicemente nata per soddisfare l’uomo.
La conquista è facile esattamente come quella di una terra in cui si afferma che non c’è nessuno nonostante siano presenti delle soggettività. Questo porta a considerare la donna nera semplicemente come un corpo. Si tratta di un’oggettificazione da porre su un piano diverso rispetto a quello della donna bianca, perché nell’oggettificazione del corpo bianco c’è ancora dialettica. Per esempio, per tornare al tema del colonialismo, se la donna bianca è rispettabile nonostante sia considerata inferiore all’uomo, la donna nera non ha rispetto, non ha onore, ma non ha nemmeno vergogna. La donna nera è semplicemente corpo, deprivata e alienata – e non emancipata – anche dei meccanismi di assoggettamento presenti in un sistema patriarcale.
È normale, si pensa, che vada in giro nuda o col seno scoperto, ma in realtà non si comprende che quella cultura attribuisce un’altra importanza al corpo, una minore sessualizzazione, e viene catapultata nella cultura bianca in cui è ipersessualizzata, oggettificata e alienata di tutte quelle sovrastrutture che invece per la donna bianca vengono mantenute. Secondo una ricerca le prostitute bianche si fanno pagare più delle prostitute nere, lo stesso vale per la pornografia, e non è un caso che tutti questi costi di lavoro sovrumano si manifestino anche in altri tipi di lavori: una badante non caucasica chiede uno stipendio minore di una badante caucasica, soprattutto se ha la cittadinanza italiana. La badante non caucasica molto spesso è molestata, una molestia normalizzata che non sospetta nemmeno la denuncia. È naturale palpare una donna nera, lei ci sta. Il suo corpo lo chiede.
Poco fa dicevi che a volte il corpo delle donne nere, la loro soggettività, sembra assimilabile a una categoria pornografica. Pensi che accada anche agli uomini? In altri termini, il corpo femminile appare subordinato all’approvazione dello sguardo maschile, secondo il tuo parere il corpo degli uomini neri viene oggettificato, almeno in alcuni contesti, allo stesso modo?
È oggettificato, ma in maniera molto diversa, perché mentre il corpo della donna nera è addomesticato il corpo dell’uomo nero viene brutalizzato. Diventa una sorta di bestia poderosa da prestazioni sessuali immense, tant’è che uno dei leitmotiv della retorica di estrema destra durante il ventennio, o ancora prima quella giolittiana di stampo coloniale, era: «ci rubano il lavoro e ci stuprano le donne».
Il corpo nero subisce sicuramente una sessualizzazione e un feticismo più che un’oggettificazione. Questo determina dei piani diversi di meccanismi di potere e assoggettamento, perché di primo acchito sembra che a detenere il potere sia la donna bianca, in questo caso (dando per scontato, per aprire una piccola parentesi, che si parli solamente di rapporti eterosessuali, tant’è che l’omosessualità sembra non essere esistente per l’etnia nera. In realtà esiste e uno dei grossi problemi è provare a farlo capire al resto del mondo). A conservare il potere nei fatti è l’uomo bianco, cis, etero che di fronte al bruto dalla grande prestazione sessuale, in grado di aggredire le donne, si discosta da caratteristiche patriarcali e trasversali a qualsiasi cultura.
Non sto dicendo che gli uomini neri non abbiano problemi di machismo, al contrario, ma l’uomo bianco utilizza il sessismo altrui – reale o presentato tramite un immaginario – per presentarsi come il salvatore-civilizzatore, perché esiste anche questo mito del white-savior che ha necessità di un antagonista. Molto spesso l’uomo nero, soprattutto nell’ambito relazionale, emotivo, sessuale, è l’antagonista perfetto, soprattutto se c’è una donna bianca da salvare.
Per quale ragione l’omosessualità non ha il permesso di esistere per le persone di etnia nera?
Nel caso del corpo dell’uomo nero – perché purtroppo parliamo sempre di corpo non di personalità – la violenza diventa brutalità, la mascolinità diventa bestialità. Queste caratteristiche sono molto eteronormate, talmente tanto che si trasformano in uno stereotipo, superando tutta la sfera della fluidità dell’orientamento sessuale e dell’orientamento di genere.
Quello dell’uomo nero è il corpo bestiale per antonomasia, è il corpo cacciatore – ma cacciatore violento – che ricalca la stessa retorica del “boys will be boys” connessa all’uomo bianco, con la differenza che se in quell’ambito viene utilizzata come giustificazione qui diventa una condanna. Ciò significa che il corpo dell’uomo nero è naturalmente attratto dalla donna, nello specifico dalla donna bianca perché qualcuno ha deciso che sia più bella, ed è naturalmente portato ad essere il suo aggressore. In questo modo viene totalmente esclusa la possibilità dell’esistenza di una fluidità nell’orientamento sessuale, soprattutto in un’etnia nera talmente eteronormata e sessualizzata poiché oggettificata in senso lato.
Questo modo di pensare è molto diffuso sia in ambito occidentale sia in ambito non occidentale, penso ad alcuni paesi africani o all’America Latina. L’ipersessualizzazione quasi brutale deriva chiaramente da una cultura che esalta la mascolinità tossica, che vuole l’uomo forte, violento, senza emozioni. È problematico quando si arriva alla creazione di uno stereotipo, perché non viene semplicemente assunto dalle persone
bianche, ma persino interiorizzato: il colonialismo è anche interiorizzazione di determinati stereotipi non appartenenti alla propria cultura. Molto spesso da parte delle persone nere c’è il tentativo di ostentare e quasi rivendicare quella bestialità, perché riappropriarsi di cose che sono state imposte può servire come strumento di emancipazione. L’atto di riappropriazione, però, esclude tutta una categoria che non si rispecchia in questo.
Qualche esempio?
Un esempio lampante è la cultura rap. La cultura hip hop e rap è fatta di un’ostentazione della violenza e del machismo.
Le persone afrodiscendenti, che dalla Francia si avvicinano all’Italia grazie alla trap, mi viene in mente F.U.L.A ad esempio, stanno permettendo la riscoperta di tutta una parte del rap nel tentativo di scardinare la retorica della mascolinità tossica. Ma per una persona nera è difficile riuscire a inserirsi in questo contesto, che fra l’altro è il contesto egemone attraverso cui tutto l’Occidente conosce la cultura afrodiscendente.
Stefania N’Kombo. Fotografia di Martina Lambazzi
Nel 2019 il rapper Lil Nas ha fatto coming out ed è stata una piccola rivoluzione, perché scrive dei testi assolutamente espliciti in cui parla di un amore omosessuale con la stessa retorica di un rapper etero. Racconta in maniera trasparente il rapporto con gli uomini, il modo in cui tenta un approccio con loro e questa è una cosa molto forte. È stato inaspettato nel panorama musicale, anche perché fino ad ora si è dovuto nascondere e poi raggiunta una certa fama – quindi un privilegio – è riuscito a far sì che questo coming out lo aiutasse a rimanere nell’industria musicale. Per chi non ce la fa, però, è complicato.
Stiamo riflettendo molto sui corpi normati: ogni corpo vive in bilico tra soggezione e autodeterminazione. Il modo in cui lo manipoliamo, anche attraverso l’abbigliamento, esprime sempre un messaggio. A tal proposito, mi viene in mente la tendenza da parte delle persone caucasiche ad appropriarsi di alcune caratteristiche o accessori il cui significato affonda le proprie radici in un’altra cultura. Cosa si intende con appropriazione culturale? È una pratica che tende a depotenziare alcuni simboli?
Non so se la finalità sia quella di depotenziare il simbolo, il punto è che si depotenzia tutto l’universo culturale che circonda una determinata persona: il tema sono sempre le persone e come cancellare ciò che le rende tali. L’appropriazione culturale è un argomento difficile, molto divisivo e sottile poiché non si tratta di una questione antropologica, non si parla del meccanismo normale attraverso cui le popolazioni si mescolano. È un problema politico e sociale, ma non da intendersi come sociologico.
Esistono determinate culture, determinati modi di pensare che sono dominanti e hanno un peso in tutto l’universo culturale, definiscono canoni estetici. Non cosa è bello e cosa è brutto, ma cosa è accettabile e cosa non lo è, cosa è professionale e cosa non è professionale, cosa può definirti come una persona che ha la facoltà di avere certi diritti quali il lavoro o la casa, o come una persona da evitare perché banalmente considerata una drogata, una barbona e così via.
Il fatto che queste caratteristiche estetiche siano molto spesso vicine a una determinata etnia peggiora le cose perché si impone come meccanismo e aggravante di potere il razzismo quindi, per esempio, l’acconciatura afro e le trecce, o anche i dreadlocks, vengono considerati non professionali soprattutto perché messi in relazione a una certa etnia. Quando la cultura bianca, dopo secoli, decenni, anni di razzismo sistemico che ha investito anche l’estetica, decide di appropriarsi di quei simboli in modo da renderli accettabili, si parla di appropriazione culturale, perché lo stesso strumento che serviva ad assoggettarmi diventa il tuo vezzo estetico. Lo stesso strumento con cui mi hai fatto violenza si trasforma per alcune aziende in una fonte di arricchimento.
Se si vanno a cercare su Amazon i famosi turbanti, quelli con cui spesso ci si lega i capelli, si vedrà che le modelle alle quali viene chiesto di indossarli sono tutte bianche. Una modella nera, che poteva trarre profitto e sostentamento da quel lavoro, è stata nuovamente esclusa, così siamo di fronte a un’altra forma di oppressione, in questo caso di tipo economico. La stessa cosa capita per determinati tessuti che diventano belli e utilizzabili solo da alcune aziende che mettono a lavorare persone bianche, magari delocalizzando una parte dell’industria in paesi del cosiddetto Terzo Mondo, sfruttando quelle stesse persone senza creare l’incontro tra le culture che molto spesso si cerca di rivendicare quando si parla di appropriazione culturale. È un meccanismo di oppressione politico, economico e sociale: prendere da altre culture quando si è già preso tutto dal proprio passato aiuta molto.
Ogni corpo, dicevamo, si fa portatore di simboli e significati. Pensi che il tuo corpo abbia un significato politico?
Credo che ogni corpo abbia un significato politico. Il significato politico del corpo emerge con forza nel momento in cui ci riappropriamo delle piazze, nel momento in cui lo mostriamo, anche con orgoglio, che sia nudo o vestito. Si esprime quando acquisiamo consapevolezza del nostro corpo e rivendichiamo la nostra sessualità come strumento del piacere per noi, non per l’altro.
Uno degli esempi maggiori di appropriazione culturale, ma anche di corpo politico, soprattutto nell’ambito femminista, è stato il twerk. Ora è percepita come una pratica ipersessualizzata, ma nasce da un concetto preciso: «questo è il mio corpo e te lo sbatto in faccia». Twerkare è una roba figa, certo, ma ha una storia. La danza, un movimento con una forte carica sessuale e sessualizzante eseguito semplicemente per occupare lo spazio con i nostri corpi ingombranti, è una forma di rivendicazione nata nella sottocultura che ha portato ai moti di Stonewall.
Stiamo parlando dei corpi non conformi per antonomasia, delle sex workers, delle donne nere, delle persone transessuali, di tutti quei corpi reietti della società che se ne sono riappropriati anche in senso artistico, basti pensare alla nascita delle drag queen. Questa cultura queer è profondamente legata alla storia dei diritti civili, della riappropriazione dei propri corpi, del femminismo e anche alla storia dell’antirazzismo, ma ovviamente tutto questo si dimentica perché è più facile acquisire determinate pratiche ricordandosi solo la parte bianca della storia. In realtà è tutto molto legato e il corpo è assolutamente politico.
C’è qualcosa che ci tieni a dire prima di salutarci?
Bisogna continuare a informarsi, a dialogare e a mettersi in discussione. Con il femminismo siamo abituate a ricevere determinati attacchi o a sentire persone che si sentono attaccate, quando si parla di antirazzismo, invece, ancora mi stupisco della violenza con cui si pensa di controbattere a cose che in realtà io e tante altre persone percepiamo. O meglio, si pensa di controbattere, ma in realtà si sta semplicemente sminuendo.
Viviamo in una società patriarcale e razzista, questo significa che per come siamo stati cresciuti e cresciute ognuno di noi è maschilista e razzista. Anche io lo sono nonostante sia una donna, non etero e nera. La nostra responsabilità sta nel riuscire a metterci in gioco senza vivere ogni cosa che sentiamo come un attacco. Se poi vogliamo definirci come persone non razziste, non sessiste, come persone che credono nel fatto che gli altri abbiano diritti e abbiano diritto ad esistere, perché poi si parla di questo, la nostra responsabilità sta nel riuscire a metterci in gioco migliorandoci. Con le intenzioni non si è fatta la storia, la storia si fa con i fatti.