Quando incontriamo Cristina Cassese giugno è iniziato da poco, è una delle prime vere mattine romane di sole pieno, le scuole hanno concluso l’anno accademico da un paio di giorni e sembra che la città cominci a stiracchiarsi prima di prendere nuove abitudini. I movimenti intorpiditi di Ostiense insieme ai suoi colori pastello ci cullano fino al meraviglioso spazio di co-working di Industrie Fluviali. L’appuntamento è qui, per parlare di corpo femminile e stigmatizzazione sociale, di relazioni umane e sociali in cui natura e cultura si intrecciano minuziosamente senza possibilità di stabilire quale sia l’acqua e quale sia l’olio.
Lei è un’antropologa, femminista intersezionale, il cui interesse nei confronti del corpo nasce dal teatro, dove inizia a lavorare appena adolescente a livello professionista. «A teatro il corpo c’è» – ci dice – «prima di ogni altra cosa si vedono dei corpi in scena». L’antropologia, nello specifico l’antropologia che si occupa dei corpi e della loro rappresentazione, arriva più tardi, negli anni della specialistica universitaria.
Il femminismo arriva un po’ più tardi ancora, spinto dal forte interesse per «tutto ciò che sta ai margini, tutto ciò che in qualche maniera è discriminato o stigmatizzato» e attraverso l’approfondimento di un argomento specifico e personale, quello del menarca. «Ho avuto la prima mestruazione a 9 anni e 4 mesi, mi interessava capire in che modo le società umane – nel tempo e nello spazio – fossero riuscite a simbolizzare un evento naturale, imponderabile e imprevedibile. C’è più o meno una norma, quella della pubertà, ma che può voler dire tantissime cose nella realtà dei corpi».
Prima di parlare di corpo femminile e stigmatizzazione sociale, forse potremmo introdurre l’argomento chiedendoci se esiste un archetipo o un’idea socialmente costruita dell’immagine del corpo femminile dai quali fatichiamo a prendere le distanze.
Gli archetipi di Jung sono quasi tutti declinati al maschile in modo univoco, vedi l’eroe, il guerriero. Credo, però, che esista un archetipo femminile legato al corpo, presente grossomodo in tutti i sistemi culturali del mondo ed è ovviamente connesso alla fertilità e alla riproduzione.
L’intreccio tra natura e cultura, in particolar modo nel corpo, si palesa in maniera molto evidente perché a differenza di altre questioni umane, quella del corpo appare come la più naturale e facciamo molta fatica a comprendere che anche il corpo per noi esseri umani non è affatto lasciato così com’è allo stato di natura, ma viene fin da subito, già prima della nascita, indicato, simbolizzato e costruito culturalmente.
Nel caso dei corpi femminili c’è questa associazione – se vogliamo anche legittima – perché il corpo femminile è quello che, a differenza del corpo maschile, è in grado di essere ingravidato e quindi diventa immediatamente un corpo “strano”, in quanto corpo che può contenere un altro corpo. Questa è una cosa molto affasciante e molto misteriosa, quindi da controllare. Lo stigma sui corpi femminili certamente è legato a questo bisogno che gli umani avvertono di controllare un corpo in un certo senso speciale, nella sua accezione più neutra, e quindi di attribuire a questo corpo dei segni più marcati rispetto al corpo maschile.
Cristina Cassese e Chiara Formica. Fotografia di Francesco Formica
Riguardo alla storia dell’Occidente l’evento che ha esasperato la stigmatizzazione dei corpi femminili è certamente il cristianesimo. Nelle culture antiche del mondo greco e del mondo romano, questa anomalia era relativamente centrale, per lo meno al livello di rappresentazione collettiva. Con il cristianesimo invece abbiamo un’icona molto chiara e molto precisa che è quella della vergine Maria, attraverso la quale l’abbinamento corpo femminile-maternità diventa un’equazione.
E lo stigma della riproduzione può essere inserito in un processo evolutivo o è rimasto inalterato?
Entrambe, io credo. Da una parte il dato biologico è rimasto inalterato – magari tra qualche decennio anche i corpi maschili potranno contenere un altro corpo e lì sarà interessante vedere che cosa succederà – e continua ad essere centrale, dall’altra parte però non può essere rappresentato sempre allo stesso modo. È universale e relativo allo stesso tempo. Universale per via biologica, ma relativo sia al tempo che allo spazio: le culture mondiali non hanno rappresentato e non rappresentano i corpi femminili secondo lo stesso stigma o modello dominante.
La nostra caratteristica come sapiens è proprio la variabilità: una caratteristica uguale per tutta la specie, la specie la interpreta e la declina in tantissimi modi diversi. Questo ci dà la misura della centralità della cultura. La stigmatizzazione di Erving Goffman, intesa come marginalizzazione, è una variabile che possiamo notare soprattutto in alcuni periodi storici, più marcata rispetto ad altre o in alcune società. L’idea dei corpi femminili come intimamente e radicalmente legati alla riproduzione è decisamente molto più trasversale, invece.
Da quali elementi derivano le differenze tra culture?
Entrano in gioco moltissimi fattori, in parte c’è anche una dose significativa di elementi misteriosi che la stessa antropologia non è in grado di codificare fino in fondo. C’è sicuramente un’influenza di tipo ambientale, quindi l’ambiente inteso nella sua accezione più ampia come spazio e anche come clima, che determina una serie di necessità. Poi ci sono anche delle coincidenze, nella storia dell’umanità avvengono per caso cose che stravolgono una società e un sistema culturale che devono poi per forza adattarsi.
Dopo l’elemento ambientale, quindi, c’è quello del caso legato ad avvenimenti fortuiti, ma influiscono fortemente anche le storie. Siamo l’unica specie al mondo che racconta storie e questa caratteristica ci permette di costruire culturalmente la realtà. E anche le storie sono allo stesso tempo universali e relative, perché ogni cultura ha le stesse problematiche ma le rielabora a modo suo. Nel caso degli stigma, a maggior ragione, le storie hanno la loro importanza. Il corpo stigmatizzato viene raccontato sempre in un certo modo.
Dietro la fatica a lasciar andare la stereotipizzazione e la stigmatizzazione della funzione riproduttiva del corpo femminile si nasconde forse la più grande fragilità del sistema patriarcale. Sarà possibile distaccarsene completamente?
Credo che in realtà ce ne stiamo già distaccando, sta già succedendo, ma sono processi lunghi e questa è la cosa più frustrante. Le nostre necessità individuali non coincidono con l’evoluzione della specie che, per quanto abbia ricevuto una notevole accelerata negli ultimi secoli rimane ancora abbastanza lentina, e rispetto a questo tema c’è ancora molta strada da fare. Si può dire che storicamente abbiamo appena iniziato, però credo che sia già un processo in atto. E non perché siano cambiate le condizioni biologiche, ma perché sta cambiando la concezione che ruota intorno a quel fattore biologico. Ma morto uno stigma se ne farà un altro. Ne abbiamo bisogno.
Quando un corpo diventa stigmatizzabile? E soprattutto, se vogliamo liberarci dall’accezione negativa che porta con sé il termine “stigma” non dovremmo smettere di utilizzarlo?
Se prendiamo il significato letterale della parola stigma tutto sommato non è né negativo, né positivo, perché lo stigma è il segno, è ciò che si vede sul corpo. Effettivamente però, nella storia dell’umanità ha sempre voluto indicare una caratterista non conforme rispetto ad un sistema dominante.
Credo che il problema sia lì: noi esseri umani siamo portati a creare un modello dominante, qualunque esso sia, ma lo scatto sta nel comprendere che in realtà quel modello dominante non esiste perché è semplicemente una convenzione. Non esiste nessuna e nessuno che può rispondere esattamente a quel modello, in quanto astratto. Se riusciamo a comprendere che si tratta di convenzioni, i margini si allargano.
La stigmatizzazione e quindi la marginalizzazione e l’esclusione nascono dalla non aderenza, più o meno significativa, a questo modello dominante. Se riusciamo a fare questo passo allora probabilmente la stessa parola stigma assumerà un significato diverso, avrà un’accezione diversa.
Cristina Cassese. Fotografia di Francesco Formica
Il linguaggio è importante perché di fatto le parole creano la realtà, cercare di utilizzare parole che non siano rigide è fondamentale. Il problema dell’umanità è considerare le tradizioni, le culture come qualcosa di inamovibile, quando invece la nostra storia non fa che dimostrare il contrario: in continuazione noi non facciamo altro che cambiare, sostituire, modificare, allargare, assecondare fattori sociali, umani e politici.
Trasmettere questo fa la differenza ed è il motivo per cui ho iniziato a fare il podcast un anno fa. Non semplicemente per raccontare le varie cose bizzarre che gli esseri umani fanno in giro, ma perché l’antropologia ha il grande merito di offrire uno sguardo mobile sulla nostra specie.
Siamo costruzioni culturali, sociali, ma una buona fetta della società ci intende come esseri naturali (espressione evidentemente fuorviante), interpretando come universali costruzioni sociali. Come riusciremo a pensare oltre lo stigma?
Comprendendo che in noi umani natura e cultura sono due facce della stessa medaglia. Sicuramente non è un percorso semplice e immediato, in un certo senso è controintuitivo. Credo tantissimo nella divulgazione scientifica e nella sua capacità di far comprendere che quando si parla di natura e cultura in relazione ad esseri umani non è possibile comprendere dove finisce una e dove inizia l’altra.
Rientra in questo schema anche la disabilità, che è un prodotto della società. È la società che stabilisce quel determinato modello di conformità e a seconda del grado in cui le nostre caratteristiche non ne siano rispondenti si stabilisce il livello di disabilità. In un certo senso siamo tutti disabili, tutti quanti abbiamo qualcosa che si discosta e non funziona secondo il modello standard di cui parlavamo prima. Nessuno di noi è perfettamente abile.
Secondo quali schemi la società occidentale privilegiata, quindi bianca etero cisgender stigmatizza le persone che non rispecchiano il suo rigido modello di conformità? Mi vengono in mente, ad esempio, le persone considerate queer?
Questo modello è il risultato di secoli di stratificazione di elementi funzionali. Al suo interno sono state generate varie stigmatizzazioni, come dicevamo quello femminile è riconducibile alla riproduzione ma la sua valenza è ambivalente e doppia perché da un lato è seduttiva ed erotica, ma dall’altro deve essere anche casta. Il binomio della santa e della puttana viaggia sul corpo femminile ed è ancora molto forte.
Nel caso, invece, dei corpi maschili c’è evidentemente lo stereotipo legato al machismo, ad un’idea di maschilità collegata alla forza fisica, derivante dal fatto che per moltissimo tempo i corpi maschili sono stati utilizzati per controllare territori, espanderci e difenderci dagli attacchi. Ma anche qui, a ben guardare, non sempre l’attività bellica è stata di dominanza maschile.
Il concetto di queer, che non a caso è traducibile come “strano”, riporta alla dicotomia tra normalità e stranezza, a cui è ricondotto tutto ciò che viene percepito come diverso. Ma la domanda è: diverso rispetto a cosa?
Anche il cristianesimo ha influenzato moltissimo l’attitudine alle stereotipizzazioni.
Sì, le religioni in generale. Il cristianesimo per noi occidentali e buona parte delle popolazioni del Sud America convertite a forza. Sicuramente le religioni hanno un’influenza potentissima sulle società umane, qualsiasi religione.
La religione, da “religo” che significa mettere insieme, non fa che legare una comunità stabilendo delle regole. Il controllo dei corpi femminili acquisisce particolare importanza dal punto di vista religioso proprio perché è un modo per tenere sotto controllo le nascite.
La questione del controllo dei corpi femminili è trasversale, la ritroviamo in tutte le culture, non a caso la violenza di genere sulle donne è un problema globale: possono cambiare le forme e i metodi di coercizione, di inibizione dei corpi, ma non c’è società in cui non sia presente perché è strettamente connesso al fattore biologico del corpo che contiene un altro corpo. L’oggettificazione del corpo femminile è un processo iniziato moltissimo tempo fa e si è radicato. La cultura del possesso del corpo femminile è millenaria, l’unico antidoto è l’educazione alla relazione.
Il fattore riproduzione si sta via via sempre più emancipando rispetto al dato biologico, noi oggi siamo in grado di riprodurci senza accoppiamento e questo è già un fatto che scardina un meccanismo naturale e sarà interessante vedere cosa succederà quando andremo avanti su questa strada.
Un’educazione alla relazione che riguardi anche le donne, così che riescano a guardarsi nella società e nel rapporto sentimentale in maniera diversa…
Certo, questo è fondamentale. I meccanismi del patriarcato li mettiamo in atto tutti e tutte. Anche chi si definisce femminista come me, ogni giorno o quasi, si rende conto di avere comportamenti maschilisti, abitudini che riflettono il modello patriarcale. Preferisco parlare di processo e non di lotta al patriarcato, perché questa può essere facilmente intesa come una lotta tra maschi e femmine. Trovo che sia più efficace e sicuro un discorso legato ai processi, più o meno lunghi che siano.
In questo senso i social sono uno strumento potentissimo e forse la pandemia ce li ha fatti rielaborare perché erano l’unico luogo in cui potevamo incontrarci, la piazza virtuale, mentre prima erano soltanto il luogo dell’isolamento. Sono strumenti di divulgazione e di rappresentazione visiva, e questa ha un ruolo importantissimo nella definizione dei modelli, degli stereotipi e della conformità. Il modello di conformità deciso dalla società è quello che poi viene riprodotto nell’arte, nella produzione teatrale e dappertutto perché il modello va divulgato e promosso. Tutti devono sapere come si deve essere.
Cristina Cassese. Fotografia di Francesco Formica
I social in questo senso sono un mezzo pazzesco perché a quel punto non c’è più un unico modello, ma potenzialmente migliaia. La contaminazione è il motore della nostra evoluzione, come specie ci continuiamo ad evolvere perché ci contaminiamo continuamente gli uni con gli altri. La questione è riuscire a trasmetterlo in maniera rassicurante.
Il cambiamento fa paura perché è ignoto e quindi le persone preferiscono rimanere lì dove conoscono ciò che li circonda…
Una delle cose che sento dire più spesso per quanto riguarda i modelli stereotipati maschili e femminili e le questioni di genere ha a che fare con la famiglia. Tante persone hanno paura perché pensano che nel momento in cui verranno a mancare i ruoli di genere stabiliti dal patriarcato la famiglia andrà in crisi. Ma sta già succedendo: quel modello di famiglia è in crisi.
Ma cos’è la famiglia? La famiglia naturale non esiste, anche il modello dominante non è naturale ma culturalmente costruito. Ad esempio, nelle società matrilineari, che non sono società femministe, le figlie e i figli non vengono considerati del padre, ma del fratello della madre. A dimostrazione che i legami biologici non sono determinanti, mentre lo sono invece i legami sociali e culturali e l’adozione ce lo conferma.
Le culture sono quasi affezionate allo stereotipo…
Lo stereotipo serve, lo stereotipo ci orienta. Non possiamo fare a meno di modelli di conformità a cui fare riferimento, ma sarebbe il caso di ricordarci che sono appunto modelli astratti, convenzioni. Siamo anche molto influenzati dal modo in cui intendiamo le scienze dure, quindi la biologia, la fisica, la chimica, la matematica, quelle che non a caso chiamiamo le scienze esatte, come se fossero inamovibili, ma non lo sono affatto. Anche le scienze sono prodotti culturali legati al modello di riferimento dell’epoca. Serve del tempo per rendersene conto.
E forse anche il coraggio.
Anche il coraggio di rischiare, perché a noi i modelli fanno comodo. I modelli stereotipati e conformati sono la nostra comfort zone. Tutti, tranne chi non ne fa parte, si sentono sicuri e a loro agio nello stare dentro questi modelli di conformità.
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