Il non tempo. Il solo luogo. Il carcere e i suoi corpi esclusi: i corpi trattenuti.
Per la persona detenuta il corpo è richiamo all’esistenza e condanna allo stesso tempo. È l’altare su cui si celebra la storia delle privazioni e delle sospensioni, della violenza e della solitudine. È così che i corpi trattenuti in carcere diventano per alcuni un involucro dentro il quale preservare i ricordi e le sensazioni della vita, per altri un contenitore da cui cercare di distrarsi per non avvertirne il senso di oppressione. C’è chi ha bisogno di sentirlo un corpo per assicurarsi di essere vivo e chi ha bisogno di dimenticarsene per non rischiare di morire.
Anni fa, una persona detenuta mi disse di essere un uomo libero perché il carcere tratteneva il suo corpo ma non i suoi pensieri, non la sua musica. Con questi lui era sempre fuori di lì. I suoi progetti proseguivano e con loro il suo decidersi libero.
Carcere e corpi trattenuti: il capro espiatorio da esibire, l’animale in gabbia da nascondere
I corpi reclusi fanno la storia delle strutture detentive: danno un senso a quelle mura, un racconto che vale sempre la pena ascoltare. Quando si parla di corpi trattenuti in carcere non si parla unicamente di marginalizzazione o di mancata rappresentazione, ma di potenziale de-umanizzazione.
Fotografia di Francesco Formica
Anche il corpo delle persone detenute è un corpo politico, ma quasi completamente sprovvisto di attività e di potere decisionale. È politico in quanto mezzo, in quanto veicolo e messa in scena della punizione. È il corpo su cui ricade la punizione esibita del capro espiatorio ed è il corpo punito dell’animale nascosto e messo in gabbia. Sui corpi trattenuti è scritta la storia del potere punitivo.
Il corpo occupa lo spazio e il tempo che riusciamo a vivere. Grazie al corpo sappiamo cos’è il vento, conosciamo la pelle di un altro corpo a contatto con il nostro, concepiamo l’impulso al movimento. Ci ha insegnato che l’aria nei polmoni è sollievo, che sbarre di ferro e blindati sono l’invalicabile, dietro al quale è necessario mantenere in ogni caso il diritto ad esistere con la dignità che spetta ad un essere umano.
Il carcere, ora, è l’incarnazione del principio del nascondimento, ma non è sempre stato così. La storia della punizione coincide con l’evoluzione della storia del corpo punito: prima esposto in pubblica piazza alla tortura e alla condanna a morte e poi chiuso in una cella, all’interno di un luogo separato e ai confini estremi della società.
Fotografia di Francesco Formica
Del resto, lo stesso Michel Foucault nelle lezioni al Collège de France del 1972-73, ricostruendo l’evoluzione storica delle strategie punitive, individuava quattro fasi della pena: “escludere”, “riscattare”, “marchiare” e “rinchiudere”.
Se nella società greca arcaica punire significava esiliare, nascondere per dimenticare, allontanare il corpo deviante affinché non contaminasse il tessuto sociale, il passaggio successivo fu fortemente connotato dal senso retributivo della pena, nel quale il riscatto, l’ammenda, equivaleva al risarcimento del danno subìto.
La terza fase, dal Medioevo fino al XVIII secolo, segna un momento di cesura importante perché sceglie di marchiare indelebilmente il colpevole, a differenza dell’esclusione della prima fase, la cui intenzione era la salvaguardia della società e a differenza del riscatto, la cui attenzione verteva sui danni prodotti dal reato fine a stesso. Ecco che il bersaglio dell’esecuzione diventa il soggetto responsabile e l’atto del punire viene ridotto al punire per punire. Da quel momento in poi, dal reato è impossibile riscattarsi: al contrario deve essere ricordato come un tratto distintivo di chi lo ha commesso. L’ultima fase del “rinchiudere” veste il marchio di un abito rispettabile e socialmente accettabile. È l’espressione punitiva della nostra epoca per la quale «il castigo è passato da un’arte di sensazioni insopportabili a una economia di diritti sospesi», come perfettamente sintetizzava Foucault.
Fotografia di Francesco Formica
Dalla cicatrice visibile e scabrosa del marchio al dolore sommesso e soprattutto impercettibile dei luoghi di detenzione: il corpo recluso serve a dimostrare la magnanimità del potere pubblico, che sente l’urgenza di dirsi diverso dal boia delle grandi adunate in piazza. I corpi trattenuti – senza cicatrici in bella vista – sono l’alibi perfetto per un sistema penale e penitenziario che solo esistendo, alle condizioni attuali, contraddice se stesso.
Santa Maria Capua Vetere. I corpi maltrattati del reparto Nilo
Accade, a volte, che il dolore delle carceri non sia così tanto sommesso e che qualche cicatrice riesca ad essere intravista anche da fuori. Il video del pestaggio delle persone detenute, recluse nel reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere, avvenuto agli inizi di aprile 2020, per la precisione il giorno seguente alla rivolta scoppiata all’interno dell’istituto durante il periodo del primo lockdown, sta – auspicabilmente – scuotendo qualche coscienza.
52 agenti di polizia penitenziaria hanno ricevuto un’ordinanza cautelare e il provveditore regionale un’ordinanza interdittiva. Secondo la Procura «i Pubblici ufficiali sono gravemente indiziati dei delitti di concorso in molteplici torture pluriaggravate ai danni di numerosi detenuti, maltrattamenti pluriaggravati, lesioni personali pluriaggravate, falso in atto pubblico, calunnia, favoreggiamento personale, frode processuale e depistaggio».
Ma non si tratta certo di un primo ed isolato caso di maltrattamento e tortura all’interno degli istituti di pena. Tra i pochi e fortuiti episodi arrivati in Tribunale, i cosiddetti “fatti di Asti”, avvenuti fra il 2004 e il 2005. In questa occasione un gruppo di agenti, rinviati poi a giudizio nel 2011, torturavano quotidianamente due detenuti, ritenuti pericolosi ed irrispettosi. Il giudice aveva esplicitamente riconosciuto che si trattava di violenze continue e perpetrate nel tempo e quindi di vera e propria tortura. Eppure, non furono condannati per questo perché il reato di tortura non era ancora parte del codice penale italiano.
Un altro caso che è riuscito a superare le mura detentive e ad essere raccontato anche nel libro Abolire il carcere di Manconi, Anastasia, Resta e Calderone, quello di Rachid Assarag: nel 2010 detenuto al carcere di Parma, dove aveva denunciato i pestaggi subiti per mano di alcuni agenti di polizia penitenziaria. Il caso è diventato noto anche perché il detenuto era riuscito a far entrare illegalmente un piccolo registratore con il quale documentava le risposte dategli dagli agenti e dal medico del carcere. Nonostante gli audio e le testimonianze raccolte, il pm decise per l’archiviazione del caso come uso legittimo della forza. Qualche anno più tardi, il 16 maggio 2016, Rachid Assarag è di nuovo vittima di violenza, questa volta all’interno del carcere di Piacenza: alcuni video delle telecamere dei circuiti interni al reparto riportano immagini incredibili. Dieci agenti, alcuni in tenuta antisommossa, che entrano nella cella di Assarag per picchiarlo. Due volte a distanza di cinque ore. Ma anche questa volta il pm richiede l’archiviazione del caso come uso legittimo della forza.
Fotografia di Francesco Formica
Per l’introduzione del reato di tortura in Italia bisognerà aspettare il 2017. Il testo di legge approvato, tra l’altro, fu ampiamente criticato da Amnesty International Italia e Antigone Onlus, che lo avevano definito di difficile applicazione, perché limita la tortura ai soli comportamenti ripetuti nel tempo e riduce drasticamente l’ipotesi di tortura mentale. Lo stesso senatore Luigi Manconi, firmatario del decreto legge originario, si astenne dalla votazione in Senato non riconoscendo più nel testo i principi umanitari della difesa della dignità personale, che lo avevo mosso alla stesura. Amnesty International specificava, inoltre, che questa legge dimostra unicamente la volontà di proteggere a qualunque costo gli appartenenti all’apparato statale.