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Mestruazioni. «Il dolore mestruale non è normale, bisogna accettarlo», Chiaradicecose

Il menarca, per molte persone, è considerato un rito di passaggio. Le mestruazioni sono un evento fisiologico, che però assume dei tratti culturali. Con Chiara Gattavecchia, @Chiaradicecose, abbiamo riflettuto proprio sul significato di cui la parola mestruazioni è stata investita nella nostra cultura, provando a comprendere la ragione per cui si passa dal considerarle un’occasione di festeggiamento a un tabù o una fonte di pericolo e mistero, rendendo difficoltoso anche soltanto nominarle nel modo corretto: il ciclo, le mie cose. Queste soltanto alcune delle espressioni più utilizzate.

Durante la nostra chiacchierata è emersa la tendenza a invalidare la rabbia delle donne e quella che porta a considerarle come corpi in grado di riprodursi, la cui esperienza di dolore viene costantemente normalizzata e sminuita proprio alla luce di questa capacità, nonché l’importanza di prendere consapevolezza del proprio privilegio che porta a dimenticare non soltanto il vissuto degli uomini transgender ma anche l’impossibilità per alcune persone di accedere a prodotti alternativi per l’igiene mestruale, certamente più rispettosi dell’ambiente ma anche più impattanti nella vita delle persone.

Ho la sensazione che le mestruazioni abbiano assunto, nel tempo, una doppia valenza: da un lato vengono considerate un rito di passaggio, spesso celebrato in famiglia, dall’altro sono concepite come qualcosa di pericoloso e misterioso. Anche attraverso il linguaggio si utilizzano espressioni che tendono ad aggirare il termine corretto: mestruazioni. Perché questa duplice accezione?

Nessuno della mia famiglia ha festeggiato quando ho avuto il menarca, quindi sono sempre stata molto distante da quel contesto familiare in cui si fanno osservazioni del tipo «ora sei una donna», cose che penso altre persone abbiano vissuto. Per me è stato più come un tabù, perché mi è stato fatto capire che non dovevo sponsorizzare il fatto. Non si trattava tanto di negare che fossi una donna, quanto di dire: «questa è una cosa di cui ti devi vergognare». Non mi è stato detto esplicitamente, ma è il messaggio che è passato.

D’altro canto quando ho avuto le mestruazioni per la prima volta la società si stava evolvendo e mi trasmetteva un altro pensiero cioè che si poteva parlare di mestruazioni, ma in un modo occultato: «il ciclo» – termine scorretto peraltro – «le mie cose». Per lunghi anni le ho vissute, devo ammetterlo, con un certo fastidio. Per me erano solo un problema, un ingombro. Nessuno e nessuna, soprattutto nella mia famiglia, mi ha mai spiegato bene come comportarmi rispetto alle mestruazioni, per cui tutto quello che so l’ho imparato da autodidatta e in parte ascoltando, ma sempre in un contesto di imbarazzo.

Ci ho messo molti anni ad arrivare alla consapevolezza che ho adesso e per assurdo sono diventata molto più consapevole rispetto al mio corpo, alle mestruazioni, quando ho scoperto di avere l’endometriosi. È incredibile per me pensare che ci sia voluta una malattia per imparare ad ascoltare il mio corpo, perché è questo a mio parere che non viene insegnato: ascoltarsi. Al momento mi sembra che in famiglia le cose stiano un po’ migliorando ma a livello sociale, guardando anche ai media, la situazione non è tanto variata rispetto a vent’anni fa. La comunicazione è in parte stigmatizzante e in parte occultante.

Volevo affrontare proprio il discorso della rappresentazione mediatica delle mestruazioni, soprattutto in relazione agli spot pubblicitari. Perché sembra così assurdo mostrare il sangue mestruale?

Ho letto recentemente Questo è il mio sangue, un libro nel quale Elise Thiébaut cerca di analizzare la ragione per cui il sangue mestruale è così stigmatizzato. Mi ha colpito il paragone con il sangue delle ferite: l’autrice si chiede perché se sanguiniamo a seguito di un taglio nessuno si sconvolge, mentre se ci macchiamo durante le mestruazioni risulta scandaloso. La difficoltà ad accettare il sangue mestruale mi sembra una cosa prettamente maschile, forse perché proviene da una parte del corpo dedicata esclusivamente, secondo molti uomini, al piacere sessuale.

Nelle pubblicità il sangue spesso viene presentato come liquido blu, giustificando questa scelta con la presunta impossibilità di mostrarlo, il che è assurdo perché si tratta di una cosa naturale. Più la si nasconde più aumenta la stigmatizzazione, anche rispetto al dolore correlato alla perdita di sangue. Molte donne negli spot fanno le capriole, saltano, vanno al mare e anche questo aumenta lo stigma perché le persone si convincono che quello sia l’unico modo normale e accettabile di avere le mestruazioni: il messaggio è che si tratta di un piccolo fastidio da poter nascondere, qualcosa di passeggero. Penso ai tamponi interni, per esempio, con i quali sembra possibile fare ciò che si vuole. Questo tipo di comunicazione è problematico.

Lo stigma ha anche delle ricadute pratiche, penso al congedo mestruale e alla difficoltà che tante donne incontrano a svolgere attività quotidiane in quei giorni. È una condizione difficile da comprendere se non si riesce neanche a parlare in modo chiaro di ciò che accade nel corpo di una donna quando ha le mestruazioni.

Al lavoro è accettabile dire: «sto a casa perché ho la febbre», ma non è accettabile dire: «devo stare a casa perché ho le mestruazioni e non riesco a stare in piedi». Questo è un problema anche per chi ha delle malattie correlate al ciclo mestruale, penso alle tante ragazze che soffrono di endometriosi. Io non ho dolori fortissimi, ma tante persone si chiedono perché non possano giustificare il proprio dolore stando a casa.

Le statistiche ci dicono che oltre il 50% di donne si costringe ad andare al lavoro nonostante i dolori perché sanno benissimo che nell’ambiente lavorativo, a prevalenza maschile, quell’assenza non verrà accettata. Addirittura ti dicono che devi resistere perché «sei una donna, è normale, bisogna tenere duro». Lo hanno detto anche a me. Non solo uomini, anche le donne invalidano il dolore di altre donne. Io stessa in passato mi sono comportata così svalutando il mio di dolore, mi colpevolizzavo per non avere abbastanza resistenza.

Quello che viene suggerito a molte persone, attraverso le pubblicità di antidolorifici come Buscofen, ad esempio, è di accettare passivamente il dolore utilizzando, al massimo, un palliativo per sentirne di meno. Anche questo è occultamento e invalidazione delle sensazioni fisiche e mentali che prova una donna durante le mestruazioni e, in generale, il ciclo mestruale. Io aspetto ancora il momento in cui si deciderà di usare tutte le marche di assorbenti o di mostrare il colore del sangue. Per quanto riguarda i media, si affronta il discorso solo nel caso di persone famose che hanno una patologia. Se ne parla maggiormente sui social, ma il messaggio non riesce a raggiungere tutti e tutte.

Talvolta il dolore mestruale viene normalizzato anche dalla classe medica. In che misura, secondo te, questo modo di pensare ha a che fare con la cultura patriarcale in cui ci troviamo immersi e immerse?

Credo che sia un retaggio connesso all’idea della donna che deve stare zitta, buona, in cucina. È un modo di pensare che sembrava sradicato, ma permane ancora in maniera sottile nella forma del sessismo benevolo. In quanto donne e in quanto capaci di dare la vita saremmo in grado di sopportare ogni genere di dolore senza lamentarci, un pensiero figlio di quella cultura patriarcale che poi ci sobbarca di tutti i lavori di cura.

Tutto questo alle volte si traduce in un gaslighting medico nella misura in cui quando vai da un ginecologo soprattutto, o da una ginecologa, non vieni ascoltata e spesso ti ritengono sofferente di qualche disturbo mentale. Alcune persone con endometriosi si sono dovute recare da psicologi e psicologhe perché considerate pazze – utilizzo il termine brutale che usano le persone che ne parlano. Reputare automaticamente folle una donna che sta esponendo una sofferenza smaschera l’antico retaggio secondo cui colei che non china la testa sia per forza un’isterica. Tra l’altro si dice che l’isteria non fosse altro che endometriosi interpretata come follia e oggi è rimasto quel legame tra un problema del corpo e un problema della mente.

Per alcune persone passano dieci anni prima di ottenere il riconoscimento di disturbi quali endometriosi, vulvodinia o qualsiasi altro problema inerente al corpo femminile, perché non essendo credute vengono sballottate da un medico all’altro con mille esami da fare. Negli Stati Uniti, per quanto abbiano i loro contro, la ricerca relativa all’endometriosi è presa molto seriamente, mentre qui in Italia se ne parla solo sui social perché l’investimento sulla ricerca è basso e i centri che se ne occupano fanno fatica a sensibilizzare. Quando il discorso riguarda il corpo femminile la risposta è che bisogna sopportare, quando si tratta di corpo maschile – su cui sono basati molti studi medici – l’attenzione è alta. Il corpo femminile è considerato un oggetto di piacere che deve semplicemente rispondere a dei canoni e quando non succede si cerca di silenziarlo, riuscendoci molto spesso.

Perché in Italia è ancora così difficile parlare di endometriosi e investire nella ricerca rispetto, ad esempio, agli Stati Uniti?

Gli Stati Uniti hanno maggiori possibilità di investire sulla ricerca, ma oltre all’aspetto economico credo dipenda da una maggiore tranquillità nel trattare certi argomenti. L’Italia si deve svecchiare, non c’è ancora stata la presa di consapevolezza, soprattutto da parte di chi insegna alla futura classe medica, di come praticare la professione. Non si trasmette, a mio avviso, un’etica dell’empatia, quindi dell’ascolto, ma si insegna un’etica della somministrazione o dell’accettazione di una condizione che sembra immutabile. Non esiste il tentativo di personalizzare il percorso di cura, non si va oltre il medicinale.

Molti ginecologi e ginecologhe di fronte a patologie dell’apparato riproduttivo si limitano a prescrivere una pillola a dosaggio ormonale senza cercare un riferimento nutrizionale o verificare la salute del pavimento pelvico. Oltre ad avere un sistema educativo sbagliato alla base, molti medici sono over 50 quindi in tanti casi sono fossilizzati su un determinato modo di curare i pazienti. Le prossime generazioni secondo me faranno un passo ulteriore, ma ora tocca a noi pazienti insistere per essere almeno ascoltate. C’è la speranza, dopo l’ascolto, di vedere un’evoluzione.

Forse tutte queste criticità che stiamo sviscerando potrebbero avere a che fare con l’idea della donna come corpo che si riproduce, che deve riprodursi. Se hai le mestruazioni la sofferenza è un piccolo effetto collaterale, ma la cosa importante è che funzioni.

Esatto, è la dimostrazione che sei ancora utile alla società. Basti pensare che recentemente in politica è stato proposto un aiuto in denaro alle donne che scelgono di avere figli. Quando una donna dichiara di non averli, o di essere in menopausa anticipata, non esiste più. Io stessa, recandomi nel centro che mi sta curando, ho espresso la volontà ferrea di non volere figli, quindi di non essere interessata all’aspetto conservativo degli interventi ma a stare bene, e hanno fatto fatica ad accettare quello che ho detto loro. È come se non volendo figli valessi meno.

Sembra che ci sia un’ossessione verso la procreazione dimenticando che noi donne non siamo delle incubatrici, possiamo autodeterminarci. Anche quando si parla con parenti e amici del fatto di non volere figli spesso si viene trattate come se si odiasse la vita, come se non fossimo donne complete. Se dici che ti stai piegando in due dal dolore per le mestruazioni, invece, pensano che tu sia in salute, anche se qualcosa evidentemente non sta funzionando. Il dolore mestruale non è normale, ma questo non viene accettato. All’inizio anche io rifiutavo l’idea, e come me tante altre donne, perché ci hanno insegnato che così deve essere e il pensiero di avere qualcosa che non va spaventa.

A volte sembra che la rabbia delle donne venga correlata alle mestruazioni con il risultato di invalidarla, pensiamo a frasi del tipo «sei nervosa? Hai il ciclo». Perché accade?

Nel libro La rabbia ti fa bella, Soraya Chemaly a un certo punto tratta il tema della mestruazione come giustificazione per accettare la rabbia femminile, perché c’è proprio un problema a concepire che le donne possano arrabbiarsi. Fin dalla più tenera età alle bambine si insegna che non devono mai reagire, che il broncio è brutto. A me dicevano: «sorridi un po’ di più, sei sempre così seria», al contrario ai bambini se si arrabbiano dicono che stanno dimostrando di essere decisi.

È da lì che parte l’educazione a non sviluppare e non lavorare sulla propria rabbia quando si è donne, che poi si evolve nella frase: «sei arrabbiata perché hai le mestruazioni». Quello che dici in quel momento viene considerato un delirio, perché una donna che si arrabbia è ancora difficile da accettare nella nostra società. Si pensi al modo in cui vengono trattate le rappresentanti politiche di diversi partiti quando dimostrano di essere assertive e di avere idee bene inquadrate mostrando un aspetto di rabbia in relazione a qualche ingiustizia: vengono schernite e definite isteriche. In questo modo tra l’altro si invalida l’intero movimento femminista, perché le femministe nel pensiero comune hanno sempre le mestruazioni e soprattutto non sorridono mai.

Un uomo, un politico o un manager che durante una riunione sbatte i pugni sul tavolo ha due palle così. Una donna che si comporta allo stesso modo viene considerata anche dalle altre donne una fuori di testa oltre ad essere aspramente criticata. È la stessa idea che porta le aziende ad assumere donne perché si pensa che sappiano gestire meglio i rapporti umani, c’è un binarismo perenne a tutti i livelli.

Non soltanto le persone assegnate al sesso femminile alla nascita hanno le mestruazioni. Ne parli spesso sul tuo profilo, ma è un discorso che si affronta ancora molto poco.

Il discorso parte dal modo in cui la società ancora vede le persone trans, in particolare da come la società intende il corpo della persona trans. C’è una curiosità morbosa rispetto alle funzioni vitali e sessuali, ma non c’è interesse a prestare aiuto a quel corpo nella sua interezza e integrità. Penso all’umiliazione che gli uomini trans subiscono nel momento in cui si sottopongono a una visita ginecologica, laddove non abbiano effettuato l’operazione. Molti uomini transgender non si recano dal ginecologo per paura dello stigma, perché spesso il personale medico non ha nessun tipo di sensibilità e rispetto nei confronti della loro esperienza. Leggevo una testimonianza di Daphne Bohemien, un’attivista trans, che spiegava come in ospedale fosse stata chiamata con il suo deadname. Questo fa capire che il suo corpo non viene considerato per come è, l’importante è quello che c’è scritto sul documento d’identità.

Non si parla di endometriosi o di malattie dell’apparato riproduttivo femminile su corpi di uomini trans e anche io inizialmente ero legata a questo binarismo. Dei 3 milioni di persone che soffrono di endometriosi nel nostro Paese immagino che ci sia, probabilmente, un altro milione di persone non considerate nella statistica perché non si riconoscono nel genere femminile. È un discorso molto difficile da affrontare anche sui social, ho visto quanto è stato complicato parlarne per alcuni attivisti trans. Che poi è la stessa difficoltà che attraversano quando parlano di piacere sessuale e vengono inondati di commenti transfobici. Va normalizzata l’idea che non bisogna soffermarsi sull’aspetto di chi richiede una cura, dobbiamo pensare al benessere del paziente o della paziente.

Mi chiedo: quanto è alto il mio privilegio rispetto a queste persone che non possono nemmeno farsi visitare perché lo stigma è così forte? C’è un problema nel trattare il corpo e l’emotività delle persone trans, ma il privilegio spesso ci porta a dimenticare di parlarne. È il concetto di normalità che deve essere scardinato rispetto allo stigma mestruale e al corpo di persone con mestruazioni. A me sono arrivati commenti sgradevoli di persone che non comprendevano la necessità degli uomini trans di recarsi da una ginecologa e da un ginecologo. Si ritiene che non ci sia fluidità nei corpi, che quello sono e quello devono essere per sempre. Questo vuol dire non accettare la realtà.

Ultimamente sento parlare spesso di prodotti alternativi agli assorbenti, come ad esempio le coppette mestruali. Quanto ha a che fare con il privilegio la possibilità di acquistarli?

Molto. La coppetta mestruale è una cosa meravigliosa, ma quando si dice che tutti dovrebbero usarla si tende a colpevolizzare chi non può farlo a causa di forti dolori durante l’inserimento. Una ragazza che soffre di vulvodinia tempo fa mi raccontava di aver comprato la coppetta e di aver urlato dal dolore quando l’ha inserita. La spinta a considerare queste alternative è forte, ma non si tiene conto del grande privilegio di poterlo fare. Esistono altre alternative, più economiche, come gli assorbenti lavabili e quelli biodegradabili oppure le spugne, ma non sono praticabili in ogni condizione. Mi vengono in mente persone che vivono in un contesto di scarse condizioni igienico-sanitarie, che vivono in strada o in sette nello stesso appartamento. Alcuni prodotti per l’igiene mestruale richiedono un trattamento di un certo tipo e se vivi in condizioni di povertà non puoi lavare tutti i giorni gli assorbenti, soprattutto non puoi permetterti di spendere 30 euro per due assorbenti lavabili o 50 euro per una coppetta.

Ci sono persone che lavorano in fabbrica, oppure in un supermercato come era nel mio caso, per le quali è impensabile utilizzare la coppetta perché non c’è modo di lavarla a dovere in una condizione igienica adeguata. Le alternative sono ottime, interessanti, ma non sempre utilizzabili da chiunque. Io ne uso poche – ora, con l’endometriosi, ho deciso di bloccare le mestruazioni – perché per chi come me ha un ciclo abbondante è più economico utilizzare gli assorbenti classici, per quanto sia consapevole che non contengono materiale che fa bene alla pelle e alle mucose. Finché ci sarà l’IVA su questi prodotti e le case di produzione non decideranno di abbassare i prezzi sarà difficile utilizzare in grande numero le versioni alternative. Anche per questo quando mi hanno interrotto artificialmente le mestruazioni sono stata felice, devo ammetterlo. Il costo degli assorbenti è impattante nella vita di una donna oltre che nell’ambiente. All’inizio mi vergognavo a dirlo, ora non più.

Quando è partita la nostra chiacchierata hai detto che hai imparato da autodidatta molte cose riguardanti il ciclo mestruale. C’è stato però qualcuno – una persona o una narrazione – che ritieni fondamentale in questo processo di consapevolezza?

È un processo che si è concluso molto recentemente ed è stata una mia amica a permettermi di percepire le mestruazioni come qualcosa di cui non devo vergognarmi e che dovevo iniziare a trattare in maniera adeguata. Dovevo considerarle come una parte della mia vita, non solo come una parentesi scocciante. Grazie a persone perlopiù esterne alla mia famiglia, che ignora determinati argomenti sebbene mia madre ultimamente stia facendo dei passi verso la comprensione di quelle che per lei sono novità, ho superato il blocco avuto per lungo tempo nell’effettuare una visita ginecologica, perché per me era diventato un trauma. Nella prima visita sono svenuta, non sono stata trattata doverosamente e ho iniziato a non considerare la mia salute.

Vivevo con enorme imbarazzo il momento delle mestruazioni addirittura con il mio compagno, al quale non dicevo di averle. Ci sono voluti un paio di anni prima di smettere di occultare gli assorbenti sotto strati di carta igienica. Ho letto cose come «il mio sangue mestruale mi fa schifo» e sono rimasta amareggiata perché fa parte di noi, non è un rifiuto del nostro corpo. Si dice che nel sangue mestruale ci siano elementi in grado di aiutare a sviluppare cure per lo stesso apparato riproduttivo femminile. Io stessa ho dovuto imparare a smettere di considerarlo un rifiuto.

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