«Il valore reale e corretto della vostra cultura umanistica dovrebbe essere proprio questo: impedirvi di trascorrere la vostra comoda, agiata, rispettabile vita da adulti come morti, inconsapevoli schiavi della vostra testa e della vostra naturale modalità predefinita, che vi impone una solitudine unica, completa e imperiale giorno dopo giorno», David Foster Wallace
David Foster Wallace, chiamato ad intervenire circa il valore della cultura umanistica di fronte a un gruppo di laureati del Kenyon College, ha aperto il suo discorso con una storiella – o un piccolo apologo istruttivo, come ricorda alla platea di ex studenti – sui pesci. Mentre nuotano nell’oceano due giovani pesci ne incontrano uno più anziano il quale, rivolgendo loro un cenno di saluto, chiede: «Buongiorno ragazzi, com’è l’acqua?». Una semplice domanda, un’occasione di crisi. I due pesci più giovani continuano a nuotare, finché uno interroga l’altro: «Ma cosa diavolo è l’acqua?».
Negli anni dell’università nulla è stato più formativo e arricchente del corso di Antropologia Culturale. Proprio in occasione di una di quelle lezioni ho ascoltato per la prima volta la storia dei pesci e l’acqua, episodio che mi ha spinta ad acquistare immediatamente il volume di racconti di David Foster Wallace nel quale il discorso è contenuto. Quel giorno ho appreso una verità apparentemente ovvia ma che ha avuto una portata rivoluzionaria: bisogna fare un salto fuori dall’acqua e conoscere l’aria prima di dare senso al mare in cui nuotiamo ogni giorno. Essere totalmente immersi in qualcosa è il miglior modo per smettere di guardarla e, quindi, comprenderla.
Foster Wallace non è il pesce saggio venuto a spiegare cos’è l’acqua, l’obiettivo del suo intervento conserva uno scopo ben diverso: «vorrei convincervi che lo stereotipo dell’educazione umanistica in realtà non è per nulla offensivo, perché la vera educazione a pensare, che si pensa si debba riuscire ad avere in un posto come questo, non riguarda affatto la capacità di pensare, ma piuttosto la scelta di cosa pensare. Se la vostra assoluta libertà di scelta su cosa pensare vi sembrasse troppo ovvia per perdere del tempo a discuterne, allora vorrei chiedervi di pensare al pesce e all’acqua, e a mettere tra parentesi anche solo per pochi minuti il vostro scetticismo circa il valore di ciò che è completamente ovvio».
Il senso di una formazione umanistica, ci racconta, non si nasconde nella ricerca dell’astrattezza né in un monologo solipsista che produce soltanto un’involuzione su se stessi. Al contrario, questa assume significato nella misura in cui ci aiuta a decentrarci: è questione di sostanza, non di metodo. “Imparare a pensare” vuol dire riscrivere la scala delle priorità conferendo a quei pensieri un ordine e una forma.
La cultura umanistica e l’interazione con un mondo nuovo
Il report “Education at a glance 2017” pubblicato dall’Ocse aveva registrato una percentuale di laureati in Italia pari al 18%, uno dei dati più bassi dei paesi Ocse, concentrata nelle facoltà umanistiche. Dati confermati dall’”Osservatorio Talents Venture” secondo cui nell’anno accademico 2017/2018 era stato raggiunto il numero più alto di iscritti ai corsi ALPH (Arte, Letteratura, Filosofia e Storia), con l’aggiunta di un elemento: «nel 2018 le imprese prevedevano di assumere oltre 10 mila laureati provenienti dal gruppo Letterario, filosofico, storico e artistico».
Fotografia di Francesco Formica
Il dibattito tra cultura umanistica e cultura scientifica torna di tanto in tanto in auge con l’obiettivo di conferire un primato all’una o all’altra, posto che studiare discipline umanistiche negli ultimi anni è diventato da un lato un gesto coraggioso e dall’altro sinonimo di ingenuità. Gran parte degli studenti e delle studentesse iscritte a Lettere o Filosofia avrà sentito almeno una volta la frase: «ma cosa ci farai con questa laurea?», oppure l’esclamazione che suona come una certezza: «ci vediamo al Mc Donald’s». Sembra che le scienze dure rappresentino l’unica possibilità di realizzazione, ma è davvero così? E, soprattutto, è il mondo che abbiamo creato a non aver più bisogno di letterati e filosofi o a ben guardare le discipline umanistiche dovrebbero imparare ad interagire con una società nuova?
L’Italia è stata la culla dell’Umanesimo, ma il rischio al quale va incontro il sistema di istruzione è quello di conservare ed esaltare un sapere perdendo di vista la realtà che ci si trova ad abitare, perché una formazione umanistica che conduce all’accettazione acritica di un passato intoccabile non è altro che una contraddizione in termini.
Il valore della cultura umanistica: osservare i giganti per poterli umanizzare
Qualche mese fa alcuni media italiani hanno diffuso una notizia, successivamente dimostratasi errata, secondo cui la Howard University, Università americana nata per garantire un’istruzione superiore alle minoranze e quindi storicamente frequentata da afroamericani, avrebbe eliminato il Dipartimento di studi classici per contrastare il mito della bianchezza e il suprematismo bianco di cui gli autori dell’età classica sarebbero stati fautori.
Facendo seguito ad alcuni articoli di giornale e a un servizio del Tg2 sull’argomento, Matteo Salvini ha commentato la notizia su Facebook in questi termini: «Omero, Cicerone e gli altri autori dell’antichità, pietre miliari della nostra civiltà, hanno una colpa imperdonabile: erano MASCHI e BIANCHI. Siamo alla follia più totale!». Allo stesso modo, Raffaele Fitto di Forza Italia ha scritto in un tweet: «niente più Omero e Cicerone, Socrate e Platone, perché erano tutti maschi e bianchi, quindi “suprematisti”. Per me, senza mezzi termini, è una decisione stupida!».
Fotografia di Francesco Formica
Questa vicenda non è soltanto la dimostrazione tangibile dell’impoverimento dell’informazione in Italia, ma mostra anche l’impostazione ideologica che, come si diceva, ha assunto la cultura umanistica nel nostro paese. Il panico generato dalla cosiddetta cancel culture e un atteggiamento anacronistico nei confronti del sapere sia dentro che fuori la torre d’avorio rischia di creare grandi appassionati di Omero e Cicerone, ai quali però non è stato trasmesso il senso primario della cultura umanistica: osservare a distanza ravvicinata i giganti per poterli umanizzare, criticare, superare.
Ho scoperto durante i miei studi universitari Edward Said e ricordo la reazione stupita del mio professore di Letteratura dopo averlo citato nel mio discorso all’esame: «ha letto Said?». Forse è proprio in quello stupore che si manifesta l’esigenza del decentramento di cui parlava David Foster Wallace ai neolaureati del Kenyon College. Forse acquisire strumenti per creare una nuova realtà più che per conservarla è la vera salvezza – e il vero valore – della cultura umanistica.
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