«L’utilizzazione dell’alterità si rende evidente nei processi continui di formazione dell’identità», Francesco Remotti
L’essere umano, ci ricorda Francesco Remotti, è un animale biologicamente incompleto che necessita della cultura – intesa nei termini di sapere appreso – per rimediare alla sua manchevolezza. Se in quanto umani abbiamo bisogno di dire “io”, di costruire un “noi” a cui appartenere e un “loro” da poter contrastare, è proprio perché essendo intrinsecamente mancanti avvertiamo l’esigenza di approdare a certezze incontrovertibili: è così che la ricerca di un’identità implica «una rinuncia (almeno parziale e temporanea) alla molteplicità, un’accettazione (entusiastica, forzata o dissimulata) della particolarità».
Nell’analisi di Remotti le religioni monoteiste, così come la costruzione delle nazioni, sono strumenti utilizzati per creare comunità che si uniscono attorno a dei valori considerati immutabili. La foggiatura dell’essere umano passa attraverso l’individuazione e la differenziazione tra il gruppo del “noi” e il gruppo del “loro”, utilizzato ai fini del riconoscimento di sé. Questo processo di costruzione della propria identità, che di fatto esclude l’alterità ma in qualche modo se ne serve, è evidente nella dimensione carceraria. Entrare in carcere è un salto fuori dall’acqua: proprio come i pesci di Wallace, soltanto uscendo fuori dal mare nel quale siamo soliti nuotare si prende coscienza dell’aria, venendo in contatto con una dimensione piena di contraddizioni ma capace di arricchire profondamente.
L’invisibilità del carcere è funzionale alla contrapposizione tra “noi” e “loro”
Il racconto delle vicende dei Lese e degli Efe in Prima lezione di Antropologia riproduce in maniera impeccabile il rapporto tra persone detenute e società civile. I Lese, gruppo di coltivatori, e gli Efe, cacciatori e raccoglitori, condividono lo stesso spazio geografico, la foresta, ma con modalità differenti. La vicinanza spaziale è inversamente proporzionale alla distanza antropologica che caratterizza questi due gruppi sociali, permettendo ai Lese di considerarsi superiori rispetto ai loro vicini in forza di un pregiudizio etnocentrico secondo cui gli Efe, non sufficientemente foggiati, sarebbero esseri disumani, più simili alle scimmie che agli uomini. Nonostante questo, tra i due gruppi esiste un rapporto di dipendenza che non consente loro di vivere gli uni senza gli altri.
Fotografia di Martina Lambazzi
Proprio come nel caso dei Lese e degli Efe, la società civile tende a sottolineare in maniera decisa la differenza tra sé e le persone detenute. Questa distanza è marcata innanzitutto dal punto di vista spaziale: detenuti e società condividono lo stesso universo mondo ma vivono in zone separate. Le carceri si configurano come strutture a sé stanti, spesso collocate ai confini della città, e in questo non si riscontra soltanto il rispetto di una logica securitaria ma anche una ragione simbolica: la prigione, proprio come se evocasse una dimensione sacra, tenta disperatamente – e quasi ci riesce – di rendersi invisibile agli occhi della società e il miglior modo per farlo è la dislocazione, uno stratagemma che dà nuova linfa al processo di creazione del “noi” e del “loro”. Il carcere, quindi, pretende di costruirsi come un monolite intaccabile che viene penetrato soltanto da chi sceglie in ragione delle motivazioni più disparate di saltare fuori dall’acqua e di contaminare quel “loro” esterno al “noi”. Le persone che scelgono o si trovano per necessità a perforare questo tessuto sociale – insegnanti, volontari, sacerdoti, parenti dei detenuti – costituiscono un’entità della quale diffidare, un unico corpo estraneo che potrebbe minare l’omogeneità di questa grande macchina spersonalizzante: gli esterni, infatti, vengono guardati con sospetto da chi è preposto a garantire ordine e sicurezza poiché l’altro in quanto altro potrebbe, appunto, alterare se non decostruire il processo di autoidentificazione interna che porta il detenuto a pensarsi come tale e non come persona portatrice di bisogni, desideri, obiettivi.
Nemmeno lì le persone possono essere spogliate del contesto nel quale vivono, nemmeno lì si giunge all’essenza, all’uomo nudo, nemmeno lì il mito del “buon selvaggio” può trovare una lecita spiegazione. Semplicemente le pratiche culturali messe in atto all’esterno vengono sostituite da altre e si va a costituire una piccola società che tenta di riprodurre quella esterna senza qualcosa di fondamentale: il contatto, il dialogo tra due dimensioni che diventano quasi totalmente estranee e inizia così quel meccanismo di produzione di un uomo nuovo, incastrato in un ruolo che mai potrà definirlo o esaurirlo.
Identità rigide: costruire se stessi in base alla logica manichea del bene e del male assoluti
Nel pensiero comune spesso il carcere è considerato l’allegoria della foresta, quel «luogo umido, sporco e selvaggio» dal quale difendersi e il detenuto si trasforma nell’emblema della disumanità. Il senso comune, in effetti, induce a pensare alle persone detenute un po’ come i Lese pensano ai Pigmei, attribuisce loro caratteristiche bestiali non disdegnando la lettura biologica che spiega il reato attraverso un presunto gene della criminalità. Il detenuto è colui che maneggia il kunda, quel male interno, quelle zone d’ombra che in realtà abitano in ognuno di noi e che, attraverso la foggiatura della nostra umanità, attraverso la costruzione della società tentiamo di addomesticare. Non ci rendiamo conto, però, che l’invisibilità a cui stiamo costringendo il carcere rivela uno strano meccanismo di rimozione che tradisce interesse per l’altro nella misura in cui lo usiamo per costruirci: la difesa da ciò che è definito male rappresenta la nostra foggiatura.
Fotografia di Martina Lambazzi
Il processo di costruzione del detenuto è estremamente funzionale alla creazione dell’identità della cosiddetta società civile. Invece di imparare a dialogare con la diversità che ci costituisce, con la luce e l’ombra che ci appartengono, continuiamo a leggere la realtà interiore ed esteriore applicando la logica manichea del bene e del male assoluti. La prigione non è la foresta, non è come molti pensano l’allegoria della natura che si contrappone al villaggio, il disordine che contrasta l’ordine, la dimensione dionisiaca che avversa quella apollinea, al contrario è una macchina estremamente costruita in cui la cultura si diverte a mascherarsi dietro la coltre illusoria della naturalità.
Porsi “contro l’identità” non vuol dire concedersi «perorazioni moralistiche in favore dell’apertura e della solidarietà», ma comprendere che tracciare una linea netta tra sé e l’altro non può che essere un proposito fallimentare, una strategia difensiva più che una fotografia autentica della realtà.