«Ho avuto mille modi per andarmene, invece ho deciso di rimanere». La storia di Rosi, operatrice del Laboratorio Zen Insieme e abitante del quartiere, vogliamo raccontarla a partire da questa premessa. Rosi oggi è un’operatrice di “Spazio Mamme”, un progetto realizzato in partnership con Save the Children che permette a mamme e bambini nella fascia d’età tra gli zero e i cinque anni di svolgere diversi tipi di attività, insieme e separatamente, ma allo Zen è arrivata a soli undici anni, quando «non c’erano le strade, i semafori né le scuole». E alla domanda sulla ragione che l’ha spinta a restare, risponde senza dubbi.
«Sono rimasta perché da piccola sono stata una sognatrice. Attorno a questo palazzo c’erano alberi grandissimi, non esistevano strade. Allo Zen si poteva entrare o da via Trapani Pescia o dallo Zen 1, ora esci ed entri da dove vuoi. Io ero piccolina, la comunità era diversa: ci eravamo buttati a capofitto in questa realtà, che avevamo costruito da soli tra le altre cose, perché queste case erano occupate. Ricordo di essere sempre stata una sognatrice perché passando tra gli alberi chiudevo gli occhi e queste strade le vedevo. Ho creduto allo Zen e per scelta sono voluta rimanere. Quando hanno iniziato a tagliare gli alberi mi sono detta: “è come immaginavo”. Questo posto l’ho visto tornando con la mente al mio passato, pensavo a come sarebbe stato, a quanti ragazzini avrebbero fatto, probabilmente, scelte migliori o scelte di vita più affermative. Tutt’ora mi sento una sognatrice, perché se vedo un luogo che può diventare qualcosa io ci credo e mi ci butto a capofitto».
Ho creduto di potermi riscattare anche qui allo Zen e l’ho fatto
Pronunciando la parola riscatto Rosi ci parla della famiglia che ha creato: «ho quarantotto anni, una casa, quattro figli. Mia figlia lavora in una scuola bilingue, uno dei miei figli in un bar, gli altri due vanno a scuola: il maggiore frequenta il liceo artistico, l’altro la scuola media ma ha deciso di seguire la stessa strada del fratello. Io lavoro per Zen Insieme, una realtà che ho sposato pienamente. Mio marito è un panettiere, ora abbiamo deciso di intraprendere una nuova esperienza acquistando un panificio. Sento di aver riscattato lo Zen, come hanno fatto tante altre persone. Magari non tutti sono bravi con le parole, a me ha salvato il bisogno di comunicare perché anche se non mi interessa ciò che dice la gente, non starò mai zitta».
Riscattarsi vuol dire poter raccontare senza vergogna le proprie radici. Avete mai provato la frustrazione che nasce dall’amare qualcosa in maniera sconfinata e caparbia per poi doverlo rinnegare? «Dello Zen se ne è parlato e riparlato, questo l’ho subito sulla mia pelle, perché quando ero ragazza e andavo fuori a cercare lavoro dovevo fingere di vivere in un altro posto. Quando mi chiedevano: “dove abiti?”, io rispondevo: “a Pallavicino”, “a Cardillo”. In qualsiasi zona vicina, mai allo Zen. E questo non perché avessi poco coraggio, ma perché la gente mi tagliava fuori dal mondo. Dovevo essere finta, e questa difficoltà non l’ho avuta solo io.
Rosi Chiovaro al Laboratorio Zen Insieme di Palermo. Fotografia di Martina Lambazzi
Lo Zen da sempre è stato comunità. Comunità non significa che siamo tutti la stessa cosa, ma siamo tutti nello stesso quartiere: ci conosciamo e conosciamo le storie di ognuno. C’è chi ha vissuto delle difficoltà perché per ottenere cose che dovrebbero essere scontate – come i semafori, la scuola, la chiesa – abbiamo dovuto lottare. Il tira e molla con le istituzioni, che sembrano giocare a nascondino, è andato avanti per anni. Alcune persone hanno avuto la forza di rialzarsi, altre si sono adagiate nella comodità. “Qua sono e qua rimango”, viene quasi spontaneo dire. Lo Zen è una zona grande, statisticamente siamo 17.000 abitanti, ed è normale che se ne senta parlare ma non si parla mai della gente che si vuole riscattare, dei ragazzi che si sono diplomati, di chi vuole fare della casa in cui vive la sua casa. Questa opportunità non ci è stata data, continuano a tenerci sempre allo stesso punto e ci mordiamo continuamente la coda. Io invito chiunque a venire a conoscere lo Zen, a farsi un giro, a parlare con la gente. La gente guarda all’inizio, ma poi accoglie. Chi si rifiuta di venire si priva della possibilità di conoscere la verità. Non conoscerla può fare comodo, certamente fa più scoop».
Voglio in tutti i modi che i miei figli non vivano il disagio che ho vissuto io di non poter dire che vivono allo Zen
Come argilla sotto mani esperte, siamo plasmati dallo spazio che occupiamo. Ma in fondo si tratta di uno scambio continuo: abitiamo uno spazio che ci abita. E allora è vero che con il corpo restituiamo il rumore assordante delle parole che hanno fatto male e il suono dolce di quelle che, come balsamo, hanno lenito le ferite. Gli odori, i passi macinati tra la fatica e la meraviglia. È altrettanto vero che ciò che ci ha plasmato, contribuendo a scrivere la nostra storia fino a un certo punto, può essere continuamente oggetto di riscrittura.
Mamma e figlia nello spazio morbido allo Zen di Palermo. Fotografia di Martina Lambazzi
«Non so che mamma sarei stata se non avessi vissuto allo Zen, so che a casa mia non esistono differenze: esiste la persona. I miei figli sono cresciuti così e non hanno mai avuto problemi, hanno giocato con chiunque. I miei figli non hanno seguito le orme del padre, hanno voluto esplorare diverse opportunità, e questo può essere espressione del loro carattere, ma credo dipenda anche dalla libertà che hanno sperimentato in famiglia. Mio figlio è omosessuale e vive sereno allo Zen. Quando era piccolino ha voluto vestirsi da donna, allora io e il suo papà siamo scesi per il carnevale sociale vestendoci al contrario: io da uomo, lui da donna. La libertà di decidere, di scegliere sono valori fondamentali. Penso di essere stata fortunata perché lo Zen ti mette alla prova. Da ragazzina dovevo accontentarmi di lavoretti e, tra le altre cose, di non poter dire “vengo dallo Zen”, altrimenti non mi sarebbe stata data l’occasione di fare le esperienze necessarie a trovare la mia strada. Per questo ho cercato di lasciare ai miei figli la libertà di poter scegliere anche stando allo Zen. Forse proprio grazie al mio essere sognatrice vedo sempre il lato migliore delle cose. E questo mi ha aiutata nella vita».
Zen Insieme ha dato al quartiere un orizzonte diverso
«Arrivo al Laboratorio Zen Insieme attraverso i miei figli, che erano iscritti al doposcuola. A me piace stare in compagnia, ho bisogno di alimentarmi del contatto con la gente e così mentre loro studiavano io aiutavo gli altri bambini. Da lì nasce la voglia di scoprire sempre di più. C’è stato un periodo in cui non potevamo più organizzare il doposcuola e abbiamo organizzato dei laboratori estivi per strada, in quel periodo mi sono formata davvero. Mi è stato chiesto se, conoscendo il quartiere, potevo dare una mano, ora sono quasi sette anni che lavoro come operatrice: lo faccio per passione, perché mi gratifica e mi ha fatto sentire di poter essere utile anche gli altri, non solo a me stessa. Ho sempre lavorato, anche se in altri ambiti, arrivando qui mi sono messa in gioco.
Costruzioni Lego all’interno del Laboratorio Zen Insieme. Fotografia di Martina Lambazzi
Grazie a Zen Insieme i bambini e le bambine hanno la possibilità di sperimentare. Con l’opportunità di andare a teatro, ad esempio, possono nascere delle emozioni che ti portano a pensare che un domani potresti fare teatro. È un punto di riferimento, di aggregazione, perché i ragazzi stanno bene qui, ci sono bambini e bambine entrati da piccolissimi che ora hanno diciotto anni e ancora entrano ed escono dall’Associazione. Anche per i genitori è un’occasione perché quando non possono fare qualcosa, in assenza di strumenti, vengono qui e magari risolvono un problema rendendosi conto che era più semplice di quanto pensassero.
Qui dentro ho imparato una cosa importantissima. Mariangela dice sempre: “non dare il pesce a una persona che non sa pescare, dalle la canna da pesca e insegnale a procurarselo”. Le persone che lavorano qui, con la loro passione, hanno completato la forza che ho sempre avuto. Finalmente ho trovato gente che la pensa come me».
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