A fare notizia proprio in questi giorni la raccolta firme per la legalizzazione della cannabis, un tema che va e viene con una certa ciclicità, senza mai però riuscire ad incidere effettivamente sui piani politici dei governi che di volta in volta si alternano alla guida del paese.
L’Italia, però, è un paese strano e questo lo sapevamo già. Se da una parte, infatti, si continua a fare massima opposizione alla legalizzazione della cannabis, dall’altra i numeri riguardo all’abuso e all’overdose da eroina sono preoccupanti. Una droga che si pensava fosse legata solamente al passato e che invece sta tornando in voga. Cerchiamo di comprendere il significato dei numeri, ma soprattutto della narrazione che i mass media costruiscono intorno al tema.
L’eroina uccide ancora, ma lo Stato non ha ancora capito come affrontarla
Prendere in considerazione i numeri dei morti provocati dall’uso dell’eroina e le condizioni di vita di chi è dipendente dalla sostanza serve a comprendere quanto questa onda silenziosa si sia ormai insinuata nella società.
Ad oggi si contano circa 300.000 dipendenti dall’eroina, che rispondono ad un identikit sociale talmente diversificato da discostarsi totalmente dallo stereotipo più diffuso nell’opinione pubblica. I tossicodipendenti, infatti, non sono solamente persone che provengono da contesti sociali difficili e degradati, ma persone che appartengono indistintamente a tutti i ceti sociali. E sono più o meno giovani, nuovi alla dipendenza o vecchi che ricadono nella stessa trappola.
L’ultima relazione del Dipartimento Antidroga, presentata al Parlamento lo scorso novembre, mette in luce una situazione drammatica che coinvolge anche i più giovani: 7.000 i minorenni che si bucano abitualmente, dieci o più volte al mese. Questi rientrano, tra l’altro, nella categoria di tossicodipendenti più facile da recuperare, perché si trovano alle prime esperienze e la sostanza non ha ancora presentato il suo volto peggiore.
Illustrazione grafica di Gabriele Tagliaferri
Mancano interventi seri e strutturali, che non siano palliativi sul breve termine, esattamente come negli anni Ottanta, quando però il problema si era presentato per la prima volta. La serie tv SanPa. Luci e tenebre di San Patrignano ha lievemente attirato l’attenzione sul problema, ma con le tipiche modalità dell’informazione attuale: qualche titolone sui giornali per una settimana, dieci giorni, per poi tornare al silenzio assoluto. Pietro Farneti, della fondazione Eris, denuncia l’assenza di un sistema che sia in grado di affrontare il problema in maniera concreta: «la tossicodipendenza è una malattia che ancora non trova un diritto di cura, per entrare in comunità spesso bisogna aspettare cinque mesi perché non ci sono posti sufficienti. Mai come in questi casi bisognerebbe essere tempestivi. Ma abbiamo una legislazione vecchissima. Affrontiamo il problema usando una calcolatrice invece di un sistema operativo. Siamo ancora all’idea che si possa gestire tutto col buon cuore, i volontari e un po’ di soldi».
Come viene raccontata l’eroina in periferia dai mass media
Nonostante sia una sostanza accessibile a tutte le classi e i contesti sociali, l’eroina rimane comunque idealmente relegata alla periferia, sia per quanto riguarda lo spaccio che per il consumo. A differenza della cocaina, chi assume l’eroina non può essere la star della serata, piena di energia e di autostima e a maggior ragione i tossicodipendenti non vengono considerati come persone, ma esseri a malapena umani da confinare ai margini estremi del socialmente accettabile.
La narrazione mass mediatica non ha mai lo scopo di affrontare e risolvere il problema, al contrario incentiva l’opinione pubblica – che ha bisogno di fagocitare notizie e di scandalizzarsi quanto più possibile – al discredito, senza la minima intenzione né le modalità adeguate per fare un’analisi approfondita sulla questione tossicodipendenza e sull’incremento del disagio generale che provoca nei quartieri più periferici. La narrazione si limita per lo più a brevi notizie di cronaca, che riportano la scomparsa di qualche ragazzo o il commento indignato del “reporter” di turno che cammina in mezzo a ritrovamenti quasi surreali di siringhe o simili utilizzati per la somministrazione delle dosi.
Esclusi pochissimi casi di approfondimento, la tendenza che va per la maggiore è quella di cedere ai sensazionalismi: non vengono posti i giusti quesiti, manca un’ottica strutturale che sappia guardare nel lungo termine e mirata a risolvere il problema nella sua complessità, o quantomeno a far luce su di esso.
Illustrazione grafica di Gabriele Tagliaferri
Prevale la natura sensazionalistica del racconto, orientata esclusivamente a polarizzare l’opinione pubblica, tra i famosi “buonisti”, termine molto in voga negli ultimi anni (come se voler far del bene potesse rappresentare un problema), che si preoccuperebbero – anche ingenuamente – di chi ha consumato quelle siringhe, e chi invece non pensa ad altro che a “fare giustizia”.
Ovviamente non possiamo non citare il caso più famoso della spettacolarizzazione del disagio sociale di cui il nostro paese può vantarsi: Vittorio Brumotti. Il format è chiaro e come ogni format televisivo di grande successo riesce ad adattarsi perfettamente in qualsiasi zona del paese, che sia la periferia di Palermo, Roma o Milano. Il successo di questi video sostanzialmente si basa su due fattori principali. Il primo è senza dubbio la voglia di avvicinarsi ai problemi, senza toccarli, mi spiego meglio: ogni spettatore e spettatrice ha la possibilità di vedere con i propri occhi e da vicino cosa accade in queste famosissime e abusate periferie di cui tutti parlano, ma che nessuno davvero conosce. C’è la possibilità di entrare e sbirciare la parte più attraente, perché si sa, il mondo criminale ha da sempre generato una grandissima forza attrattiva. Poi, nei video di maggiore successo subentra la violenza, anche questo elemento di grande fascino dai tempi dei tempi, persino sulle persone più calme e mansuete. L’apice della tensione nello spettatore si tocca infatti quando Brumotti riceve le minacce e viene colpito senza ferirsi, che ricorda un po’ i sub che si avvicinano agli squali in una grotta di acciaio impenetrabile dagli animali. In fondo per il grande pubblico questa è la periferia: un circo in cui osservare da lontano fenomeni surreali. L’altra caratteristica che riesce a far guadagnare tanto share o engagement ai video di Brumotti è, perdonatemi l’espressione, la voglia di fare lo sbirro “ogni tanto” degli italiani. In fondo, diciamocelo chiaramente, quanto è comodo giudicare o assolvere comodamente dal proprio divano senza porsi il minimo dubbio? È così piacevole, perché tutto sommato ci consente di assolvere noi stessi da quei più o meno piccoli sensi di colpa che ci affliggono quotidianamente ricordandoci che c’è gente ben peggiore di noi e quindi tutto sommato possiamo addormentarci facilmente anche questa sera. Niente di nuovo, gran parte del successo della cronaca nera si basta su questo tipo di coinvolgimento emotivo del pubblico.
Inoltre, bisogna considerare l’aspetto legale. Brumotti non si pone affatto l’obiettivo di risolvere il problema. Innanzitutto perché in uno stato democratico ci sono già le figure, decise dalla legge, che devono intervenire per affrontare violazioni della legge e sono le forze dell’ordine. Brumotti sfrutta le situazioni di disagio, probabilmente arrecando danno alle stesse forze dell’ordine, impegnate in indagini a lungo termine, ma anche alla stessa popolazione dei quartieri in cui va, rappresentati esclusivamente come zone di spaccio e di criminalità.
La narrazione delle periferie e la struttura fortemente polarizzata del dibattito sono sintomatiche, rappresentano bene la reazione nazionale – istituzionale vorrei dire – in merito alla questione delle periferie in generale e al relativo problema della droga. Se la cosiddetta informazione è intenta solamente a generare emozioni forti nel proprio pubblico, come se si stesse parlando di un set cinematografico, dall’altra parte le istituzioni non se ne interessano realmente, limitandosi alle apparizioni durante i tour elettorali.
Non cambiare il modo di vedere e interpretare questo problema significa rendere impossibile il raggiungimento di una soluzione utile e fattibile. Significa continuare ad avere cittadini di serie a e serie b, relegando questi ultimi alle estremità delle grandi città, da riprendere di tanto in tanto per fare spettacolo, trattandoli come fenomeni da baraccone.