Nella sezione Alan Kurdi al muro è appeso un quadro di Antonio Gramsci, i libri invece riempiono lo spazio e occupano gli scatoloni sul pavimento. Fuori, la bandiera arcobaleno. Mattia Della Rocca e Caterina Ingrassia disegnano con le parole il VI Municipio: rendono tangibile la mappa del quartiere che vorrebbero con l’azione politica, nel frattempo i movimenti tradiscono la passione che li anima. Mattia mi dice che «includere significa spostare il margine» e mentre lo fa si sposta sul bordo della sedia; Caterina ci fa sapere che «se si rompe l’ascensore in un palazzo di undici piani a Tor Bella Monaca, non è raro che rimanga fermo per due mesi. All’interno di uno di questi palazzi vivono sette famiglie con disabili e non possono rimanere bloccate in casa propria», indicando fuori come chi conosce a memoria le storie e i volti delle persone che racconta.
Caterina Ingrassia nella sezione PD Alan Kurdi. Fotografia di Martina Lambazzi
Nella nostra lunga chiacchierata abbiamo parlato della ragione che li ha portati a presentare la loro candidatura nel VI Municipio, di quello che la sinistra – ripensata criticamente – può fare in un quartiere come Tor Bella Monaca, della contrapposizione tra “margine” e “centro” ma anche del loro impegno nel contrasto alla violenza di genere e alla violenza contro l’omolesbobitransfobia perché, come dice Mattia, «se sono gay, devo poter sventolare la bandiera arcobaleno mentre bacio il mio compagno, proprio qui, a via dell’Archeologia». Ci siamo lasciati con una riflessione sull’importanza di rivalutare il dubbio all’interno della politica, condensata in un ultimo pensiero: «quando parlo con i cittadini del VI Municipio mi siedo con la consapevolezza di non avere la verità in tasca e di poter imparare da loro, come dalla vedetta di dodici anni che sta qui fuori».
Per iniziare mi piacerebbe chiedervi di raccontare il percorso che vi ha portato a presentare la vostra candidatura come consiglieri nel VI Municipio.
Caterina: io sono nata a Tor Bella Monaca. Ho vissuto sempre poco il quartiere perché i miei genitori, che si sono trasferiti nel VI Municipio alla fine degli anni Ottanta, conoscendo Tor Bella Monaca soltanto per le cronache erano preoccupatissimi che io crescessi qui. Ho iniziato a frequentarlo di più durante le scuole medie svolgendo attività di volontariato in parrocchia, poi mi sono iscritta a Giurisprudenza a Tor Vergata e sono diventata avvocato nel 2017.
Dopo aver passato il periodo adolescenziale e post-universitario fuori dal quartiere, nel 2016 la nostra compagna oggi candidata al Comune di Roma, Nella Converti, ha accettato la proposta di candidarsi in Municipio come riempilista e insieme abbiamo fatto tre settimane di campagna elettorale senza il supporto del partito. È arrivata terza su tutto il Municipio, prima dei non eletti. Da lì abbiamo capito che c’era un problema perché un’outsider, una persona che non aveva il supporto della dirigenza del partito locale romano, aveva raggiunto un risultato straordinario. Quando siamo entrate per la prima volta in sezione, collocata dove si trova la più grande piazza di spaccio d’Europa, la compagna storica del partito, Pina Cocci, ci ha messo in mano le chiavi dicendo: «questa sezione ha bisogno di essere ritirata su». Inizia così la nostra esperienza politica all’interno del partito. Avevamo già fatto politica fuori, nei centri sociali e nei collettivi, ma ci mancava da sempre un’istituzionalità.
Abbiamo fatto di tutto: la biblioteca che vedete, con un sistema di prestiti organizzato, lo sportello per il reddito d’emergenza e di inclusione, sportelli d’ascolto, seminari con docenti universitari. Insomma, abbiamo permesso alla sezione di rivivere insieme ai compagni del partito che ancora oggi, durante la campagna elettorale, ci danno un supporto straordinario. Nel 2018 abbiamo fondato l’associazione Bella Vera, il cui simbolo sono un paio di occhiali, perché secondo noi Tor Bella Monaca aveva bisogno di essere vista sotto un’altra luce. Oltre ad aver collaborato con diverse realtà associative, abbiamo suggerito proposte per creare strumenti di inclusione, perché il problema è che non esistono tavoli istituzionali dove possano sedersi le istituzioni e i rappresentanti delle associazioni, che certamente conoscono il territorio meglio di noi, per mappare le criticità del quartiere e provare a fornire delle soluzioni.
Da qui arriviamo al nucleo centrale della questione, la nostra candidatura. Con Mattia ci siamo conosciuti tre anni fa, veniamo entrambi da ambienti di estrema sinistra e pensiamo che questa sezione vada oltre il Partito Democratico romano e nazionale. A un certo punto bisogna prendere una decisione: fare associazionismo oppure inserirsi nel sistema. La nostra non è la candidatura di una persona, ma di un gruppo di persone che da anni si spaccano la schiena a titolo gratuito per il quartiere. Siamo supportati da un gruppo: noi siamo candidati al Municipio, Nella al Comune, ma dietro abbiamo una sezione intera, tantissimi compagni di partito, tantissime associazioni che ci stanno dando una mano. E questo è il riconoscimento più bello.
Mattia: io sono nato al Quadraro, ma ho sempre frequentato il VI Municipio perché dal 2005 sono iscritto a Tor Vergata, come studente prima, come docente poi. La comunità studentesca a Tor Vergata è composta per un terzo da persone dei Castelli, per un altro terzo da persone di Roma Sud e per un altro ancora da persone del Municipio VI, quindi il primo contatto con questi quartieri è avvenuto grazie alle amiche e agli amici dell’università, poi ho iniziato a pagarmi gli studi lavorando come operatore sociale nell’assistenza domiciliare per una cooperativa che aveva utenti al 90% del VI Municipio: da Tor Vergata la conoscenza si è estesa a Torre Angela poi a Ponte di Nona, Lunghezza e nel corso del tempo ho mantenuto questo legame con il territorio, nonostante mi sia addottorato a Pisa e abbia studiato per un periodo all’estero, finché quattro anni fa mi sono trasferito dietro il Policlinico.
In quel periodo, mentre il rapporto con le persone del quartiere si intensificava, negli anni della montata salvinista, un paio di episodi mi hanno toccato molto: due ragazzi che seguivo come educatore furono insultati per strada per via del colore della loro pelle. Io sono un marxista, un materialista storico, se mi chiedi qual è il mio obiettivo ultimo è l’abolizione del lavoro e la fine della lotta tra le classi, ma nonostante questa forte componente ideologica, o forse anche grazie ad essa, a un certo punto mi sono detto: «non posso pensare che questi ragazzi, persone per me così importanti, vengano insultati e picchiati per il colore della loro pelle, bisogna agire concretamente». Guardandomi intorno mi sono reso conto che tanti gruppi cercavano di fare qualcosa, ma erano chiusi in quella che un mio collega chiama brillantemente la “pippologia”, ossia la rincorsa a chi è più di sinistra. Un altro gruppo di persone, invece, sotto la bandiera del PD faceva cose diverse rispetto al PD nazionale. Erano persone che sfidavano i clan senza paura, entravano nelle case popolari a prendere le firme davanti alle vedette che fischiavano o puntavano le armi contro di loro. Insomma, gente che c’era, sul territorio.
Mattia Della Rocca nella sezione PD Alan Kurdi di Tor Bella Monaca. Fotografia di Martina Lambazzi
Io e Nella ci siamo incontrati in un bar e, dopo averci riflettuto un po’, mi sono detto: «posso guardare negli occhi queste persone e chiamarle compagne senza sentirmi in difetto rispetto a ciò in cui credo da sempre». Io mi occupo di disabilità in un Municipio in cui la disabilità ha delle vette dal punto di vista numerico elevatissime, alcuni hanno delle disabilità ma non lo sappiamo perché non sono passati per i servizi della Asl: essere riusciti a inserire in quelle liste venti persone, per quanto mi riguarda, ha reso la comunità già più forte. Per me l’idea di politica di sinistra oggi si basa proprio sul concetto di comunità. E chi costruisce la comunità dal punto di vista politico, su questo territorio, è la mia sezione.
Caterina: mi aggancio al discorso di Mattia per aggiungere che siamo in un quartiere difficile, con problemi che non hanno eguali in altri territori di Roma. Basti pensare alla dispersione scolastica di sei punti percentuali in più rispetto alla media di Roma e all’inesistenza pressoché totale di spazi di aggregazione per giovani. Se lasciamo passare il messaggio che i giovani devono uscire dal Municipio anche per giocare una partita in un campetto pubblico, come possiamo pensare che decidano di investire qui nel proprio futuro? Le case a Tor Bella Monaca hanno prezzi più bassi rispetto alla media romana, solo che la risposta di un genitore di solito è: «me la sento di crescere un figlio qui?».
A undici anni fanno le vedette, la criminalità organizzata mantiene il controllo del territorio tenendo in ostaggio un quartiere intero. Per non parlare di altri territori, come il versante Prenestino, che non ha collegamenti pubblici e per fare una carta d’identità bisogna camminare 25 chilometri senza mezzi pubblici. A Corcolle non c’è una palestra. Ci sono una marea di spazi del comune di Roma abbandonati e per riqualificarli basterebbe un investimento minimo. Le risorse le abbiamo, ma non c’è una visione politica globale che consente di intervenire bene a livello locale. Negli ultimi dieci anni in questo quartiere sono stati fatti solo interventi spot, che però come sappiamo lasciano il tempo che trovano.
Parlando con le persone che abitano le periferie abbiamo riflettuto molto sui concetti di “margine” e “centro”. A tal proposito, uno dei candidati a queste elezioni ha proposto di creare un assessorato alle periferie. So che non siete d’accordo, perché?
Mattia: mi viene in mente un’analogia: durante la composizione del governo Draghi è stato creato il Ministero della Disabilità, criticato proprio da tutte le persone con disabilità e da chi lavora con e per loro. Questo perché da decenni, da Maria Montessori in realtà, si lotta insieme per dire che le classi speciali non devono esistere. Ecco, noi siamo d’accordo con il programma di Roberto Gualtieri di costruire “la città dei quindici minuti”, per cui se abiti a Borgata Finocchio in un quarto d’ora devi stare a San Giovanni. Continuare a pensare che esistono dei luoghi che rappresentano il “centro” e dei luoghi che rappresentano la “periferia” determina già una divisione tra un’esistenza e un’inesistenza, tra un centro e una marginalità. Potremmo dire che questo implica anche un’idea di frontiera e quindi di separazione non soltanto fisica, ma anche culturale. I margini si spostano con il tempo, e non a caso l’altra parola di fondo del nostro programma è inclusione. Includere significa spostare il margine. Io sono orgoglioso delle risorse umane, culturali e sociali che sono su questo territorio, non tolleriamo l’idea che esista una città di “serie A” e una di “serie B”.
Faccio degli esempi concreti: la periferia è un concetto che tecnicamente riposa su una distanza di tipo spaziale, ma la distanza che passa tra il centro storico e l’Olgiata e praticamente quella che passa tra il centro storico e Borgata Finocchio è la stessa. La differenza è che se chiamo un’ambulanza all’Olgiata in dieci minuti ho risolto il mio problema, qui invece devo aspettare un’ora e mezza per un intervento. La caserma più vicina dei Vigili del Fuoco è a Numidio Quadrato. Anche l’Olgiata tecnicamente è una periferia, ma lì gli autobus per le scuole ci sono, e ci sono in un posto in cui ogni famiglia in media ha tre macchine. Nel VI Municipio, dove troppe famiglie invece hanno quattro figli e a volte appena una tessera dell’autobus , attivare un servizio di navetta richiede che qualcuno si sposti al centro e cominci a sbattere i pugni sul tavolo. Un altro esempio? I servizi della ASL finiscono qui a Tor Bella Monaca: a Lunghezza e a Ponte di Nona la rete socio-sanitaria è evanescente. A Corcolle non ci sono neanche gli asili, ma comunque l’Irap e l’Irpef si pagano come a Roma. Allora, a ben guardare, il margine che cos’è?
Caterina: il problema è che da troppi anni abbiamo smesso di occuparci delle marginalità sociali ed economiche di questa città. È vero che esistono dei quartieri più periferici, ma qui si è deciso di portare avanti un programma di edilizia popolare verticale concentrando persone con disagio sociale ed economico, senza preoccuparsi di creare una mescolanza culturale e sociale. Il problema non sono le periferie, ma le politiche che in questi anni sono state fatte per le periferie. Perché nascono così tante associazioni nei quartieri degradati della città? Forse le istituzioni devono porsi una domanda, forse non sono state abbastanza presenti.
L’idea dell’assessorato alle periferie mi fa rabbia perché non c’è bisogno di un assessore ad hoc. Roma è una, ma le periferie sono tutte diverse e, anche all’interno dello stesso Municipio, presentano problematiche a sé. La nostra proposta riguarda l’istituzione di dipartimenti ad hoc. Qualche esempio: se sei un abitante del versante Prenestino per raggiungere il centro devi pagare il casello; se si rompe l’ascensore in un palazzo di undici piani a Tor Bella Monaca, non è raro che rimanga fermo per due mesi. All’interno di uno di questi palazzi vivono sette famiglie con disabili e non possono rimanere bloccate in casa propria. Non è possibile che per risolvere il problema si debba ricorrere ai media perché la politica non se ne occupa. Parlare di assessorato alle periferie, per quanto mi riguarda, è uno schiaffo ai cittadini delle periferie stesse.
Non è raro che gli elettori di sinistra si ritrovino spesso a discutere dei limiti delle forze politiche che si dichiarano tali. Sembra che la cosiddetta sinistra, appunto, faccia sfoggio di un atteggiamento elitario, da un lato, e sia preda al contempo dell’incapacità di entrare in relazione con le persone. Cosa può fare un’amministrazione di sinistra nel VI Municipio?
Mattia: a Tor Bella Monaca questa sezione ha instaurato un dialogo con persone che normalmente si dichiarerebbero astensioniste. Ci sono diverse cose che all’interno di una periferia, di una zona complessa, fanno sì che la destra sfondi. Innanzitutto dovunque c’è una situazione di disagio che è legata alla dispersione scolastica o alla mancata alfabetizzazione aumenta la presa di qualsiasi discorso che riesce a dare una risposta semplice a un problema complesso. Quindi se c’è un problema economico e dico: «la colpa è dei migranti» fornisco un capro espiatorio e guadagno voti. Sono decenni che la destra monta sempre di più, abbiamo visto cambiare il nemico nel tempo: prima gli albanesi, poi i marocchini, i senegalesi e adesso le persone che vengono dal Medio Oriente. Ad oggi i bersagli non sono soltanto gruppi etnici. La comunità LGBTQ+, ad esempio, è considerata un falso problema, mentre ci si preoccupa del fatto che «ci tolgono la possibilità di parlare» glorificando allo stesso tempo Pio e Amedeo.
Dopodiché c’è anche da ricordare che l’estrema destra e le destre in generale nel nostro paese sono da sempre più o meno apertamente conniventi con la criminalità organizzata, che di ritorno è anticomunista e antisinistra per definizione. Esiste una collusione storica forte legata alla frequentazione di ambienti comuni che sono state dimenticate dalla sinistra: le palestre, le curve degli stadi. Aggiungi il fatto che nel VI Municipio c’è una fortissima presenza di migranti, e ti rendi conto che può essere una miscela esplosiva per i discorsi d’odio delle destre.
La sinistra, a mio modo di vedere, ha perso il dialogo, non la capacità di dialogo. Si è arroccata sulle posizioni più borghesi – infatti in questa città si parla di una sinistra del I e del II Municipio, quelli più ricchi di Roma – mentre qui ha saputo dare sempre meno risposte. Il punto però è proprio che la sinistra non deve dare risposte, deve ricostruirle con la popolazione. E non a caso uno dei passaggi fondamentali della ricostruzione da parte della sinistra passa per l’educazione trasversale.
Sezione PD Alan Kurdi di Tor Bella Monaca. Fotografia di Martina Lambazzi
Caterina: a un certo punto abbiamo smesso di fare la sinistra e abbiamo iniziato a rincorrere gli altri. E più perdevamo consensi, più pensavamo che la soluzione fosse rinunciare a valori e principi non negoziabili per provare a dare le stesse risposte che dava, ad esempio, il Movimento 5 Stelle. Quando abbiamo portato avanti la raccolta firme contro il rifinanziamento della guardia costiera libica, partita da Tor Bella Monaca, la riflessione si è concentrata proprio su questo: se noi siamo un partito di sinistra, o di centro-sinistra, ma smettiamo di porre al centro della nostra agenda politica determinati temi in cui gli elettori da sempre si riconoscono, perdiamo appeal anche in chi ci ha sempre votato. E quelli che non ci votavano continueranno a non votarci.
Quando dico che bisogna fare un lavoro enorme sull’astensionismo non è perché credo che non sia importante togliere voti alla destra, ma se sono da sempre, storicamente, un elettore di centro-destra e decido di votare il Partito Democratico c’è un problema. Non abbiamo perso consensi nelle persone che hanno smesso di votare a sinistra e sono diventate di destra, li abbiamo persi nelle classi sociali più povere. La classe operaia che a un certo punto ha iniziato a votare Berlusconi e poi Salvini, è la manifestazione del fatto che la sinistra ha smesso di occuparsi di determinate tematiche come il lavoro, il disagio e le marginalità sociali ed economiche. Spesso ci è stato detto: «voi vi occupate delle sfighe del mondo», ma in realtà ci occupiamo di ciò di cui la sinistra dovrebbe occuparsi. Io per lavoro faccio appalti pubblici, ma i miei temi politici sono altri perché sono convinta che serva una visione collettiva: il problema non è il manto stradale, ma l’illuminazione pubblica che non esiste o le barriere architettoniche sui marciapiedi. Pensare globale e agire locale è una frase esemplificativa del nostro modo di fare politica.
La sinistra è diventata elitaria perché ha smesso di parlare con la gente. Sabato pomeriggio abbiamo organizzato una sorta di comizio a via Scozza con un megafono e tre sedie, preferisco questo agli aperitivi. In quartieri come Tor Bella Monaca bisogna ricucire il rapporto con i cittadini andando casa per casa a parlare con loro. Per tornare ad essere appetibile in questi territori la sinistra deve semplicemente tornare a fare la sinistra.
Come si fa a salvare la complessità senza rischiare di parlarsi addosso?
Mattia: la complessità esiste, è un dato di fatto e va accettato. Ti faccio un esempio usando l’argomento che esemplifica la complessità: la questione ambientale. Non esiste una cosa più complessa dell’ecosistema per definizione, perché è un sistema abitato da più soggettività che interdipendono tra di loro. Dopodiché come far sì che su questa complessità si innesti un discorso di sinistra? La prima soluzione è che le risposte non si fanno più con il paradigma dell’uomo solo al comando – che poi spesso se ci fai caso è sempre un uomo maschio, bianco ed eterosessuale – né con un gruppo dirigente autoreferenziale. Noi ci candidiamo ad essere i rappresentanti della nostra comunità, ciò vuol dire che il nostro agire politico viene elaborato all’interno della collettività.
Bisogna risensibilizzare le persone anche a percepire la politica nel tempo. Vivendo da almeno trent’anni in un sistema dominato dalla visione del mondo tardocapistalista, in cui se arrivi a pensare al mese prossimo è già tanto, noi proponiamo una soluzione a lungo termine. I problemi dell’ambiente si risolvono a lungo termine, i problemi della sanità anche, penso che l’abbiamo capito perfettamente con il Covid. Pensiamo al vaccino: non è stata pensata una programmazione politica nazionale o europea in ambito sanitario che non fosse “il primo che arriva e brevetta vince”. Come conseguenza, nel continente dove ci sono il maggior numero di centri di ricerca d’eccellenza al mondo, nessuno ha pensato che la soluzione dovesse essere quella realizzare un programma pubblico per la ricerca e la tutela su un vaccino aperto.
La complessità esiste, lo senti ovunque. Io forse posso parlare con una certa agevolezza di istruzione e disabilità, ma di agricoltura non so nulla. Come faccio a capire in che modo impostare un sistema di compostiere all’interno del territorio? Mi rivolgo a chi ne ha le competenze. Una cosa è dire: «non te preoccupà che se me voti qualcosa te la rimedio», un’altra è studiare, tutti insieme, e fare i conti. Le risposte si pensano strutturali: ci vuole il tempo che ci vuole, ci vuole la complessità che ci vuole. La complessità si risolve con la complessità.
A questo riguardo, un esempio di come la complessità puoi averla a tuo favore. Abbiamo parlato con una serie di associazioni animaliste, altro tema legato all’ambiente che interessa purtroppo a pochi. A causa degli incendi e delle decespugliazioni, qui sul territorio c’è stata una strage di ricci, e parlando con alcuni nostri compagni e amici si rifletteva sulla possibilità di creare oasi e santuari. Ma il problema, è stato subito fatto osservare, è che dopo qualche giorno arriverebbero gruppi di ragazzini a distruggerli. Come si risolve un problema così? La nostra proposta è di dare in adozione queste aree alle scuole o ai caseggiati. Se un santuario animale è opera non compresa, non resa comune, nessuno lo sentirà suo. Ma se l’oasi è in mano alla collettività, allora col tempo quello spazio resterà protetto.
Caterina: io non penso che la complessità vada superata o risolta, ma governata. A problemi complessi non si danno risposte semplici, ma si costruiscono risposte complesse. Qualcuno ha proposto di buttare giù la Vela di Calatrava, qualcun altro ha suggerito qualcosa di diverso, più complicato, come la professoressa Canini che con l’Università di Tor Vergata sta avanzando proposte in un’ottica di inclusione: l’orto botanico, ad esempio. Non è una risposta che arriverà domani, ma fra due anni avremo l’orto botanico più grande d’Europa e 14.500 posti di lavoro.
In quartieri come questi se responsabilizzi gli abitanti e permetti loro di prendersi cura degli spazi, senza calare soluzioni dall’alto ma costruendole dal basso, allora i cittadini inizieranno a sentirsi tali. A piazza Castano c’è un campo che potrebbe essere bonificato e lasciato agli abitanti del quartiere. Se provo a investire sulle scuole di Tor Bella Monaca costruendo un rapporto tra le istituzioni municipali e le scuole stesse, magari i genitori inizieranno a mandare i figli a scuola nel VI Municipio. La comunità è già una risposta.
So che tra i punti fondamentali del vostro programma c’è il contrasto alla violenza di genere e alla violenza omolesbobitransfobica. Non sempre chi si candida a rappresentare le istituzioni trova il coraggio di mettere al centro della propria agenda tematiche come queste. Perché avete scelto di farlo?
Caterina: in questo quartiere il fenomeno della violenza di genere è un fenomeno culturale, perché spesso le donne – soprattutto quelle che nascono in contesti criminali – passano dall’essere proprietà dei padri all’essere proprietà dei mariti. Si sposano giovanissime, spesso con matrimoni combinati. Il problema è che in territori come questi se sei vittima di violenza non sai dove andare, non esistono degli spazi dove rifugiarsi in situazioni di emergenza.
Caterina Ingrassia, Mattia Della Rocca e Alessia Lambazzi nella sezione PD Alan Kurdi. Fotografia di Martina Lambazzi
Abbiamo bisogno di sportelli d’ascolto, della Casa della Donna e di intervenire sulla formazione dei dipendenti della municipalità. Il Municipio può intervenire sulla formazione riguardo la violenza di genere, ma anche riguardo la violenza omolesbobitransfobica. La cosa principale è pensare a una serie di attività che partano dalle scuole, quindi corsi mirati alla formazione su questioni relative all’identità di genere. Bisogna iniziare a parlare di genere, non di sesso. Su tutto questo il Municipio ha la possibilità di fare tanto.
Mattia: ritengo importante dire, come prima cosa, che queste proposte le abbiamo elaborate con la comunità LGBTQ+. I centri antiviolenza di cui parlava Caterina accoglieranno donne vittime di violenza, ma anche i ragazzi bullizzati per la loro omosessualità o persone in transizione. Insistere sull’educazione significa porre una base per cui se un dirigente municipale si trova davanti due uomini o due donne che hanno bisogno di fare il documento perché sono una coppia di fatto non deve ridergli in faccia, in quel caso devo poterlo sanzionare. Come devo poter sanzionare chi continua a chiamare una persona transitata con il nome che le è stato assegnato alla nascita.
Accogliendo la proposta di una nostra compagna, lesbica, speriamo di poter organizzare il Gay Pride nel VI Municipio. Se sono gay, devo poter sventolare la bandiera arcobaleno mentre bacio il mio compagno, qui, a via dell’Archeologia, perché per una cosa del genere a Tor Bella Monaca ancora si rischia di essere picchiati. Queste istanze, per quanto mi riguarda, sono connesse al razzismo e all’abilismo. Oltre ad avere un approccio sistemico, un’altra parola importante per noi è intersezionalismo.
In un post che Caterina ha pubblicato poco tempo fa sul suo profilo Facebook si legge che lo spirito della vostra candidatura è quello di chi «non ha la verità in tasca». C’è ancora spazio per il dubbio in politica?
Mattia: bisognerebbe farglielo riguadagnare, quello spazio. In concomitanza con l’ascesa del berlusconismo parecchi linguisti hanno notato che si cominciava a parlare solo all’indicativo. «Ho fatto, faccio e farò». Io sono nato politicamente nel 2001, l’anno di Genova, dell’11 settembre e della guerra in Afghanistan. Se allora avessi detto a qualcuno: «tra vent’anni gli americani scapperanno con la coda tra le gambe e i talebani istituiranno il ministero della Virtù mettendo fuorilegge le donne afghane», nessuno ci avrebbe creduto. Se dieci anni fa avessi detto che la pineta di Ostia sarebbe stata presto sommersa dall’acqua o che il tema principale nel nostro Paese sarebbe diventato il reddito di cittadinanza, mi avrebbero dato del matto. Da persona di sinistra posso solo aprire le porte della mia sezione, della mia comunità, e fare un’analisi del reale con gli strumenti che mi permettono di provare a comprendere il futuro: la scienza, la cultura, la riflessione collettiva, l’assunzione di responsabilità. Perché pensare al futuro vuol dire anche dover correggere la rotta. La domanda da porsi è: «come facciamo a recuperarlo, il dubbio?». Questo ci consente di guardarci in faccia e chiederci che società vogliamo essere. Gli slogan hanno il punto esclamativo, noi preferiamo dire che c’è il rischio di sbagliare ma almeno daremo risposte collettive a domande che ci siamo posti collettivamente.
Caterina: concludo dicendo che lo spazio per il dubbio c’è e deve esserci, soprattutto se si ambisce a governare territori come questi. La prima cosa che penso quando ricevo delle critiche è: «forse mi sono spiegata male». Mi metto continuamente in discussione perché posso proporre mille cose, ma ce ne sono altrettante a cui non posso arrivare da sola, a cui noi non possiamo arrivare da soli, senza l’aiuto della comunità. Quando parlo con i cittadini del VI Municipio mi siedo con la consapevolezza di non avere la verità in tasca e di poter imparare da loro, come dalla vedetta di dodici anni che sta qui fuori.