Insieme a Marzia De Sanctis, assistente sociale presso la Comunità Romolo Priori Dipartimento di Salute Mentale e Patologie della Dipendenza della ASL di Frosinone, abbiamo voluto raccontare i pazienti e le pazienti con problemi psichiatrici al di là della malattia, ponendo l’attenzione sulle persone, su quella radice di umanità che le tiene sveglie e presenti: i desideri.
Come prima interlocutrice rispetto alle questioni di ordine pragmatico e di supporto nella gestione della ruotine, il compito dell’assistente sociale, insieme ai medici e a tutti gli operatori della struttura, è quello di costruire un ponte stabile, sicuro e protetto tra i desideri delle persone ricoverate e la loro realistica fattibilità.
In cosa consiste il lavoro dell’assistente sociale all’interno di una comunità come questa?
La Comunità Romolo Priori è una comunità h24 e la permanenza dei pazienti varia da persona a persona. Alcuni ricoveri possono essere anche brevi e altri invece si protraggono più a lungo, tutto dipende da ciò che emerge durante il percorso. Attualmente sono quindici le persone presenti nella struttura, perché i ricoveri sono stati limitati a causa del covid, ma di norma ospitiamo circa venti pazienti. Il periodo di ricovero di media dovrebbe durare un paio di anni, ma difficilmente si rispettano queste tempistiche, perché il percorso e il suo esito sono veramente molto soggettivi. Abbiamo avuto dei pazienti che sono rimasti anche cinque o sei anni.
I ricoveri sono tutti volontari: il paziente arriva qui volontariamente, la struttura infatti è aperta. Ci viene fatta richiesta dal Centro Salute Mentale (Csm), il servizio del territorio che lo segue, e a quel punto si fa una valutazione e si stabilisce se questo sia effettivamente il percorso più idoneo. Come servizio sociale ovviamente partiamo dalle cose più elementari, perché il paziente che entra in comunità spesso ha perso, a causa della patologia, quelle che sono le abilità e le capacità basilari. Dunque anche le richieste nella gran parte dei casi sono molto elementari, perché seguono il disordine vissuto in quel momento dal paziente.
È un lavoro rivolto direttamente alla persona e che comprende anche l’amministrazione delle questioni burocratiche e logistiche come ad esempio la situazione pensionistica, la richiesta dell’invalidità civile nei casi di patologie più gravi. Non sempre il paziente che arriva in comunità ha un’invalidità civile e quindi il compito dell’assistente sociale è anche quello di seguire il lavoro di certificazione, presentazione della domanda e la visita presso l’Inps o piuttosto la richiesta di inabilità al lavoro o la reversibilità.
Marzia De Sanctis. Fotografia di Francesco Formica
Collaboriamo con i vari enti pubblici, quindi Inps, Comune, Patronato, cooperative di servizi, Associazioni di volontariato e Tribunali (alcuni pazienti necessitano di un tutore o un amministratore di sostegno), a volte anche con il magistrato di Sorveglianza nel caso di persone sottoposte a misure di sicurezza. In tutto ciò, la possibilità di costruire una rete sia con i servizi del territorio sia con chi ricopre un ruolo riconoscibile, come ad esempio il parroco, e ovviamente con la famiglia è di fondamentale importanza.
Per ricovero volontario si intende che sono i pazienti stessi a richiederlo o è la famiglia a farlo per loro?
Il ricovero è volontario perché prima di ogni altra cosa deve esserci la volontà del paziente, è pur vero che non sempre questo è convinto di dover intraprendere un percorso di questo tipo. Come dicevo, i pazienti vengono inviati dai Csm di appartenenza territoriale che, seguendoli durante i vari incontri, riscontrano la necessità di intraprendere un percorso in Comunità. Molte volte perché, soprattutto se il paziente vive da solo, durante i periodi più critici non riesce a svolgere tutte le mansioni più semplici, come fare la spesa o prepararsi i pasti.
Quando c’è la famiglia, invece, non è insolito che nascano anche dei conflitti proprio perché i famigliari sono le persone che prestano maggiormente cura e quindi scatta nei pazienti un meccanismo di ostilità proprio nei confronti di chi presta loro maggior assistenza e diventa necessario un allontanamento. Altri casi ancora sono le persone che concludono il percorso in un’altra struttura, ma non possono fare rientro a casa: in questi casi si decide di prolungare il percorso all’interno delle comunità. Alla base di tutto, però, deve essere il paziente stesso ad acconsentire al ricovero.
La fine del percorso all’interno della comunità viene stabilita dal medico e dagli operatori oppure può essere anche il paziente a decidere di interrompere?
La decisione viene presa in comune accordo tra gli operatori che lo seguono, il paziente e il Csm inviante. Si concorda insieme perché è importante capire se il paziente può tornare a casa – in famiglia o da solo – o se deve essere trasferito in un’altra struttura, come possono essere gli appartamenti condivisi da pazienti.
Può anche accadere che il paziente non accetti più il ricovero e in questo caso, sempre in accordo con il Csm, lo dimettiamo, ma rimane sempre seguito dai servizi del territorio. Ci anche pazienti psichiatrici che abusano di sostanze e alcol e questa non è sicuramente la struttura che può accoglierli.
I pazienti che si trovano nella Comunità Romolo Priori di quali patologie soffrono e quali sono i trattamenti previsti?
Sono tutte patologie forti, come la schizofrenia, psicosi, disturbo schizo affettivo. Con il giusto supporto e terapia psichiatrica riusciamo a raggiungere fasi di buon compenso. Per quanto riguarda i trattamenti, sicuramente quello farmacologico, seguito dal medico psichiatra, è quello che poi permette di poter lavorare bene e di usufruire di tutte le altre attività realizzate all’interno della comunità, come il laboratorio di cucina in cui cerchiamo di coinvolgere tutti. C’è il gruppo che decide cosa mangiare e quindi cosa comprare, il gruppo che va a fare la spesa, il gruppo che cucina e quello che poi riordina tutto l’ambiente. Anche questa, come altre purtroppo, è un’attività che nel periodo della pandemia abbiamo dovuto un po’ rivedere perché durante il lockdown ovviamente non potevano uscire per fare la spesa, doveva farlo l’operatore al posto loro.
In passato sono state organizzati corsi di ginnastica e ballo, abbiamo organizzato anche diverse feste. Poi c’è il gioco delle bocce, a breve la loro squadra parteciperà anche a un torneo regionale. Quello che ci sta a cuore è riuscire a svolgere queste attività più all’esterno che all’interno, perché questa è una comunità riabilitativa e quindi è indispensabile il coinvolgimento nella rete sociale.
Hanno preso parte anche a un laboratorio di cinema, grazie alla disponibilità di alcuni volontari dell’Associazione Atelier Lumiere. Fernando Popoli, il regista, ci ha chiesto il permesso di fare questo corso all’interno della comunità e noi abbiamo accettato ben volentieri. Hanno iniziato dalla storia del cinema, poi hanno realizzato dei costumi insieme ai volontari e hanno messo in scena un corto. Durante queste attività succede sempre qualcosa che sorprende: magari proprio il paziente che vedi sempre silenzioso e in disparte ti colpisce per quello che riesce ad esprimere e tirare fuori.
In passato abbiamo organizzato anche dei soggiorni estivi (in queto momento non è possibile), perché consentono di vedere il paziente inserito in tutt’altra realtà e allo stesso modo dà la possibilità ai pazienti di vedere gli operatori e i medici in vesti diverse: non più con il camice, ma calati in un contesto altro rispetto alla struttura. È un’opportunità di adattamento a realtà alternative rispetto alla comunità e anche in queste situazioni siamo rimasti ogni volta piacevolmente sorpresi. Sono esperienze positive, non solo per noi ma anche per loro.
Un’altra attività veramente molto sentita e coinvolgente per i pazienti è l’orto. In modo particolare uno dei nostri pazienti si dedica spassionatamente alla cura dell’orto, insieme ad altri due. A seconda della stagione coltivano prodotti diversi, che poi vengono riutilizzati in cucina ed è molto gratificante per loro consumare ciò che sono stati in grado di produrre da soli.
Riscontrate cambiamenti significativi nello stato d’animo e nel clima che si respira all’interno della comunità durante e dopo lo svolgimento di queste attività?
Sì, sicuramente. La quotidianità in comunità è scandita da ritmi piuttosto regolari: sveglia mattutina, cura dell’igiene personale e degli spazi, colazione e terapia farmacologica somministrata dagli infermieri. È importantissimo che dopo questa routine inizino le varie attività e le eventuali uscite all’esterno dei pazienti: c’è chi esce per comprare delle cose o chi va dal parrucchiere. In questo periodo, a causa del covid-19, le uscite sono state accompagnate dagli operatori, mentre di solito avvenivano sempre in autonomia.
I trattamenti immagino che siano personalizzati – al di là della terapia farmacologica che ovviamente lo è – e che anche il rapporto che si instaura con il paziente sia individualizzato. C’è qualche storia che ti ha colpita particolarmente e che ricordi con maggior intensità?
Assolutamente sì. Ogni persona è diversa e quindi il rapporto che riusciamo a instaurare con loro è sempre diverso, la nostra capacità di risposta è strettamente legata al paziente. Ognuno di loro ha delle storie molto pesanti, purtroppo, alcuni di loro però più di altri. Abbiamo notato, tra le altre cose, che i nostri pazienti sono cambiati: ad esempio io vengo dall’ambiente dell’ospedale psichiatrico, in cui il paziente ricoverato aveva un’età piuttosto avanzata e di conseguenza risultava difficile lavorare insieme. Il paziente, ahimè, era cronicizzato. Adesso invece le persone ricoverate in Comunità sono tutte giovani, spesso automunite, desiderose di non perdere i contatti e la rete sociale in cui erano coinvolte prima del ricovero.
Marzia De Sanctis e Chiara Formica. Fotografia di Francesco Formica
I ragazzi e le ragazze più giovani hanno storie forti, che indubbiamente colpiscono. Una fra queste è quella di una ragazza che è arrivata qui non accettando il ricovero. È venuta accompagnata dal padre, che ci spiegava la sua storia. Era una paziente seguita dal Csm e i genitori chiedevano il ricovero perché la situazione stava sfuggendo loro di mano, soprattutto per il rapporto conflittuale che si era innescato tra madre e figlia, per via di questioni di ordine pratico, come la cura dell’igiene personale o della camera.
Questa ragazza si vergogna del suo aspetto a tal punto da non farcela a uscire di casa. Qui, infatti, è arrivata coperta da un cappuccio e con occhiali da sole così grandi da coprirle tutto il volto. Non voleva essere guardata in viso o negli occhi, senza il filtro degli occhiali da sole a proteggerla e coprirla. Non voleva essere guardata, né, per qualsiasi ragione, fotografata, non voleva essere giudicata. Il padre ci raccontava che la figlia trascorreva ore e ore in bagno, curava ossessivamente il suo aspetto fino al minimo dettaglio. Qui in comunità, all’inizio del ricovero, non mangiava insieme agli altri, lo faceva o prima o dopo, oppure pretendeva il pasto in camera, richiesta che però non abbiamo mai assecondato. Ovviamente non in maniera brusca, ma progressivamente (è stata una cosa molto lunga), siamo riusciti a farle capire che non aveva bisogno di coprirsi. Adesso non indossa più gli occhiali da sole, quando esce li porta soltanto se c’è il sole e a volte se li dimentica addirittura. Si fa fotografare, mangia insieme agli altri ospiti e ha instaurato un bel rapporto sia con loro che con gli operatori.
Prima accennavi agli Ospedali Psichiatrici, quali sono le differenze tra queste comunità e i vecchi manicomi?
Ho iniziato a lavorare proprio all’interno dell’Ospedale Psichiatrico di Ceccano, succursale del Santa Maria della Pietà di Roma. Come dicevo, il paziente psichiatrico era un paziente cronico e spento. Ricordo che ogni volta che salivo in reparto facevo fatica, è stata veramente un’esperienza dura. Lì, mi assicuravo prevalentemente di fornire loro un ambiente e uno stile di vita più confortevole possibile, però si limitava tutto alla soddisfazione di bisogni materiali, perché avevano perso completamente i desideri, a differenza dei pazienti che abbiamo oggi in comunità. La cura stessa era praticamente basata soltanto sulla terapia farmacologica e il lavoro si limitava all’assistenza. Alcuni – rari casi – avevano famigliari che andavano a trovarli e alcuni lo facevano di nascosto perché avere un famigliare all’interno di un Ospedale Psichiatrico veniva vissuto come una vergogna. C’è una differenza enorme dunque proprio riguardo alla possibilità di essere persone. I pazienti cronici degli Ospedali Psichiatrici erano soltanto spenti, i pazienti della Comunità al contrario difendono e preservano i loro desideri e le loro esigenze.
La componente del desiderio credo sia un fattore fondamentale proprio perché questo è un centro riabilitativo: il desiderio è uno strumento per rimanere dentro la rete sociale e probabilmente permette di non vivere la comunità come una bolla in cui gli operatori e i medici si sostituiscono alle proprie facoltà. Che ruolo ricopre il desiderio nella relazione che riuscite ad instaurare con il paziente?
È una componente essenziale. La comunità è l’inizio di un percorso, il “perché” di tutti noi operatori è lavorare affinché questo percorso serva a preparare ad altro fuori di qui. All’interno della comunità il paziente sperimenta una situazione di protezione, grazie alla quale è anche più semplice vivere e gestire i fatti della quotidianità, però lo scopo è fare in modo che recuperi tutte quelle abilità che lo rendono autonomo, tra cui anche gli interessi e i desideri stessi.
Abbiamo avuto pazienti che sono tornati a casa in totale autonomia, che si sono sposati, altri sono riusciti invece ad entrare in strutture con un indice di protezione più basso rispetto a quello della Comunità, come possono essere ad esempio gli appartamenti. Da poco abbiamo dimesso un paziente a cui è stato assegnato un alloggio popolare e anche questa è la dimostrazione dell’importanza del lavoro di rete. Cerchiamo di mantenere sempre i rapporti con i pazienti dimessi, li sentiamo per sapere come sta andando il percorso. Non tutti i pazienti che vengono dimessi raggiungono un esito positivo, ci sono pazienti che sono usciti e poi a distanza di qualche anno sono rientrati in comunità.
Come funzionano gli appartamenti condivisi da pazienti?
Sono nati successivamente alla chiusura dell’Ospedale Psichiatrico e insieme all’apertura delle Comunità riabilitative. Ne abbiamo due a Ceccano, uno per le donne e uno per gli uomini, di quest’ultimo me ne occupo personalmente, mentre quello femminile è gestito da una mia collega. In questo momento sono tre gli uomini che abitano nell’appartamento, dove vengono inseriti i pazienti dimessi perché ci rendiamo conto che sono in grado di poter gestire la quotidianità con maggiore autonomia. Vengono affiancati dall’assistente sociale nello svolgimento delle pratiche giornaliere e dal punto di vista medico e infermieristico sono seguiti dal Csm. I pazienti che vivono in appartamento sono molto collaborativi e autonomi nella gestione degli impegni quotidiani, ovviamente a volte anche i problemi minori sembrano insormontabili per loro, quindi mi chiamano per intervenire ed avere una rapida risoluzione, però in linea generale c’è molta autonomia.
L’appartamento è ben posizionato rispetto ai servizi e tutti e tre sono cointestatari del contratto di affitto. Hanno stabilito da soli una buona rete di rapporti con il vicinato, che, se necessario, interviene per prestare aiuto. Non è stato semplice perché inizialmente il vicinato, quando ha saputo che l’appartamento sarebbe stato occupato da persone con patologie psichiatriche, non l’ha presa molto bene. Poi dopo aver visto che non si trattava di persone in alcun modo pericolose sono nati dei buonissimi rapporti.
Marzia De Sanctis. Fotografia di Francesco Formica
L’ingresso in appartamento si decide insieme al paziente, perché può capitare anche che pur essendo pronti per farlo, alcuni non se la sentano perché avvertono meno protezione rispetto alla Comunità. Altri invece ne sono entusiasti e sperimentano questo nuovo tipo di vita. In alcuni casi la richiesta arriva dal Csm di competenza.
Durante questa fase pandemica, soprattutto nei periodi di lockdown, avete riscontrato delle difficoltà maggiori nei pazienti, delle regressioni?
Assolutamente sì. È stato molto difficile far capire che non si poteva uscire, che non potevamo toccarci, stare a distanza, indossare guanti e mascherina, che dovevamo igienizzare le mani e non potevamo fare attività di gruppo. Molti di loro vanno in permesso a casa per qualche giorno, in comune accordo con la famiglia, ma in questo ultimo periodo ovviamente non è stato possibile per limitare il pericolo di contagio. Un’altra cosa che ha inciso su di loro negativamente è stata l’impossibilità di ricevere le visite da parte dei parenti, si limitava tutto alle telefonate.
Vorrei chiudere facendoti una domanda un po’ più personale: perché hai scelto di fare l’assistente sociale?
Ho iniziato a lavorare, ormai trent’anni fa, a Sora all’interno di un Csm, ma è stata una propensione venuta con il tempo perché in principio non ero nemmeno così sicura che ce l’avrei fatta. Ero spaventata anche dal ramo della psichiatria, non sapevo se avrei avuto la forza di sostenerlo. Per quanto ci ripetiamo di rimanere distaccati, non lo siamo mai fino in fondo: tante cose le riportiamo a casa, in famiglia. Non è un lavoro che finisce al termine del turno. Con il tempo ho apprezzato veramente il mio lavoro, ho trovato, inaspettatamente, anche una grande forza e determinazione in me. Ho capito che è fondamentale essere disponibili e dolci, ma determinati al tempo stesso. Molte volte si ha la sensazione di accumulare fallimenti, ma sono ben consapevole che il nostro lavoro sia fatto di piccoli successi.