Pubblichiamo oggi il contributo di Renato Certosino, Responsabile della Comunità Maxwell Jones di Ceccano, Dipartimento di Salute Mentale e Patologie della Dipendenza della Asl di Frosinone. Esattamente come la Romolo Priori, questa struttura «è una comunità terapeutico-riabilitativa estensiva concepita dopo il superamento della fase di acuzie sintomatologica occorsa in pazienti affetti da patologia psichiatrica», inoltre apprendiamo che «a tal fine, si seguono percorsi risocializzanti utili ai fini del reinserimento in famiglia o in strutture a minor carico assistenziale oppure, nel caso di persone avviate alla età avanzata, in residenze sanitarie assistite. È un luogo dove possono essere proposte ipotesi per l’inserimento lavorativo, sociale, relazionale in accordo con il Centro di Salute Mentale (Csm), referente del paziente, e con il sistema di rete. Nella Comunità Maxwell Jones disponiamo di venti posti letto e accogliamo pazienti di ambo i sessi e di tutte le età comprese fra i diciotto e i sessantacinque anni». Tra racconti di esperienze vissute in tanti anni di professione, riflessioni in merito all’evoluzione del ruolo sociale che la persona affetta da patologie psichiche oggi ricopre e al ruolo della psichiatria moderna, il filo conduttore della nostra chiacchierata è questo: «il manicomio ce l’hai nella testa. E se è lì non lo superi».
Quali sono le regole e i principi attorno ai quali ruota la Comunità Maxwell Jones?
La conditio sine qua non per poter accedere in questa struttura è la volontarietà, nessun utente può entrare nella Comunità se non accetta l’inserimento. In genere le norme basilari sono le stesse che regolano l’attività comunitaria dappertutto. Al mattino si comincia con la cura dell’igiene personale, successivamente bisogna mettere in ordine – nei limiti del possibile e delle capacità di ognuno – lo spazio di propria competenza, ricorrendo all’ausilio degli operatori nel caso di persone più fragili, dopodiché si fa colazione tutti insieme e quindi prendono avvio le attività. Molte risultano limitate a seguito delle restrizioni imposte dalla pandemia, come ad esempio quelle esterne. In linea di massima al mattino c’è la lettura del giornale, seguita da uno spazio di discussione attorno agli eventi accaduti. Gli utenti sono molto attenti e abbastanza informati sulle vicende che più coinvolgono l’opinione pubblica; sono molto appassionati di sport per cui recentemente hanno seguito con passione gli Europei di calcio. Molto attiva è l’attività di laboratorio di cucina con prove di rielaborazione del vitto quotidiano mentre alla sera vengono spesso preparati dei dolci da mangiare il giorno seguente. Tutti, a turno, si occupano di apparecchiare, sparecchiare e ordinare cucina e sala pranzo.
Nel pomeriggio, almeno una volta a settimana, viene visto un film, scelto dagli ospiti e dalla psicologa, che poi sarà oggetto di discussione al mattino successivo; qualcuno dipinge, altri si prendono cura degli spazi esterni: abbiamo un piccolo orto che può essere lavorato quando le condizioni climatiche lo consentono, molto curato è l’abbellimento floreale antistante alla comunità. Nella Maxwell Jones puntiamo molto sulla socializzazione, agevolati in questo dalla collocazione della struttura che insiste dentro una vivace borgata, così da recuperare la capacità di dialogare e confrontarsi con altri che non siano sempre operatori della salute mentale. I risultati sono molto soddisfacenti: ciò che è stato compromesso a causa di problemi soggettivi determinati dalla malattia in sé, oltre che dal comportamento espulsivo messo in atto dalla società – e in alcuni casi dalla famiglia – può essere recuperato se non rinforzato.
Alle persone con una malattia mentale è sempre stata assegnata una collocazione specifica nel corso delle epoche. Nel Medioevo si pensava che fossero possedute dal demonio, poi siamo giunti all’Elogio della Follia finché non abbiamo iniziato a costruire le strutture di contenimento. Qual è, oggi, il ruolo sociale del paziente psichiatrico?
Il disturbo mentale nasce con l’uomo. Abbiamo testimonianze scritte da autori dell’epoca classica come Omero che permea la sua intera poetica sugli eccessi dei suoi eroi o Euripide con i suoi folli Aiace, Medea e Eracle; Tacito e Svetonio hanno descritto con chiarezza la follia di imperatori. La collocazione sociale e l’idea che il folle suscitava è cambiata nel tempo: nella Grecia classica, ad esempio, si pensava che fosse ispirato dagli dei che, potenziandone le facoltà mentali, lo erigevano a fonte di ispirazione e come tale veniva lasciato libero di agire. Successivamente l’immagine del folle è stata sempre meno accostata alla divinità per diventare, nel Medioevo, una figura posseduta dal demonio e per questa ragione veniva perseguitato. L’Elogio della Follia di Erasmo da Rotterdam, che citavi nella domanda, mette in risalto un altro aspetto, più aderente al pensiero prerinascimentale, in linea con i primi fermenti religiosi della Riforma luterana ossia il passaggio dal Dio Onnipotente alla centralità dell’Uomo: il principe dell’epoca consentiva al folle di parlare. Ma soltanto a lui era permesso. Tornando indietro, Ippocrate aveva intuito che potesse trattarsi di una malattia del “cervello”; saremmo arrivati molto prima alla definizione di patologia psichiatrica se avessimo coltivato il suo pensiero invece per molti secoli la malattia mentale è stata spiegata facendo riferimento agli dei, poi al demonio e poi ai miasmi, quindi ai fluidi corporei, che si pensava determinassero la personalità dell’individuo.
Fotografia di Martina Lambazzi
Abbiamo sempre avuto nei confronti dell’”alienato” mentale – così veniva definito fino al 1978 il folle dimenticando, evidentemente, ciò che Terenzio fa dire ad un suo personaggio quasi duecento anni prima della venuta di Cristo: “homo sum humani nihil a me alienum puto” – un atteggiamento che è tipico dell’uomo davanti a tutto ciò che non riesce a capire: diffidenza, ghettizzazione, espulsione. In alcune aree del Nord Europa le persone con disturbi psichici venivano ammassate su battelli attraccati lungo i fiumi, veri antesignani dei manicomi. Quando dal Settecento si è iniziato a parlare di malattia sono comparse anche le strategie empiriche per provare a risolvere il problema. Se non abbandonati a sé stessi, coloro che facevano stranezze venivano curati con salassi o altri metodi cruenti. Nell’Ottocento ha cominciato prendere corpo il concetto, falsamente umanitario, di ammassarli tutti insieme in enormi spazi: i primi manicomi, indipendentemente dalle patologie, spazi disumani, disumanizzanti. Del resto il concetto di difendere dalla società il diverso, mettendolo fuori dal gioco sociale, è prevalso fino alla seconda metà del Novecento, con gli Istituti per sordomuti, per ipovedenti, mutilati dalle guerre, cerebrolesi. Si intendeva proteggere la popolazione fragile, in realtà erano sottratti allo sguardo dei “normali”. Erano i normali a proteggersi. Quando è stato superato il concetto di malattia guaribile o inguaribile, quando è subentrato, invece, il concetto di cura si è capito che queste persone avevano risorse che potevano essere recuperate o incrementate o cercate. Perché ciò avvenisse era necessario innanzitutto restituirle al mondo. Vengono aiutati, diceva Basaglia, se stanno tra noi, non tra loro.
Secondo Foucault anche la scienza medica è una forma di potere. La psichiatria ha, in effetti, un grande potere, quello di discernere tra la condizione di salute e quella di malattia. Oggi parlo con uno psichiatra e mi piacerebbe conoscere la tua visione.
La concezione di “sano” e “malato” è superata. L’Organizzazione Mondiale della Sanità parla di benessere, ovverosia assicurare la migliore qualità di vita possibile a partire dalle proprie condizioni fisiche e mentali. È un concetto che sembra semplicissimo ma in realtà non lo è, perché siamo portati a pensare che il benessere coincida con lo stare bene. Io posso stare bene senza le due braccia che prima avevo, se il mondo mi mette in condizione di esprimermi al massimo livello senza quelle due braccia. Il sistema globalizzante è nella natura stessa del mondo nel quale viviamo per cui l’individualità, per i sistemi di comunicazione che abbiamo sviluppato, diventa sempre più problematica. Se mi rendo conto di avere un certo tipo di patologia qual è la prima cosa che faccio? Vado su internet per vedere se esiste un’associazione che se ne occupa; quali esperienze comunicano coloro che hanno lo stesso problema.
Se pensiamo al tempo che passiamo davanti ai nostri computer o ai cellulari possiamo dire di essere individualisti, certo, ma al contempo siamo omologati nei comportamenti, tendiamo a fare le cose che fanno tutti. Anche nella psichiatria accade questo, anche nella scienza medica si sono imposte delle mode che condizionano. Nel tempo è cambiato il linguaggio, anch’esso è omologato. Ad esempio, il concetto di funzionamento sociale, che è un termine orrendo, viene spesso accostato alla psicopatologia per descrivere i progressi e i margini di miglioramento eppure risulta difficile immaginare di parlare di cura della mente di una persona associandola al concetto di “funzionamento” come fosse una a macchina. La persona non funziona ma pensa, soffre, ama, sbaglia, rimpiange, si smarrisce. La differenza sostanziale della psichiatria rispetto alle altre scienze mediche sta nel fatto che si lavora su elementi che proviamo a cogliere attraverso la parola, la gestualità, la postura, la rabbia. Cerchiamo di comprendere i nostri pazienti non solo per quello che dicono e fanno, ma per come entrano nella stanza, per come ci guardano, per come si siedono.
Per raccontare le strutture come la Comunità Maxwell Jones e parlare di salute mentale siamo partiti dal concetto di stigma. Perché la malattia mentale e le persone che ne soffrono fanno così paura?
Si ha paura del diverso, in più persiste la convinzione erronea che queste persone siano pericolose. I malati mentali un tempo erano gli alienati, dovevano stare da un’altra parte perché privi del connotato “normalità”. Del resto il termine follia, dal greco, indica “colui che ha la testa vuota”. E allora, come si può pensare di entrare in relazione con uno che ha la testa vuota? Lo stigma esiste nei confronti di tutto ciò che è difforme dal nostro modo di essere e di pensare. Spesso non c’è cattiveria o perversione. Solo ignoranza. Ceccano, tra l’altro, è un esempio raro di società che ha superato lo stigma, probabilmente grazie alla convivenza con il manicomio e con le persone che lavoravano al suo interno. In questo posto c’è sempre stato un dialogo tra i pazienti e la cittadinanza.
Quanto è importante la collocazione spaziale delle comunità terapeutiche per far sì che il dialogo con la cittadinanza resti vivo?
È molto importante, tanto che una delle condizioni che aveva posto Basaglia con la L.180 è che le strutture riabilitative fossero fuori dal contesto ospedaliero. Noi, invece, siamo rimasti dentro al manicomio, dentro al vecchio manicomio, ma col tempo abbiamo capito che si può stare dappertutto a patto che il manicomio non ce l’hai nella testa. E se è lì, non lo superi. Sono gli altri che creano barriere con il paziente psichiatrico, lui difficilmente lo fa. Se lo fa, è perché è nel suo mondo, nel negativismo dei suoi sintomi. Sono entrato da giovane per la prima volta nella “Real Casa de’ Matti”, suggestiva definizione borbonica del Manicomio di Napoli. Ero lì per giocare una partita di pallone e vedendo i medici e gli infermieri, insieme ai ricoverati, pensavo tra me e me: «questi sono pazzi a lavorare qui dentro». Anni dopo, appena arrivato nel Reparto di Psichiatria, non vedevo l’ora di andarmene. Per superare il timore ho dovuto lavorare su me stesso, non ho acquisito immediatamente la consapevolezza di fare qualcosa di utile. Ma tornando alla collocazione delle Comunità, oltre a dover essere vicine ai centri abitati, è importante che queste strutture non siano alienanti. La Comunità Maxwell Jones era un laboratorio di analisi cliniche quando siamo entrati, a terra c’era il linoleum e le pareti erano bianche. Un reparto ospedaliero. Insieme, colleghe e colleghi abbiamo cercato di rendere la struttura accogliente: il colore, i mobili, i libri, i fiori i quadri sono elementi essenziali, danno vita. Anche questo è la cura.
Fotografia di Martina Lambazzi
A proposito dell’importanza di essere accolti, ci tengo a raccontare un episodio. Da giovane psichiatra, quando lavoravo presso il Centro di Salute Mentale di Sora, si è reso necessario fare una visita domiciliare a un ragazzo che stava molto male e che aveva probabilmente bisogno di un Trattamento Sanitario Obbligatorio. Una volta arrivato, ricordo di essere rimasto colpito da quella casa di campagna costruita per metà e l’altra metà uno scheletro di cemento, e poi dalla stanza del ragazzo dove c’era soltanto un letto con un comodino e delle immaginette di qualche santo appese al muro. Dopo avermi visto, il ragazzo è saltato fuori dalla finestra e senza dire una parola ha messo in moto la sua macchina ed è fuggito via. Insieme ai genitori siamo riusciti a capire che si trovava da uno sfasciacarrozze, un tipo decisamente inquietante, che aveva il suo sfascio poco distante dall’abitazione. Arrivato lì ho provato a spiegare a costui che negava la presenza del ragazzo che il questi doveva essere ricoverato perché stava molto male. Ricomparso, il giovane non voleva saperne di seguirci e continuava a ripetere: «i miei genitori vogliono uccidermi, mio padre vuole farmi del male». Senza alcun successo tentavo di portarlo con me ma, a quel punto, lo sfasciacarrozze, rivolgendosi al ragazzo gli ha detto: «Vado io da tuo padre e se vuole davvero ucciderti se la vedrà con me. Lo sai io sono tosto. E poi sono vecchio, ne ho passate tante, qualunque cosa mi capiti, non m’importa». La risposta di quel giovane, improvvisamente divenuto meno teso, è stata rivelatrice per me: «va bene, io vado ma non fargli del male a mio padre». Immagina un figlio che teme che il padre possa ammazzarlo: è il massimo dell’angoscia. Quello sfasciacarrozze lo ha fatto sentire accolto, gli ha dato credito, gli ha dato una via di uscita e ha spezzato l’angoscia permettendo all’amore per il padre di emergere; la contraddizione che dilaniava la sua mente ha preso corpo e lui ha respirato. Questa è l’empatia, questa è la psichiatria moderna. Tutti possiamo essere terapeuti. Tutti, con una sola parola se è quella giusta. Lo sfasciacarrozze l’ha trovata.
Un’ultima domanda prima di salutarci. Come è nata la scelta di diventare uno psichiatra?
Io nasco infettivologo, la mia prima specializzazione è igiene e medicina preventiva. Ho visto i primi malati di Aids, colpiti dallo stigma tanto quanto i malati mentali perché l’idea comune era che essendo omosessuali o tossicodipendenti avessero deciso il proprio destino in base ai loro comportamenti. Per uno strano scherzo del destino sono passato da uno stigma all’altro. Dirigevo un Laboratorio di Analisi e mia moglie aspettava la nostra prima figlia. Era agosto, ricordo che faceva caldissimo e avevamo programmato di andare in montagna. Dopo aver caricato i bagagli in macchina c’è stato un ripensamento, per il caldo, e abbiamo ritardato la partenza. Proprio grazie a questo ritardo è accaduto che un accaldato postino mi recapitasse un telegramma con il quale venivo convocato a Ceccano per un posto nell’area di Medicina. Una volta arrivato a Ceccano mi hanno chiesto di prestare servizio nel Reparto di Psichiatria, non in Medicina, allora sono tornato a casa, per nulla convinto di voler intraprendere questa carriera, poi ha prevalso la voglia di provare. Quel pomeriggio stesso sono tornato di nuovo a Ceccano e ho iniziato proprio quella notte nel reparto di Diagnosi e Cura (SPDC). Da lì, dopo tanti dubbi, ho avuto la percezione che potesse essere la mia strada, stimolato da impagabili colleghi più anziani, e grazie ad un ripensamento ho avuto la fortuna di fare un lavoro bellissimo, che ti restituisce molto di più di quanto dai.