Della salute mentale, in particolar modo della patologia mentale, a spaventare più di ogni altra cosa è la sua invisibilità. Il suo non essere tangibile, né riconducibile a qualcosa di univoco e concreto, come accade invece per le malattie organiche.
Insieme a Giulia Listanti, psichiatra e psicoterapeuta presso una Casa di cura per pazienti psichiatrici convenzionata a Roma e il Centro clinico Sinergie, dove gestisce soprattutto la fase subacuta, abbiamo parlato prevalentemente della stigmatizzazione sistemica a cui sono soggette le fragilità ascrivibili, a vario titolo, alla sfera psicologica.
L’alone dell’effimero che avvolge le patologie mentali ne impedisce tutt’oggi l’integrazione sociale, «cos’è malato? Il cervello? No, o meglio alcune alterazioni biologiche ci sono ma non è riducibile solo a questo. Cos’è malata? L’anima? Ma che cos’è l’anima? Cos’è malata? La psiche? Ma dove sta? E poi, perché? Cosa vuol dire? La malattia mentale è meno visualizzabile e dunque è meno rassicurante».
Perché la salute mentale rimane ancora un tabù per la nostra società?
Nella società di oggi rispetto alla salute mentale c’è sicuramente ancora tanto da lavorare, sia rispetto a tutto ciò che viene considerato stigma in relazione alla persona con malattia psichiatrica, sia rispetto a ciò che più comunemente può essere inteso come il disagio, la difficoltà o la sofferenza emotiva e psicologica. Quando parliamo di salute mentale non dobbiamo mai dimenticare che parliamo di qualcosa di molto ampio, qualcosa che percorre un gradiente: la salute mentale riguarda anche ciò che quotidianamente viviamo come stress per arrivare all’estremo opposto, come può essere la psicosi. L’abitudine generale invece considera soltanto la pazzia, tra l’altro vissuta come qualcosa di alieno, per questo si tende a tenerla lontana. Un tempo i malati psichiatrici erano gli alienati, la malattia mentale è rimasta in qualche modo qualcosa di lontano, incomprensibile e intoccabile. Questo si porta dietro – come fanno di solito le cose che non si conoscono – la paura. La paura spesso ci impedisce di poter ammettere a noi stessi e alle persone che abbiamo vicine di avere una difficoltà e dunque di poter chiedere aiuto. Viviamo di negazioni: se non vedo il problema, il problema non esiste.
Aggiungo un altro perché. Perché i problemi di salute mentale sono così tanto stigmatizzati rispetto a quelli di salute organica?
Questa è una bella domanda. Intanto – mi viene da dire – che la salute mentale è più difficile rispetto alla salute fisica, perché questa permette di vedere il problema, lo manifesta visibilmente, al di là di quei casi ovviamente in cui anche la malattia organica non si rende visibile. La malattia fisica è qualcosa di descrivibile, la cui cura è tangibile. È qualcosa che possiamo pensare come estranea a noi, con la malattia mentale invece è più difficile compiere questa operazione perché è più complessa nelle sue dinamiche. Innanzitutto è completamente invisibile, non c’è un oggetto di malattia. Cos’è malato? Il cervello? No, o meglio alcune alterazioni biologiche ci sono ma non è riducibile solo a questo. Cos’è malata? L’anima? Ma che cos’è l’anima? Cos’è malata? La psiche? Ma dove sta? E poi, perché? Cosa vuol dire? Quindi la ragione secondo me sta nel fatto che è meno visualizzabile e dunque è meno rassicurante.
Facevi riferimento agli alienati. Non troppo tempo fa, le persone con malattie psichiatriche erano appunto gli alienati da internare e da allontanare dal resto della società perché ritenuti pericolosi o comunque certamente non assimilabili alla normalità sociale. Ritieni che una parte dei professionisti della salute mentale risenta ancora di questo approccio tendente alla marginalizzazione e all’internamento?
Sono molto fiduciosa rispetto ai miei colleghi psichiatri, psicologi e operatori della salute mentale in generale. Stando alla mia esperienza, nessuno oggi è pre-basagliano, d’altronde però probabilmente ad essere rimaste indietro sono proprio la struttura e l’offerta perché si possa parlare di inclusione e allontanarci dalla stigmatizzazione. Siamo ancora notevolmente indietro sotto questo punto di vista. La legge 180 che ha chiuso i manicomi ha restituito al paziente psichiatrico la sua dignità di persona cercando di reinserirlo nella società, però l’applicazione pratica è scarsa: la quantità di risorse necessarie per far sì che questo diventi veramente possibile sono ancora insufficienti. Le famiglie si sentono abbandonate, per i pazienti non ci sono sufficienti servizi, né strutture adeguate ad accoglierli. Non ci sono le persone. E in questo le varie politiche sanitarie hanno la loro responsabilità. Ovviamente poi in psichiatria conta molto il territorio, ci sono territori che per ragioni diverse funzionano molto meglio del Lazio, ma passi in avanti da fare ce ne sono dappertutto.
Rispetto alla tua esperienza, alle persone che hai seguito finora. Chi è il paziente psichiatrico?
Il paziente psichiatrico è prima di ogni altra cosa una persona che, come tale, è diversa da chiunque altra. E se la patologia toglie la libertà della diversità, sicuramente il paziente psichiatrico è una persona con una storia che lo ha reso fragile.
Cosa coinvolge la malattia mentale? Cos’è?
È una patologia complessa, perché multifattoriale sin dalla sua genesi. Nella malattia mentale ci possono essere delle alterazioni biologiche al livello di struttura e processi cerebrali, dopo di che c’è una storia di sviluppo, c’è una storia familiare, relazionale e psicologica. La malattia mentale forse è la miglior strategia possibile per sopravvivere nonostante tutti questi fattori. Freud diceva che il delirio è il primo tentativo di guarigione del paziente. Laddove la realtà è inaccettabile anziché morire, si cerca una spiegazione alternativa, fosse anche l’ultima e fosse anche delirante, in cui rifugiarsi. Spesso si supera la fase del delirio, altre volte diventa cronico.
Ho la percezione che i percorsi di psicoterapia in generale stiano uscendo un po’ dall’ombra: l’associazione tra la necessità di rivolgersi ai professionisti e alle professioniste della salute mentale da una parte e la debolezza, la fragilità e l’instabilità dall’altra non è più scontata. Pensi sia effettivamente così o credi ci sia ancora molto lavoro da fare anche rispetto a questo?
Penso che man mano le cose stiano cambiando, ci sono sicuramente un’apertura e una consapevolezza diverse. Forse c’è anche una diversa disponibilità generazionale a chiedere aiuto partendo dalla percezione di un bisogno. C’è ancora della strada da fare ma sono fiduciosa, mi sembra che progressivamente si stia integrando questa forma di pensiero nel contesto sociale più ampio. Le difficoltà nella vita sono molteplici, essere in difficoltà non vuol dire essere una persona debole, significa percepire un disagio o un malessere. Significa avere la sensazione che non si arriva da soli e a quel punto chiedere aiuto è coraggioso, al contrario di quanto si pensi. Il modo in cui, poi, si sceglie di essere supportati è soggettivo: esistono tantissime sfumature che vanno dal disagio emotivo alla malattia psichiatrica pura. Quando parliamo di disagio psicologico, di malessere psicologico ed emotivo – passatemi il paragone – possiamo pensare anche allo sport: fare sport fa bene perché allena il fisico, permette di mantenerlo in salute. Intraprendere un percorso psicoterapeutico, al di là di ciò che è patologia pura, significa in qualche modo metter mano al proprio mondo emotivo e a seconda dell’orientamento in modi diversi. Significa maneggiare una parte di sé che altrimenti resterebbe nell’ignoto. Significa scoprirsi.
La sofferenza psicologica nella nostra società viene sminuita. La nostra è una cultura della sopportazione, in cui la sofferenza viene raccontata come se non potesse essere diversamente. In parte è sicuramente vero, però in questo modo il malessere emotivo e psicologico non riesce ad essere preso veramente sul serio, come invece accade per una gamba rotta.
Sì, il pensiero di fondo è che difficilmente si possa rendere la sofferenza psichica qualcosa di totalmente estraneo a noi. La frattura di una gamba è qualcosa di esterno, che si può aggiustare e anche rapidamente, dall’altra parte invece le emozioni sono considerate qualcosa di normale, diventa dunque difficile accettare che possano diventare in alcuni casi addirittura qualcosa di patologico o in altri talmente intense da non poterle gestire da soli. Tutto diventa visibile e quindi accettabile soltanto parlandone. Parlandone fin dai luoghi più intimi, parlando a casa con i propri figli di come si sta. Cercando di non trattare le emozioni come qualcosa di ignoto e pericoloso. Anziché chiedere al proprio figlio: “cosa hai fatto oggi a scuola?”, si potrebbe iniziare a chiedere: “come sei stato oggi a scuola?”.