Al convegno dello scorso 23 marzo, Detenzione e reinserimento sociale. Diritto allo studio, diritto al lavoro, svolto presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Roma Tor Vergata, la questione che spontaneamente ha accumunato molti dei contributi è stata il tempo. Un tempo che ha necessità di essere riempito di senso, di significato. Un tempo che ha necessità di essere investito per poter restituire.
A riflettere sul tempo, anche Marta Bonafoni, consigliera regionale per il Lazio, che ricordando un orologio rotto nel carcere di Civitavecchia, dove era in visita qualche tempo fa, ha presentato il tempo del carcere come un tempo identico, indipendentemente dal fatto che sia «un tempo sano o un tempo rotto».
La privazione della libertà spesso si riduce a mera sottrazione di tempo, che di per sé non può che essere dannosa, appannaggio di una retorica giustizialista evidentemente ancora inconsapevole di incrementare proprio quella criminalità che tanto disprezzerebbe. Eppure, come ha ribadito la stessa Bonafoni «il recupero del reo è un vantaggio per tutti e tutte, è la vera sicurezza. Non quella agitata, ma quella agita e costruita giorno per giorno».
Il reinserimento sociale implica la considerazione della persona detenuta nella sua totalità: «qualche settimana fa, ad esempio, il Consiglio regionale del Lazio ha approvato una mozione sulla sessualità e l’affettività in carcere per chiedere al Parlamento di legiferare, perché disumanizzare quei corpi e privarli dal ristoro che è l’affetto è distanziarli dall’obiettivo costituzionale che ci diamo sul recupero del reo», ha sottolineato Marta Bonafoni.
Aggiungendo che «gli istituti di pena sono periferia della periferia, anche quando sono in centro. Non riescono ad avere un dialogo con il tessuto della città. Questo porta a una prima sconfitta, perché se tu separi le persone che dentro gli istituti di pena devono recuperare il loro rapporto con la società, è chiaro che ci si allontana da quello che il percorso costituzionale suggerisce.
Il grande tema dell’alta formazione in carcere ha due sfaccettature sostanziali: la prima è strumentale, la seconda è culturale. Quella strutturale si muove su tre linee del tempo, ossia sul passato perché avere strumenti culturali e formativi nuovi significa avere più strumenti per rivalutare, rivedere e quindi recuperare ciò che si è sbagliato e che non si deve più sbagliare. Non è con l’isolamento dalla formazione e dalla cultura che noi possiamo pensare che con uno schiocco di dita si possa ripercorrere un sentiero dove ci si è persi e dove soprattutto si è fatto perdere altre persone. Il presente: riempiere di senso quel tempo che sembra essere senza significato. In carcere il tempo rotto o il tempo sano è un tempo identico, invece, la formazione e l’università che entra e il detenuto che esce è un tempo che si riempie. Il futuro: dove va il detenuto o la detenuta una volta usciti? Dire alta formazione in carcere vuol dire ribaltare improvvisamente l’idea di chi in carcere sta come scarto, come ultimo. Questo ribaltamento deve contaminare tutti, a partire dalle istituzioni che hanno responsabilità e strumenti in più».