Nel libro uscito il 29 settembre, Bolle di Tsunami, Michele Spaccarotella, psicoterapeuta psicodinamico e psicosessuologo, ha scelto di dialogare con l’Altro attraverso la condivisione dei propri vissuti personali. Le sue riflessioni, raccolte nell’arco di venticinque anni, rileggono esperienze personali di dolore – «affrontato, abbracciato e utilizzato attraverso la parola scritta» – con l’intento di fare del bene e il desiderio di contribuire a creare una società in grado di comprendere che la forza e la vulnerabilità rappresentano due lati della stessa medaglia.
«Alla base c’è l’idea che un mio dolore del passato potesse essere d’aiuto oggi per altre persone, mediante i fondi dei proventi derivanti dal libro. Il messaggio che volevo lanciare, sia come persona che come terapeuta, è che il dolore – per quanto spiacevole e pesante da affrontare – può diventare qualcosa di costruttivo anche per la vita delle altre persone. L’idea alla base del libro è che l’esperienza del mio dolore possa essere messa al servizio degli altri per fare del bene successivamente».
II tuo libro, Bolle di Tsunami, esce il 29 settembre. Da dove nasce e perché si lega al tema del dolore?
Si tratta di un progetto editoriale solidale i cui proventi verranno destinati a due attività che operano sul territorio di Roma: il servizio di psicoterapia sospesa del collettivo Lucha Y Siesta, che permette di fare psicoterapia gratuitamente a donne e minori vittime di violenza e il servizio di prevenzione del suicidio dell’ospedale Sant’Andrea di Roma.
Nel mio precedente libro, Il Piacere Digitale, ho voluto raccontare attraverso una lettura psicologica e sociologica i cambiamenti causati dall’avvento dei social network a livello umano, sociale e relazionale. In questo nuovo progetto ho ripreso dei miei vecchi scritti, elaborati nell’arco di venticinque anni, legati a eventi che mi hanno spinto a mettere su carta il dolore. Alla base c’è l’idea che un mio dolore del passato – affrontato, abbracciato e utilizzato attraverso la parola scritta – potesse essere d’aiuto per altre persone oggi mediante i fondi dei proventi derivanti dal libro.
Il messaggio che volevo lanciare, sia come persona che come terapeuta, è che il dolore – per quanto spiacevole e pesante da affrontare – può diventare qualcosa di costruttivo anche per la vita delle altre persone. È il mio dolore messo al servizio degli altri per fare del bene successivamente. Tutto ciò è stato possibile solo grazie alla parola scritta.
Utilizzare la scrittura come momento di raccolta delle emozioni, come momento per affrontare quello che ho vissuto, mi ha permesso di raccogliere le idee e di andare a riguardare quel dolore per capire ciò che avevo vissuto.
Perché questo titolo, Bolle di Tsunami?
Anche a livello grafico, nella copertina del libro, ho voluto lanciare l’immagine di una contraddizione, la trasparenza e la sottigliezza di una bolla contrapposte all’irruenza di uno tsunami. Nel libro racconto di come le emozioni possano rappresentare per l’essere umano uno strumento che porta a sentirsi fragili e trasparenti e, al contempo, possono colpirci con una forza che spesso non siamo in grado di affrontare.
Il libro si divide in due settori: le poesie e le bolle, ossia una serie di riflessioni, racconti brevi, aforismi e scritture raccolti in questi anni che hanno come intento emozionare chi legge, ma anche creare immedesimazione. Il lettore o la lettrice guarderà quelle bolle per cercare di comprendere quale momento della vita sta attraversando.
Come psicoterapeuta ti relazioni quotidianamente con il dolore dell’Altro. Che valore ha questo scambio a livello umano e come ti trasforma?
Penso che il lavoro dello psicoterapeuta sia molto complesso, non è semplice essere sempre professionisti e professionali per gli altri pur attraversando delle difficoltà personali. Non è facile essere sempre al cento per cento, ma è un dovere che ho nei confronti dell’utenza e delle persone che scelgono di condividere con me le loro storie. È un dono e al contempo una missione, d’altra parte è un osservatorio straordinario dell’essere umano: entrare in contatto con le storie e le differenze che accolgo mi dà la possibilità di ragionare sulla variabilità e complessità dell’essere umano, contemporaneamente vengo stimolato come persona. Ascoltare queste storie – anche se in maniera professionale, priva di giudizio e scevra da qualsiasi inferenza personale – non può non cambiarti e non toccare corde personali che, ovviamente, vengono lavorate attraverso la supervisione, il confronto con i colleghi e la scrittura.
Stiamo vivendo un momento storico nel quale si parla molto di più di dolore grazie ai social network – mi viene in mente quello che sta avvenendo con Giorgia Soleri rispetto al racconto delle malattie croniche, che sta portando a effetti importanti come la proposta di legge alla Camera e al Senato per il riconoscimento della vulvodinia e della neuropatia del pudendo come malattie croniche invalidanti – mentre in alcune situazioni (ad esempio recenti episodi di cronaca) ho notato che il dolore e le emozioni venivano semplicemente evacuati senza un filtro da parte della persona. Se viene adeguatamente affrontato e lavorato può diventare uno strumento di sensibilizzazione, se viene vissuto come una vetrina anche il dolore può essere sminuito. Si tratta di un passaggio molto delicato di cui si discute sui social, perché crea delle fazioni: da una parte c’è chi sostiene che esprimere il proprio dolore possa essere d’aiuto ad altri, dall’altra chi pensa che sia sintomo di esibizionismo. Se si riuscisse a far dialogare queste due anime se ne potrebbe parlare in maniera diversa, senza creare tifoserie.
Il mio osservatorio mi permette di comprendere come il dolore riguardi tutti: a tutti livelli, a tutte le età, in tutte le classi sociali. Persone che crediamo molto forti, o comunque di riferimento, possono andare in frantumi a causa di un evento doloroso. Si fatica a comprendere che qualsiasi essere umano, indipendentemente dal ruolo che ricopre, ha una sua sensibilità e un suo modo di gestire le emozioni. Mi viene alla mente il gossip che porta alla luce notizie di cantanti, attori o presentatori che soffrono di un determinato disturbo, mettendoli però alla berlina. Bisogna avere rispetto quando si parla del dolore degli altri. In tal senso vedo molto positivamente gli strumenti che iniziano ad essere messi a disposizione della popolazione: sportelli psicologici a costo sociale o la discussione attuale in merito al bonus psicologo. Vuol dire avere un’attenzione alla salute mentale alla stessa stregua di quella fisica.
Così come abbiamo avuto modo di constatare nello scambio con altri professionisti della salute mentale, sembra che la nostra società soffra l’idea di apparire vulnerabili.
Proprio questa mattina, mentre facevo colazione guardando la rassegna stampa, ho appreso del suicidio di un ragazzo di trentacinque anni che ha partecipato al programma tv “Uomini e Donne”. Il quotidiano riportava: «Addio a Manuel, il tronista fragile». Questo titolo mi ha molto colpito perché ho pensato che i lettori avrebbero potuto associare il suicidio alla fragilità. Il termine “fragile” è utilizzato come aggettivo negativo, inoltre passa l’idea che la forza possa essere associata alla visibilità sociale, al ruolo o al lavoro della persona, dunque la forza sembra non prevedere né la fragilità né la possibilità che quella persona possa soffrire o disporre di una particolare sensibilità personale.
Come dicevamo poco fa, il dolore riguarda tutti. Se ciascuno di noi prova dolore, dovremmo essere in grado di riconoscerlo e riconoscerci nella sofferenza altrui, ma spesso questo non accade. Esiste il modo giusto di esprimere e raccontare il dolore?
Lo scorso anno, con l’occasione dell’uscita del mio primo libro, ho fatto un tour in tutta Italia e in alcuni incontri di presentazione del volume hanno partecipato anche dei politici. Ho avanzato la proposta di strutturare dei percorsi di educazione al digitale per i ragazzi sin dalle elementari, magari nelle ore di Educazione Civica, affinché si possa iniziare a parlare della responsabilità che ci tocca quando mettiamo in mano uno smartphone a un bambino. L’esempio che faccio sempre è quello della Ferrari: una macchina bella, costosa, desiderabile a livello sociale, che però ha bisogno di una patente speciale per essere guidata. Allora perché mettiamo in mano ai bambini delle Ferrari?
Parlare di digitale, allora, vuol dire educare al rispetto dell’altro. I dati ci dicono che i bambini entrano in possesso di uno smartphone già a quattro-cinque anni, ciò significa affacciarsi al mondo in maniera molto più rapida rispetto alle generazioni precedenti. Una ripercussione del mondo digitale, ad esempio, è l’allontanamento dall’empatia e dai sentimenti dell’altro, perché di fronte a un’immagine, a un’informazione o a un articolo siamo abituati a commentare dando immediatamente la nostra opinione sull’argomento e bypassando tutto quel processo di riflessione e di contatto con noi stessi.
Educare al digitale, al rispetto dell’altro, all’empatia vuol dire entrare in contatto con i nostri stessi sentimenti. Se riusciamo a fare questo tipo di operazione sin dalla tenera età creiamo dei cittadini migliori, delle persone migliori. Se attuiamo questo passaggio culturale evitando di strumentalizzarlo o di politicizzarlo, creiamo dei cittadini più consapevoli delle proprie emozioni e soprattutto un’attenzione maggiore alla salute mentale, perché tanti dei problemi che si manifestano in adolescenza o nell’età adulta nascono in quegli anni lì. Educare le persone a un contatto con i propri sentimenti, con i sentimenti altrui, permette di creare persone più attente al mondo sentimentale.
È complesso far passare il concetto che i sentimenti, a differenza delle emozioni, si apprendono.
Abituare ed educare all’ascolto è un elemento che manca molto nella nostra società. Abbiamo degli strumenti tecnologici che ci permettono di fare tutto ma ci allontanano da ciò per cui sono stati pensati, cioè ascoltare e parlare, l’altra persona e noi stessi. Oggi c’è uno sbilanciamento: si parla molto di sé stessi e c’è poco spazio per l’altro. Parlare di dolore vuol dire avere una sensibilità all’accoglienza che ci fa crescere come persone e ci permette di vedere gli altri con una risorsa, non come nemici.
Sempre rispetto alla notizia di cui parlavamo poco fa, nelle interviste agli amici del ragazzo e nei vari interventi, ho letto spesso la frase: «si teneva tutto dentro». Se mi tengo tutto dentro vuol dire che ho difficoltà a comunicare quello che ho da dire su di me, vuol dire che non ritengo gli altri in grado di comprendermi o perché non li sento all’altezza o perché provo vergogna nel parlare di cose molto intime come il sentimento del dolore. Il rischio è che quelle emozioni possano logorarmi da dentro, fino ad uccidermi. Quando parlo di educazione all’ascolto mi riferisco anche a questo, cioè sapere che non si è mai soli, che c’è sempre un familiare, un amico, un contatto che può accogliere il proprio dolore e se anche non si trovasse nessuna di queste persone, c’è sempre un professionista pronto a prestare un ascolto competente, un aiuto volto ad affrontare e a trattare quel dolore.
Spesso la difficoltà di stare al mondo è connessa alla colpa, quasi a voler dire: «come ti permetti di non apprezzare la vita?». E quando si scomoda la colpa, insieme alla vergogna, liberarsi diventa più complicato. Nei tuoi scambi professionali e umani hai avuto questa percezione?
Il tema della vergogna e della colpa sono ricorrenti, anche perché molti di questi sentimenti sono legati all’educazione che si riceve in famiglia. Può capitare che questi sentimenti derivino da un conflitto interno tra ciò che la persona sente e ciò a cui è stata educata o che le è stato insegnato. Più questo conflitto è forte, più la persona ha difficoltà a operare delle scelte in maniera autonoma e lucida. Un lavoro che si fa con il paziente è il disvelamento del proprio Io, della propria vera natura, delle proprie vere inclinazioni e passioni, cercando di far emergere la parte più spontanea. Per fare questo però ci vogliono anni.
Ripercorrere la storia della persona, settimana dopo settimana, costruire un quadro differente di sé attraverso lenti nuove, dalle quali guardare la propria storia mediante la relazione con una persona non giudicante, permette di raccontarsi in maniera diversa.
Il dolore, quindi, può essere utile ma può anche annientare. Come si fa a renderlo costruttivo?
Il dolore è materia viva. È qualcosa che va trattato in maniera adeguata e, sebbene talvolta non sia possibile farlo a partire dalle risorse di cui si dispone, ciò non deve vietare di trattare e lavorare quella materia. Nel momento in cui avviene un evento traumatico che sposta l’equilibrio della persona è utile avere degli interlocutori con cui iniziare a condividere, perché sul lungo periodo quel dolore può dire molto di noi, delle risorse che abbiamo messo in campo per affrontare la situazione, ma ci permette anche di vedere quell’evento sotto una luce diversa.
Rinarrare un evento, anche sul lungo periodo, permette di vedere non solo come lo abbiamo affrontato, che cosa ci ha causato, ma anche cosa ci ha insegnato. A tal proposito mi vengono in mente due titoli di libri abbastanza noti. Uno è Un giorno questo dolore ti sarà utile, la storia di un figlio che perde il padre durante l’attentato alle Torri Gemelle e racconta il loro rapporto attraverso quell’evento, l’altro è La fine il mio inizio di Tiziano Terzani, che analizza la sua esistenza a partire dalla propria malattia.
Il dolore è sicuramente una materia scomoda, però è una materia che sul lungo periodo può diventare anche fertile. Quando, al contrario, annienta si impone la necessità di mettere in campo più strumenti, quindi in quel caso si può fare riferimento a una rete sociale o a un sostegno farmacologico. In tal senso il racconto dell’esperienza non deve mai mancare perché, come dicevamo, le emozioni possono anche uccidere e quindi deve esserci sempre grande attenzione e grande sensibilità al racconto.
Vuoi aggiungere qualcosa prima di concludere?
Spero che questo progetto abbia un’eco non solo per poter raccogliere più fondi possibili da destinare alle due attività che abbiamo nominato prima, ma anche per lanciare un messaggio atto a combattere l’individualismo. Ogni giorno abbiamo a nostra disposizione un palcoscenico, basta accendere una storia di Instagram o di Tik Tok e accediamo alla possibilità di comunicare in ogni momento quello che stiamo vivendo. Se questo palcoscenico viene utilizzato in maniera adeguata, ragionata e pensata allora può diventare un grande strumento, se diventa un canale televisivo, una stazione radio in cui diciamo soltanto «io, io, io», creiamo un palcoscenico di miliardi di persone che costantemente, incessantemente, parlano di loro stesse, vivendo gli altri solo come un pubblico.
Questo progetto ha l’idea di dire basta con l’individualismo. Torniamo ad essere comunità, iniziamo ad essere sensibili al dolore degli altri e ai vissuti degli altri. Torniamo a fare rete per davvero. Il messaggio che voglio lanciare è di avere rispetto del proprio dolore ma anche di quello degli altri, perché soltanto così riusciremo a costruire una società più attenta al “noi” oltre che all’”io”.