Se dal fenomeno dell’immigrazione togliamo la fredda voce delle statistiche e il rumore assordante della paura, resta la crudezza autentica delle storie che salva dal pietismo. Restano volti e nomi, che mettono al riparo dall’indifferenza. Dopo l’intervista alle operatrici del Progetto SAI (Sistema Accoglienza e Integrazione), restituiamo attraverso il racconto le storie di alcuni dei ragazzi incontrati nelle ultime settimane: Seydou, Hassan e Karim.
Dal Progetto SAI. «Ho pensato che sarei arrivato in Italia per salvarmi», Seydou
Seydou ha 30 anni e viene dal Mali. La diffidenza e la riservatezza traspaiono dalle sue parole, mentre racconta il suo viaggio. «Ho lasciato il mio paese da solo, a causa della guerra jihadista. Sono in Italia dal 3 gennaio 2018 e una volta arrivato ho passato un mese a Siracusa, poi mi hanno trasferito qui. A Siracusa c’erano centoquaranta persone. Ricordo che avevamo difficoltà a mangiare e a vivere bene, eravamo isolati perché il primo paese distava 7 chilometri.
Seydou. Fotografia di Camilla Cerroni
Dopo aver lasciato il Mali sono arrivato prima in Algeria, dove sono rimasto per un mese, poi in Libia, per altri quattro mesi. Molti ragazzi vengono imprigionati senza motivo, malmenati finché la famiglia non paga il riscatto. A me non è accaduto, ma ad alcuni dei miei amici sì. Mentre vedevo morire ammazzate tante persone, ho pensato che sarei arrivato in Italia per salvarmi».
Seydou frequenta la terza media e segue un corso di lingua italiana con estrema dedizione, consapevole di quanto questo influisca sulla possibilità di trovare un impiego: si è impegnato tanto, in autonomia, nella ricerca di un lavoro. È titolare di protezione sussidiaria e sta ultimando il percorso per l’inserimento abitativo. «Durante il giorno lavoro in un ristorante cinese. Ho iniziato come lavapiatti, nel giro di tre mesi mi hanno spostato in cucina. Prima ho lavorato in un autolavaggio, ho fatto volantinaggio e ho lavorato in campagna. Quest’anno ho preso la patente e ho comprato una macchina, il mio obiettivo ora è trovare una casa per richiedere il ricongiungimento così che mia moglie possa raggiungermi».
«Sono stato messo in prigione senza alcuna ragione», Hassan
Mentre Hassan racconta la sua storia i suoi occhi compensano, spesso, le difficoltà con la lingua italiana. Frequenta la terza media, Hassan, e come sottolinea la sua educatrice, nel frattempo «cerca di farsi capire con ogni cellula del suo corpo». Quegli occhi così eloquenti, grandi e luminosi, contrastano con la durezza del racconto, oppure – chissà – ne rappresentano semplicemente l’antidoto.
Hassan. Fotografia di Camilla Cerroni
«Sono andato via dal mio paese un anno e otto mesi fa, a causa di problemi familiari, lasciando mio fratello e mia sorella in Bangladesh. Durante il mio viaggio sono passato per Dubai, poi dalla Libia: ho lavorato per diverso tempo e sono finito in prigione per due mesi, eravamo circa settanta persone ammassate in una stanza totalmente buia. Venivo picchiato con un tubo due volte al giorno – la mattina e la sera – sulle piante dei piedi, sui palmi delle mani, sulla schiena. I video delle torture, poi, finivano nelle mani delle nostre famiglie. Se pagavamo il riscatto venivamo accompagnati in un’altra camera per poi essere lasciati liberi, altrimenti dovevamo aspettarci, ancora, le botte.
Sono stato portato in prigione senza alcun motivo, solo per soldi: mia madre e mio padre hanno pagato il riscatto. Quando sono uscito ho preso la barca per arrivare in Italia pagando 4000 euro alla mafia libica e 1000 euro ai trafficanti. Ho passato i tre giorni di viaggio dalla Libia a Lampedusa senza mangiare, avevamo una sola bottiglia d’acqua per centocinquanta persone. A venti chilometri dalla costa siamo stati soccorsi da una nave italiana nella quale siamo rimasti due settimane, perché eravamo nel pieno della pandemia. La prima settimana dopo il mio arrivo sono stato in isolamento, ma non conoscevo il Covid».
Anche Hassan, oggi, lavora nella cucina di un ristorante cinese mentre è in attesa della protezione internazionale. Ci lascia esprimendo il desiderio di restare in Italia e con una promessa: la prossima volta che ci vedremo porterà i frutti dell’orto che sta curando.
«In Libia rischi di essere arrestato soltanto per il colore della tua pelle: nero vuol dire soldi», Karim
Karim è arrivato a Frosinone un anno e mezzo fa e ha ottenuto la protezione sussidiaria. A differenza degli altri ragazzi proviene da un percorso di alta scolarizzazione – aveva studiato per 12 anni nel suo paese – che gli ha permesso di prendere il diploma di scuola media in pochissimo tempo. Il suo viaggio inizia dal Mali, dove ha lasciato una guerra tra due etnie: i Pular e i Bambara. «Per cento anni – racconta – hanno convissuto in pace, ma nel 2015 la Francia ha iniziato a finanziare una delle due, l’etnia Pular, fornendo le armi per destabilizzare il paese. Adesso, per fortuna, la situazione è tranquilla».
Karim. Fotografia di Camilla Cerroni
Anche Karim ha conosciuto il volto crudele della Libia. «Dal Mali sono arrivato in Nigeria dopo due giorni di viaggio, sono stato in prigione in Chad e poi sono arrivato in Libia, dove sono stato arrestato due volte. La prima volta tornavo a casa dal lavoro, sono stato in prigione per tre mesi prima di pagare il riscatto. Ho provato a partire per raggiungere l’Italia, ma la polizia libica mi ha riportato in carcere per un altro mese, poi ho pagato di nuovo. Ho lavorato come fabbro, in quel periodo, per poter affrontare il viaggio verso l’Italia. In prigione potevo stare tre giorni senza mangiare, non c’era un letto per dormire ed eravamo tutti – anche cento, duecento persone – in un’unica stanza su materassi appoggiati sul pavimento».
La sua esperienza in Italia è iniziata a Siracusa, poi è arrivato a Latina dove ha ottenuto il suo documento prima di arrivare dove si trova oggi. «L’Italia non è come mi aspettavo. In Libia rischi di essere arrestato soltanto per il colore della tua pelle: nero vuol dire soldi. Qui puoi passeggiare senza paura».