L’incontro con Ali, Malek e Sharif, tre ragazzi sudanesi conosciuti nell’ambito del Progetto SAI del Comune di Ceccano, ha reso necessario trovarsi al di là delle parole. Essendo in Italia da poco tempo, in attesa del riconoscimento dello status di rifugiati, le difficoltà linguistiche hanno richiesto la presenza di un mediatore e così, seduti gli uni di fronte agli altri senza essere in grado di comprenderci se non attraverso una traduzione, abbiamo provato a ripercorrere le tracce di una parte della loro esistenza. La storia di Ali, Malek e Sharif si è intrecciata a una riflessione sul linguaggio, sul senso, sui paradossi della comunicazione.
Fabbrichiamo parole con l’intento di comprenderci, attribuiamo arbitrariamente significati a significanti vuoti per costruire un senso condiviso, traduciamo discorsi da lingue sconosciute nel tentativo di riportare la varietà del mondo a un’esperienza comune. Seduta di fronte a loro, però, è stato inevitabile sperimentare la potenza dell’incomprensibilità, la verità della metafora, forse abusata, che lega a doppio filo la traduzione al tradimento. Perché, prendendo in prestito Umberto Eco, tradurre significa “dire quasi la stessa cosa”. In italiano, la mia lingua madre, ho chiesto ad Ali di raccontarmi le ragioni che lo hanno portato ad andare via dal Sudan e lui, in arabo, la sua lingua madre, ha risposto che allo scoppio della guerra, nel 2003, il padre è stato ucciso con un colpo di arma da fuoco davanti ai suoi occhi, mentre lui e la sua famiglia sono stati costretti a lasciare il loro villaggio trasferendosi in un campo profughi. La madre e i fratelli, ad oggi, sono ancora lì. La scelta di utilizzare il corsivo anziché il virgolettato ha per me un senso preciso che lascia spazio a un interrogativo irrisolto. Sono parole di Ali, queste, ma sono davvero le sue parole?
Le numerose domande e riflessioni sulla natura del linguaggio hanno trovato una risposta, seppur incerta, nell’incontro con Sharif. È scappato in Libia, dal Sudan, cinque anni fa per evitare di arruolarsi nell’esercito: non voleva uccidere né farsi uccidere. All’epoca o si stava dalla parte del governo o contro, ma per lui era necessario evitare la guerra. Appena arrivato in Libia è stato fermato dai trafficanti, ha passato molto tempo in prigione ma non ricorda in quante. L’ultima volta è stato in prigione per due anni, è stato torturato, doveva rimanere in silenzio per evitare di essere picchiato. Aveva bisogno di cure e hanno provato a fornirgliele sul posto, perché nessuno aveva intenzione di portarlo in ospedale. Nel 2018 è stato registrato nell’Organizzazione Mondiale, soltanto quattro anni dopo è riuscito a scappare.
Il racconto di Sharif, a differenza degli altri, è andato avanti con difficoltà. Ha abbassato lo sguardo e gli occhi sono diventati lucidi quando ho chiesto se avesse voglia di raccontare l’esperienza vissuta in Libia. Ho appreso che ha visto alcuni dei compagni di viaggio morire nel deserto tra la sete e la fame, mentre le persone anziane venivano abbandonate. Ha scelto di non dirlo, ma è stato testimone della morte di un suo carissimo amico. Proprio di fronte a ciò che non ha avuto la forza di pronunciare, nel momento in cui questo evento è stato rievocato da altri, Sharif ha interrotto l’intervista ed è andato via senza voltarsi. E allora è diventato chiaro che le parole non servono a riconoscere la sofferenza dell’Altro, ciononostante sono necessarie per poterla contenere. Così, la consolazione è stata impedita da vocaboli esistenti ma irraggiungibili e da gesti abortiti nell’assenza di prossimità. Anche il nostro racconto si interrompe in questo modo, dentro il paradosso con il quale si prova a restituire la verità del dolore di chi ci sta di fronte cercando parole postume per riempire spazi vuoti.