Divine Van De Kamp, insegnante di Ashtanga Yoga, utilizza il suo profilo Instagram per affrontare, tra le altre cose, le connessioni esistenti tra lo yoga e il razzismo sistemico. Nella nostra intervista abbiamo provato a comprendere perché è importante tornare a considerare lo yoga una pratica rivoluzionaria e in che modo questa attività può considerarsi benefica per i corpi e le soggettività relegate al margine.
Come prima cosa, cos’è l’Ashtanga yoga e perché lo definisci una pratica inclusiva?
L’Ashtanga Yoga nasce con Pattabhi Jois, uno studente di Krishnamacharya. Questo stile si differenzia dall’Hatha yoga, che prevede generalmente lezioni frontali nelle quali l’insegnante mostra delle posizioni diverse in ogni lezione e l’allievo le ripete. Nell’Ashtanga le serie sono fisse e si prosegue lentamente, soltanto quando l’insegnante ritiene che sia il momento, in modo da sviluppare forza e flessibilità. Inoltre le prime due lezioni sono guidate per poi diventare autonomi nella pratica: è necessario concentrarsi sul movimento ma anche sul respiro, diventa una sorta di meditazione fisica. Aggiungendo di volta in volta una posizione, l’Ashtanga è perfetta per il self practice. Credo che sia una pratica inclusiva perché obbliga a muoversi, ma quel movimento richiede consapevolezza quindi è più semplice rimanere concentrati.
L’Italia ha un problema di razzismo, come qualsiasi altro paese al mondo. Le persone nere vivono in una società nella quale si sentono sempre possibilmente attaccate e sperimentano una situazione di stress che si ripropone continuamente – si chiama “Racial Stress Trauma” – il che rende difficile poter dire in una classe: “adesso siediti e calmati”. Per me, ad esempio, era complicato rimanere in un posto con gli occhi chiusi circondata da altre persone. La pratica Ashtanga è un metodo lento che nella sua ripetitività fornisce una routine, una comfort zone, ma anche un attaccamento al presente perché altrimenti diventa impossibile ricordare dove si è arrivati.
Sul tuo profilo parli dell’Ashtanga yoga inserendolo all’interno della società nella quale vivi, dunque analizzandone le trasformazioni. Da dove nasce questa esigenza?
Insegno Ashtanga yoga dal 2018. Tornata in Italia dopo essere stata varie volte in India a studiare – ho vissuto lì per quattro anni e mezzo – mi sono trovata di fronte una situazione assurda, era appena accaduto l’omicidio di George Floyd. Tutti sembravano ossessionati dalla notizia, ma allo stesso tempo cadevano dalle nuvole rispetto all’esistenza della brutalità poliziesca, parte di un sistema repressivo che colpisce soprattutto le minoranze.
Mi sono chiesta come stesse reagendo la comunità di yoga al problema del razzismo sistemico, che colpisce anche quel mondo. Nell’ambiente non ci sono tantissime persone famose razzializzate, appartenenti alla comunità queer o LGBT: l’immaginario è eteronormato, bianco e, soprattutto, ricco. Abbiamo iniziato a discutere di questo, senza però arrivare a una soluzione o a un vero confronto in cui si metteva la gente di fronte alle proprie responsabilità relative al fatto che, per esempio, lo yoga stava diventando sempre più costoso e la maggior parte dei centri risultano ancora oggi inaccessibili ai soggetti marginalizzati. Comprendere che la comunità yoga era poco politicizzata è stato il mio risveglio.
Nel 2020 il Covid ha completamente stravolto il mondo dello yoga: ci siamo dovuti reinventare con le lezioni online, il che nel mio caso ha significato espormi maggiormente sui social per portare avanti la mia attività. Al contempo mi sono avvicinata tantissimo a delle compagne che praticavano yoga o giravano attorno al mondo dell’attivismo e della giustizia sociale in Italia. Abbiamo iniziato a confrontarci sulle trasformazioni che stavano interessando il femminismo – diventato ormai digitale, liberale e, di nuovo, bianco e ricco. Ho iniziato a espormi parlando di come lo yoga potesse rappresentare uno strumento di lotta e di avvicinamento fra le persone, dell’importanza della comunità e di tirare fuori da un mondo completamente elitario qualcosa di benefico per tutti.
A fine 2021 ho organizzato degli incontri nei quali parlavamo di yoga, ma anche di femminismo e di attivismo. Sono molto felice di questo perché sono veri momenti di scambio. Mi sembra che ci sia un grosso bisogno di comunità e anche una grossa volontà di ascolto che spesso viene negata. Invece con le mie compagne, le mie sorelle, ho la sensazione che stiamo riuscendo a creare qualcosa nel nostro piccolo.
Se lo yoga si inserisce all’interno della società, possiamo sottolinearne la dimensione politica. Nello specifico, in che senso lo yoga è connesso al razzismo e al classismo?
Lo yoga si adegua all’ambiente in cui viene praticato. L’Occidente è uno spazio individualista, il capitalismo necessita di individualismo. Lo yoga arriva dall’India e diventa famosissimo con studenti nord americani, canadesi, australiani e nord europei. Negli ultimi tempi, però, viene spacciato come la panacea di tutti i mali individuali: se soffri di ansia, fai yoga ché ti passa. Si è insinuata anche lì, lentamente, un’ideologia individualista e capitalista connessa al pensiero che se stiamo bene noi allora tutto va bene, inoltre si è sempre più allontanato dai movimenti che lo avevano reso famoso come quello hippie, ad esempio. La stessa Angela Davis, che praticava yoga in prigione, ha sottolineato l’importanza del self care per qualsiasi rivoluzionario.
Questa idea dello yoga come attività che aiuta a ricaricarsi per poi ricominciare a lottare, dunque, esisteva. A un certo punto è scomparsa anche grazie ai media, ai film, alle serie tv che la spacciano come un’attività per donne bianche che devono distrarsi dai problemi, sebbene in realtà nasca come liberazione della mente al fine di rimanere concentrati sul modo utile per migliorare questo mondo. Ho acquisito questa consapevolezza anche grazie ad altre sorelle che insegnano yoga e che facevano attivismo molto prima di me.
Arrivata ad un certo punto praticare non mi bastava più, mi sembrava di ripetere qualcosa di altri. Mi ritrovavo in un ambiente con persone tutte uguali e allo stesso tempo tanto diverse da me, così pensavo: “è la stessa cosa della vita di tutti i giorni”. Ho trovato una comunità che mi rispecchia molto piccola e molto politicizzata, grazie a loro ho capito l’importanza che può avere lo yoga. Anche la possibilità di girarsi dall’altra parte è un privilegio enorme.
La nostra società tende a marginalizzare i corpi che non si uniformano al canone della conformità. Accade anche nell’ambiente yoga?
L’Ashtanga Yoga è una pratica molto fisica. Dato che le serie sono fisse molti sono convinti che non si possano adattare, in realtà io le riadatto costantemente. Lo yoga deve adattarsi alla nostra vita, non il contrario. Per tanto tempo, però, l’Ashtanga è stata vista come un’attività per persone atletiche o addirittura un allenamento finalizzato a diventare più flessibili e più forti per affrontare altri sport. Per alcuni essendo molto fisica è diventata una pratica competitiva e i social hanno amplificato questa percezione. Anch’io pubblicavo i video dei miei traguardi perché in un momento particolare della mia vita era una gratificazione vedere che mi stavo rialzando, adesso non lo farei più in quel modo. Noto che questo atteggiamento porta a pensare che le uniche persone legittimate a fare yoga sono magre o acrobatiche, in più amplifica l’idea che solo determinati corpi possono raggiungere l’equilibrio. Il discorso del corpo legato all’alimentazione, tra l’altro, scomoda il classismo perché dovremmo aprire un discorso sull’accessibilità al cibo, sul salario, sulle comunità marginalizzate.
Un ulteriore problema è legato all’algoritmo dei social, perché puoi investire in un’attività online soltanto se hai tempo e disponibilità economica. A un certo punto ho notato che le persone più conosciute erano tutte ricche, bianche, magre, etero, cisgender. Questo allontana coloro che da questa disciplina trarrebbero maggiormente beneficio. Se nelle classi di yoga le persone sono sempre uguali e sempre le stesse forse c’è un problema che gli insegnanti devono affrontare riconoscendo il proprio privilegio e provando a capire come risanare il divario. Perché in fondo se del corpo nero non si può dire: “è colpa tua”, il corpo grasso è colpito dallo stigma.
Tra gli insegnanti la rappresentazione è altrettanto stereotipata, innanzitutto a causa del fatto che i teacher training sono costosi. Se ci fossero più insegnanti pronti a mettere in atto un cambiamento in modo da avere nelle proprie classi più persone diverse, forse queste persone capirebbero che possono accedervi. Negli Stati Uniti ci sono tantissime insegnanti nere, anche attive nei movimenti Black Lives Matter, che parlano dell’importanza del Restorative Yoga per le situazioni di stress razziale o creano Retreat per persone bipoc, quindi c’è una volontà di creare un ambiente diverso e di formare persone diverse.
Poco fa parlavi di una serie di incontri che stai organizzando per rendere lo yoga una pratica maggiormente inclusiva. Di cosa si tratta?
Il primo incontro che ho organizzato insieme ad Iman Scriba (arimanscriba), a Milano, si chiamava “Yoga e Attivismo”. Abbiamo fatto una lezione e poi una discussione sull’importanza dello yoga per la salute mentale all’interno delle comunità razzializzate, nella convinzione che lo yoga debba diventare uno strumento per chi viene costantemente escluso.
Il secondo incontro si è tenuto a Bologna con Claudia Vitale (Ashtanga Yoga shala Bologna), insegnante di Ashtanga Yoga, la prima persona a farmi notare che la comunità non era per niente politicizzata e alienarsi era una scusa per non prendersi delle responsabilità. La mia spalla è stata una donna bianca. Anche in quel caso dopo la lezione abbiamo riflettuto su come lo yoga possa diventare una parte del nostro essere persone femministe e attive nella società, uno strumento di lotta. Abbiamo messo assieme la parte spirituale e pratica dello yoga per dimostrare che spiritualità e attivismo sono la stessa cosa.
Nell’ultimo incontro con le “Belle di faccia”, il mese scorso, abbiamo parlato dell’esclusione dei corpi grassi nell’ambito sportivo e del panorama yoga. Giova ricordare che lo yoga non nasce come pratica per dimagrire, ma come pratica di accettazione. All’inizio anche io portavo avanti dei messaggi grassofobici e ho capito di non essere esente dai pregiudizi semplicemente perché nasco nera. In occasione dell’evento c’è stato uno scambio di consigli su come migliorarsi come studenti, insegnanti e alleati.
Mi sembra di capire che lo yoga sia stato depotenziato della sua carica rivoluzionaria. È così?
Un po’ come è successo con il femminismo liberale, è stato appiattito in modo da renderlo più presentabile. Anche nello yoga è stata eliminata qualsiasi carica rivoluzionaria, qualsiasi diversità, con la scusa di renderlo parte della nostra vita. Ammetto che parlare di queste cose è scoraggiante. Da un lato è bellissimo trovarsi all’interno di una comunità di persone che ti sostiene e ti capisce conoscendo, in questo caso, il mio punto di vista; dall’altra è demotivante vedere che molte persone non hanno alcuna voglia di provare a comprendere.
Negli eventi che organizzo la parte bella è la voglia di comunità, quella triste è che tante persone hanno bisogno di una comunità che non riescono a ritrovare. Io non mi sarei mai potuta avvicinare al movimento nero di yoga se non avessi avuto Instagram. Mi rendo conto che possediamo gli strumenti, ma abbiamo poca voglia di cambiare realmente. Credo che qualsiasi persona marginalizzata ne trarrebbe tantissimo beneficio e anche le persone non marginalizzate, mettendosi in discussione, avrebbero l’opportunità di conoscere un mondo che non è il loro.
Prima di salutarci vorrei chiederti: qual è la paura che ostacola il cambiamento?
La paura che ci venga tolto qualcosa o di non essere più considerati “buoni”. Tutti vorremmo dire: “anche io sto male”. Riconoscere che a dispetto delle buone intenzioni non si è così buoni, o fare spazio a qualcun altro, non è facile. Inoltre la nostra società è oberata dagli studi di yoga, quindi per tanti insegnanti c’è la necessità di trovare la novità per attirare più studenti. Esiste la paura di perdere quel poco che si è raccolto, ma a questo punto bisognerebbe mettere in discussione la società intera che porta all’iperproduzione costante, tanto da non avere la possibilità di spendere il proprio tempo in altro. Il rischio è rinchiudersi in un’altra gabbia di persone uguali a te, che fanno quello che fai tu e ti danno costantemente ragione. La paura più grande è quella nei confronti del diverso e il razzismo esiste per questo.