“Il segreto delle montagne è che esistono, semplicemente, ed esistono con semplicità, non come me. Le montagne non hanno significato, esse sono significato; le montagne sono. Io risuono di vita e così le montagne, e quando riesco a sentirlo c’è un suono che condividiamo.”
Senza mai arrivare in Cima è un romanzo di Paolo Cognetti, lo stesso autore di Le Otto Montagne. Il libro è di tanto in tanto accompagnato da immagini e fumetti che aiutano il lettore ad immergersi tra le montagne dell’Himalaya, più precisamente nella regione del Dolpo, al confine con il Tibet. Il protagonista principale è l’autore stesso, che decide di festeggiare il suo quarantesimo compleanno sulle montagne insieme ai suoi compagni di viaggio, Nicola e Remigio. Nel racconto Paolo descrive la relazione con il pittore Nicola come un’amicizia nascente, all’interno della quale si schiudono segreti e voglia di scoprirsi, anzi, di “riscoprirsi” attraverso le somiglianze e un senso di appartenenza reciproco. Remigio invece è un silenzioso uomo di montagna, nato in un paesino delle Alpi da cui solamente poche volte è riuscito ad allontanarsi. Quello tra Paolo e Remigio è un legame antico, un’amicizia nata da ormai molti anni che quasi non necessita più di molte parole. Ad accompagnarli c’è anche un’altra presenza, più silenziosa ancora di Remigio, una cagnolina tibetana incontrata durante il cammino che seguirà i tre viaggiatori per buona parte del cammino.
Senza mai arrivare in Cima, oltre ad esserne il titolo, è anche la metafora principale del racconto. In molti momenti la vetta sembra non arrivare mai. Questo iniziale senso di allontanamento dall’obiettivo è principalmente provocato dalle difficoltà legate all’altitudine. A questo proposito l’autore scrive del mal di montagna, che passa facilmente dall’essere un malessere fisico a un malessere più interno, “un mostro” che a volte si impossessa del corpo di Paolo lasciandolo stremato e senza forze. Il mostro in questo caso è la nausea data dall’altura che si fa sentire ogni volta al superare dei tremila metri. Questo malessere è un nemico taciturno che accompagnerà il protagonista durante tutto il suo viaggio. Il mal di montagna, le labbra secche, il freddo pungente, sono dolori legati all’ambiente, a tratti ostile, delle cime Himalayane. Tutte queste difficoltà si fanno particolarmente evidenti durante le notti fredde, quando il sole cala e quando i tre si rifugiano nelle loro tende:
“Dai quattromila metri non saremmo più scesi per molto tempo. Mi ci stavo abituando, ma mi accorgevo che tutto mi affaticava più del normale. Chinarsi, aprire la tenda, entrarci, trascinare dentro lo zaino, bastava questo a farmi venire l’affanno, e dopo dovevo restare un minuto a prendere fiato. Sarà così che ci si sente da vecchi?, pensavo. Costretti a economizzare ogni gesto, in un corpo a cui anche il semplice stare al mondo costa fatica.”
Tuttavia, il camminare viene rappresentato come un atto liberatorio, una maniera di ricondursi a ciò che veramente è essenziale:
“Camminare riduceva la vita all’essenziale: cibo, sonno, incontri, pensieri. Nessuna invenzione della nostra epoca ci serviva a qualcosa, mentre camminavamo, se non un buon paio di scarpe e, nel mio caso, un libro nello zaino. Da settimane vivevo di riso, lenticchie, verdura, qualche volta uova e formaggio, il mio Leopardo, il mio quaderno, i miei amici. Ancora più che riuscire a farcela con così poco, era sorprendente accorgermi che non avevo desiderio d’altro. Solo quando ci fermavamo insorgevano il bisogno, la nostalgia, le aspirazioni, tutti i vuoti da riempire.”
Cognetti ci racconta la bellezza avvolgente della natura, anche quando la descrive nei suoi tratti più crudi. L’aquila ferita che persiste nella sua regalità, anche mentre si avvia verso la morte, la montagna che esiste con il suo potere simbolico, di forza ma anche di inquietudine e ignoto. Eppure, la montagna è lì che esiste e non ha bisogno di trovare un significato, a differenza dell’autore che molto spesso cerca il senso del suo viaggio:
“La donna evitò di porre la domanda successiva, e cioè perché noi occidentali venissimo fin lì a faticare, dormire per terra, soffrire il freddo e coprirci di polvere senz’altro scopo apparente che allontanarci dai nostri letti caldi e dalle nostre macchine veloci ma gliela leggevo in faccia. Se avesse avuto le parole per formularla, io avrei trovato quelle per rispondere? […] Come avrei potuto dire che speravo di penetrare i segreti della montagna alla ricerca di qualcosa che tuttora ignoravo?”
Queste domande lasceranno spazio verso la conclusione a un senso di tranquillità e calma, all’accettazione del fatto che non tutto si può conoscere e che non tutto deve necessariamente assumere un significato particolare. Lo scendere della montagna coincide con la riflessione sullo scarto che esiste tra ciò che vediamo e ciò che invece riusciamo a comprendere, perché a volte ciò che ci circonda può essere solamente percepito nella sua essenza, proprio come le montagne. Il racconto non parla dell’arrivo, forse non lo conosce, ma della bellezza del tragitto nel viaggio come nella vita.
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