«Che posto può avere nel divenire l’esistenza della follia? Quale traccia lascia?», queste le domande che pone Michel Foucault nella prefazione della Storia della follia nell’età classica del 1960. Quella di Foucault è la ricostruzione dell’archeologia del silenzio attraverso cui la società ci ha insegnato la follia. Sì, perché la struttura archeologica con cui la storia dell’umanità ha identificato la follia, la devianza e la sragione, nel suo significato più ampio, è il confinamento silenzioso. Mai con un intento solamente analitico o politicamente risocializzante, ma sempre insieme moralmente giudicante. «L’uomo europeo fin dal fondo del Medioevo è in rapporto con qualcosa che egli chiama confusamente: Follia, Demenza, Sragione».
Per il mese sulla salute mentale ci siamo, di fatto, posizionati nell’era post-basagliana, collocando – con più o meno disinvoltura, a seconda dei contesti – la patologia e il disturbo psichiatrico nell’ambito dell’interazione e dello scambio relazionale. Ma, al pari di qualsiasi altra manifestazione della biopolitica moderna, anche la storia della follia e della salute mentale ha un divenire archeologico che, per decine e decine di secoli, ha conosciuto solo il silenzio della sua inattingibilità sociale.
L’archeologia del silenzio costruita attorno alla follia racconta molto dei sani, poco dei folli
Parlando di archeologia del silenzio, Foucault si riferisce alla ragione occidentale che ha reso muta la componente anarchica e dionisiaca dell’umano. Tutto ciò che è tecnica, sapere borghese, cultura e politica nella loro forma istituzionalizzata è anche causa della «repressione del fondo dionisiaco della vita».
Fotografia di Francesco Formica
Non c’è Ragione che non possa essere repressa. Nasce da qui l’esigenza – se vogliamo anche illuministica – di rintracciare la Sragione e reprimerne per prime le forme più acute e poi tutte quelle molto più affini alla devianza che non alla follia. Fino a farle incontrare entrambe nel campo dell’inammissibilità sociale, dove le «pratiche delle esclusioni» diventano progressivamente sempre più massicce, più capillari: una rete unificata contro ciò che metteva e mette in discussione l’autenticità di quella stessa unificazione.
Nel perimetro della deraison venivano rinchiusi tutti coloro il cui comportamento non poteva essere riconducibile alla ragionevolezza. Strecciare il concetto di ragione fino a farlo diventare ragionevolezza dimostra quanto la questione della salute mentale sia costitutivamente politicizzata prima ancora della sua medicalizzazione e della contestualizzazione sociale.
Dalla Nave dei folli del Medioevo al grande internamento della Modernità
«Ciò che non è ragionevole» diventa il concetto moderno di follia. Nella ricostruzione archeologica della follia occidentale il passaggio dall’età medievale a quella moderna, che Foucault chiama età classica, costituisce un momento di cesura, perché stravolge la visione del folle e la concezione stessa della follia.
La follia «scivola da un’esperienza religiosa che la santifica a una concezione morale che la condanna». Nel Medioevo il folle era portatore di carisma e mistero, aveva diritto a ricevere la carità. L’insensato era sì escluso, ma al tempo stesso protetto, in quanto creatura e figlio di Dio.
Fotografia di Francesco Formica
«Sparita la lebbra, cancellato o quasi il lebbroso dalle memorie, resteranno queste strutture. Spesso negli stessi luoghi, due o tre secoli più tardi, si ritroveranno stranamente simili gli stessi meccanismi di esclusione. Poveri, vagabondi, corrigendi e “teste pazze” riassumeranno la parte abbandonata dal lebbroso. Con un senso tutto nuovo e in una cultura molto differente, le forme resteranno, soprattutto quella importante di una separazione rigorosa che è esclusione sociale ma reintegrazione spirituale». Nel Medioevo, il significato dell’esclusione del lebbroso rimaneva anche dopo la fine della malattia: in questo modo la separazione tra sani e malati diventa sacra perché supera la quotidianità e diventa un’esperienza superiore, nella quale Dio manifesta la sua potenza punitrice e la sua bontà. Il dolore diventa un rituale, più nello specifico l’espiazione della colpa nella vita terrena: il lebbroso testimonia il male con il suo corpo, ma è ieratico perché circondato da un’aura: il suo destino è segnato e per questo fa paura all’uomo sano.
Nel sentire comune della pubblica piazza rinascimentale, l’eredità della lebbra è raccolta dunque dalla follia: «un nuovo oggetto fa la sua apparizione nel paesaggio immaginario del Rinascimento, è la Nave dei folli», immagine letteraria, ma anche veri e propri «battelli che trasportavano il loro carico insensato da una città all’altra». Questo carico insensato di umanità traccia la rottura epistemologica della modernità attraverso l’esclusione della follia da ciò che poteva essere compreso e accettato, la follia diventa definitivamente qualcosa di estraneo rispetto alla ragione. È esiliata in una duplice modalità: sul piano teorico, Cartesio impone il regime della razionalità, per cui il dubbio implicando il ragionamento esclude categoricamente la follia, ridotta dunque a mera Sragione. Sul piano pratico si affacciano i primi istituti di internamento: nel 1657, a Parigi viene aperto l’Hôpital général, «uno strano potere che il re crea tra la polizia e la giustizia, ai limiti della legge: il terzo stato della repressione. Non è legato a nessuna idea medica. Esso è un’istanza dell’ordine».
«L’età classica rinchiude. Non più barca ma ospedale: l’internamento succede all’imbarco»
L’epoca moderna è l’epoca del «grande internamento»: ogni forma di devianza viene considerata follia e pagata con la perdita della libertà. Gli insensati erano fuori di ragione, perché fuori dalla coscienza borghese, «è noto che il XVII secolo ha creato grandi case di internamento; ma non è noto che in pochi mesi più di un parigino su cento si è trovato rinchiuso».
Con il processo di medicalizzazione della pazzia, questa smette di essere esposta prima dell’esclusione: adesso è nascosta e trattata all’interno di strutture realizzate con l’intento di studiare e sperimentare l’animalità dell’uomo. La follia non è più spettacolo, riguarda esclusivamente il rapporto unidirezionale con il medico, nel quale il folle è oggetto di uno sguardo controllante e continuo. Le forme di contenimento diventano molto più sistemiche e le terapie violente, perché dovevano adeguarsi alla violenza manifestata dagli internati.
Fotografia di Francesco Formica
La follia nella modernità diventa una malattia da trattare medicalmente, mentre fino a quel momento era rimasta un’appendice bestiale dell’umanità da redarguire moralmente e relegare nel misticismo. Nel Settecento compaiono i primi saggi che la definiscono “malattia dello spirito”, da curare attraverso vapori per sedare le turbolenze dello spirito e della mente.
All’interno dei primi manicomi il deviante è considerato un vero e proprio malato, refrattario a qualsiasi forma di razionalizzazione sociale e per questo separato dagli altri insensati. «L’internamento degli alienati è la struttura più vistosa nell’esperienza classica della follia», perché all’interno degli ospedali psichiatrici veniva rinchiuso tutto ciò che non poteva essere considerato verità e che, dunque, necessitava di essere curato tramite la verità della scienza.
Il folle vive in un mondo incoerente di valori, è incompatibile con la cultura utilitaristica e performativa illuminista, rappresenta la «grande irragionevolezza della quale nessuno è veramente responsabile, ma che trascina tutti quanti con una segreta compiacenza», decisamente incompatibile con la volontà normalizzante della borghesia industriale dell’epoca.
Foucault fa della sua ricostruzione archeologica una genealogia con l’intento di ricordare alla società contemporanea che con la cosiddetta animalità – che tanto spaventa il sano – «il folle ricorda a ciascuno la sua verità».