Martedì 12 ottobre, presso il CSV Lazio (Centro di Servizio per il Volontariato), l’Associazione 21 luglio ha presentato il Rapporto 2021. L’esclusione nel tempo del Covid. Il Rapporto, giunto alla sua sesta edizione, «si pone l’obiettivo di gettare luce sugli insediamenti abitati da comunità considerate rom – parte del fenomeno più ampio dei baraccati – e fornire informazioni, conteggi, analisi». Nello specifico sono stati riferiti gli esiti del lavoro di ricerca della 21 luglio nel periodo che va dal primo gennaio 2020 al 30 giugno 2021 utile al fine di «monitorare il livello di efficacia delle politiche e degli interventi implementati dagli amministratori locali e nazionali» in un periodo complesso a causa dell’emergenza pandemica.
Secondo la stima della 21 luglio sono 40-50.000 le persone che vivono nelle baraccopoli. Bisognerebbe iniziare ad utilizzare questo termine, infatti, perché definire tali soluzioni abitative “campi rom” non è altro che la conseguenza di un errore culturalista. Nel 1980 ai cittadini scappati dall’Ex Jugoslavia a seguito della morte di Tito sono stati riservati i cosiddetti “campi”, scelta reiterata anche nel caso dei cittadini rumeni emigrati dal loro paese dopo il crollo del regime di Ceausescu, mettendo in circolo l’idea che le persone di etnia rom fossero nomadi, non richiedenti asilo.
I primi campi sono sorti in Lombardia, poi a Roma a partire dal 1994 e successivamente in altre città italiane. Di fatto, come afferma il Presidente Carlo Stasolla, questi assumono «nomi diversi per indicare uno stesso dispositivo». È a partire dal 1985 che diverse regioni italiane hanno iniziato a legiferare in merito alla creazione di spazi su base etnica nei quali concentrare persone presunte nomadi, scelta seguita dall’istituzione di uffici speciali e dalle cosiddette “politiche speciali”.
I numeri sono in calo, ma l’Italia resta il «paese dei campi»
Negli ultimi anni si è registrata una tendenza verso il superamento degli insediamenti monoetnici, nonostante questo l’Italia resta la nazione europea che, più di altre, investe risorse economiche e umane nel mantenimento di strutture abitative per persone rom. Il lavoro di mappatura degli insediamenti monoetnici da parte della 21 luglio ha mostrato un calo rispetto alla presenza dei rom in emergenza abitativa: dai 28.000 registrati nel 2016 siamo passati a 17.800 nel 2020-2021, dunque si è registrato un calo di 10 mila unità, mentre il numero degli insediamenti formali – ossia quelli creati e gestiti dalle amministrazioni comunali – è sceso da 149 a 109. Roma, tra l’altro, risulta essere la città del centro Italia con il maggior numero di insediamenti formali (13).
Le ragioni del decremento, documentate da Agnese Vannozzi nel suo intervento, sono molteplici e vanno dal desiderio da parte delle giovani generazioni di uscire dai campi alla necessità avvertita da interi nuclei familiari di ricercare nuove soluzioni abitative, considerando le condizioni di degrado nelle quali versano molti dei grandi insediamenti. Inoltre se da un lato alcune amministrazioni comunali si muovono verso il superamento di questi dispositivi, dall’altro gli sgomberi forzati non risultano totalmente cessati. Questi ultimi rappresentano la causa di un decremento pari al 35% degli insediamenti informali e il motivo dell’occupazione di immobili pubblici o privati, nonché del ritorno di molte persone nel proprio paese d’origine. La Romania, ad esempio, «si è presentata nell’ultimo decennio come un paese in forte espansione economica che, malgrado la crisi generata dalla pandemia, mantiene spazi di sviluppo che favoriscono una migrazione di ritorno».
Il superamento degli insediamenti monoetnici: a che punto siamo?
La Strategia Nazionale d’Inclusione dei Rom, Sinti e Caminanti adottata nel 2012 si è pronunciata in favore della necessità del superamento dei “campi rom”, ma le amministrazioni comunali non hanno recepito immediatamente la direttiva, mantenendo in vita «soluzioni abitative segreganti e sotto-standard», oltre a realizzarne di nuove. Nel periodo 2012-2020 le amministrazione che si sono attivate per il superamento degli insediamenti monoetnici, come suggerito dalla Strategia Nazionale, sono state quindici. Il 2018, afferma ancora Carlo Stasolla, è considerato l’anno della svolta: è stato inaugurato l’ultimo insediamento monoetnico ad Afragola e a fine anno si registravano 127 campi rom a fronte dei 148 dell’anno precedente.
Gli anni succesivi non hanno invertito la tendenza, ma la pandemia da Covid-19 ha bloccato le azioni previste per il superamento. Nonostante la moratoria degli sfratti decisa nel marzo 2020 proprio a causa del Coronavirus, tra l’altro, gli sgomberi forzati sono stati riproposti in diverse città italiane. Lo sgombero, sottolinea Lorenzo Natella, dovrebbe essere impiegato come extrema ratio e avvenire nel rispetto di norme procedurali ben precise come la consultazione con le persone interessate oltre alla possibilità, da parte loro, di accedere a vie di ricorso legale; è necessario un preavviso riguardo l’operazione insieme alla presenza di rappresentanti istituzionali; si dispone, poi, il divieto di mettere in atto gli sgomberi durante le ore notturne e quello di rendere le persone interessate dall’azione di sgombero “senza tetto”, predisponendo soluzioni abitative adeguate. È proprio questa la forza dell’azione di superamento che, in qualche modo, non rende dannosa la chiusura di un insediamento: «il superamento di un insediamento monoetnico si misura con la sua sostenibilità progettuale, con il suo livello inclusivo e soprattutto con la possibilità per ciascuna persona di essere ascoltata in base ai propri bisogni specifici».
In Italia, nel 2020, l’associazione 21 luglio ha registrato 70 operazioni di sgombero forzato, in calo del 51,7% rispetto all’anno precedente. Nel 2021 invece se ne sono registrati 39, per lo più relativi ai microinsediamenti. L’emergenza pandemica ha avuto un certamente un ruolo di primo piano in questa diminuzione: la moratoria istituita dal governo italiano, come si è detto, ha disposto la cessazione degli sfratti, inoltre la paura di affrontare il contagio in luoghi totalmente privi di servizi ha indotto gli abitanti degli insediamenti a spostarsi altrove.
Gli errori da non ripetere e le strategie virtuose
Gli insediamenti formali nascono da «una precisa volontà politica», alla luce di questo diverse amministrazioni comunali e regionali hanno agito negli anni per finalizzare la fuoriuscita dai “campi rom”. In conclusione, il Presidente della 21 luglio riflette sugli errori da non ripetere: la creazione di politiche speciali, in primo luogo, lo scarso coinvolgimento dei beneficiari, la mancata presa in carico delle famiglie all’interno degli insediamenti e la mancata attenzione alla questione di genere. Si auspica il superamento di atteggiamenti condizionati da stereotipi e la progettazione di interventi multidimensionali complessi, investendo sulla presenza di uno staff operativo fino ad ora sottodimensionato.
Ciò che si vorrebbe incentivare sono le “buone pratiche”, individuabili a partire da esperienze messe in atto in diversi contesti. È necessario promuovere una sinergia tra le azioni previste nell’ambito abitativo, lavorativo e scolastico; adottare un approccio universalistico dimenticando le sottolineature etniche; incentivare le connessioni tra le istituzioni e il terzo settore e, infine, utilizzare una metodologia adeguata basata sull’ascolto e il coinvolgimento degli attori locali.