«La formula: “Loro hanno il potere”, benché abbia un valore politico, non può servire per un’analisi storica», Michel Foucault
La storia, così come la sua ricostruzione, ha senso solo se vengono compresi i paradigmi di potere che sorreggono i rapporti sociali, anche questi esercizi di potere dai quali nessun soggetto è escluso.
L’analisi storica di Michel Foucault è figlia della «microfisica del potere», una concezione del potere fluido, che rifiuta la staticità e l’istituzionalizzazione delle sue forme, le quali emanerebbero la loro influenza dall’alto verso il basso. Il potere che riconosce e analizza Foucault è, al contrario, trasversale: passa attraverso le persone creando sempre nuovi legami sociali e contesti interpersonali. Non potremmo riconoscere alcun potere istituzionalizzato, se questo non riuscisse ad esplicarsi in vesti ufficiose e informali nelle parole, nei gesti e nelle reazioni “spontanee” degli individui.
La politica, intesa come decisione e azione dentro una rete sociale, è il principale canale di esercizio della microfisica del potere, eppure «la formula “loro hanno il potere”» ha creato una voragine, un vuoto, tra la popolazione e i suoi rappresentanti politici, come se le due parti fossero tesi e antitesi di una dicotomia dialettica e non effetto e causa in un rapporto finalistico.
La percezione della politica come qualcosa di estraneo alle questioni individuali e alle scelte personali è sempre più radicata. L’opinione pubblica, soprattutto quella più scoraggiata della popolazione adulta e anziana, è abituata a scindere il pensiero politico dall’intervento sociale, ma più ancora dal coinvolgimento personale, radicalizzando la sfiducia e la rassegnazione di una fetta considerevole delle cosiddette generazioni Y e Z.
La spersonalizzazione dello spazio pubblico e l’attività politica come riappropriazione di sé
Sebbene la concezione della partecipazione e dell’attività politica come impegno civico locale e territoriale stia tornando ad essere piuttosto presente in specifici gruppi di attivisti tra le generazioni più giovani e consapevoli, la gran parte della popolazione giovane avverte l’impegno politico come qualcosa di estraneo alla propria esistenza, fuori dalla propria possibilità di influenza. Questa contrapposizione si è organizzata su un duplice fronte: da un lato la consapevolezza che fare politica debba tornare a significare intervento civico inclusivo e attivo, capace di rispondere alle esigenze concrete della cittadinanza, dall’altro lato invece sostanziali disinteresse e disinformazione su tutto ciò che riguarda gli equilibri politici del governo, del parlamento e delle criticità vere, non quelle teatralmente propagandate dai capipartito di turno.
Quando accade, tra l’altro, il ritorno della pratica politica come sguardo interno e impegno sociale spesso assume derive estreme, lo vediamo ad esempio nelle destre estremiste, la cui militanza, sia nelle grandi che nelle piccole città, implica atteggiamenti assimilabili allo squadrismo. D’altra parte, l’annoso problema del distaccamento della sinistra “dalla gente comune”.
Fotografia di Martina Lambazzi
L’atteggiamento del lasciare stare, del lasciar scorrere gli eventi mentre ci si limita a guardarli con una certa impotenza è particolarmente annidato in chi non si sente parte di un’aggregazione sociale, a tal punto da creare un divario, probabilmente incolmabile, tra la popolazione e la classe dirigente. Come dimostra il report di Istat del 2020, l’interesse e il coinvolgimento politico dei giovani, misurato su un campione di soggetti di età compresa tra i 14 e i 34 anni, è notevolmente in calo. «Tra il 2014 e il 2019 passa dal 18,9% al 23,2% la quota di persone di 14 anni e più che non partecipano alla vita politica».
Tra i risultati più tangibili la deresponsabilizzazione e la spersonalizzazione dello spazio pubblico, che impediscono di sentire le questioni sociali come proprie, come qualcosa che riguarda e coinvolge in maniera diretta e importante le nostre stesse vite.
Inoltre uno studio condotto da un gruppo di ricerca del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna, su un campione di circa 1800 persone di età compresa tra i 14 e i 30 anni, ha evidenziato il modo in cui la differenza di genere incida anche sulla tendenza e sull’approccio alla partecipazione politica. I risultati dell’indagine mostrano in quale misura la pressione normativa del ruolo di genere orienti l’attitudine e la propensione verso l’attivismo politico, infatti «nonostante l’epoca attuale, con il movimento #MeToo, sembri suggerire un aumento della partecipazione politica da parte della popolazione femminile, i risultati della nostra indagine mostrano la persistenza di un divario di genere tra le forme di partecipazione scelte da ragazze e ragazzi. Questo apre interrogativi su quanto la trasmissione di ruoli di genere tradizionali possa influenzare le preferenze delle giovani generazioni nell’intraprendere determinate tipologie di azioni politiche o civiche».
Da un lato dunque gli uomini, più inclini a partecipare alle attività politiche convenzionali che fanno capo alle logiche partitiche tradizionali, dall’altro lato, invece, le donne che sembrerebbero prendere parte con più facilità ad attività di impegno civico. «Fino a quando tratti come autonomia, leadership, autoaffermazione e dominanza vengono culturalmente associati al genere maschile, e come tali vengono proposti ai ragazzi e alle ragazze in famiglia, sui media e a scuola, è probabile che i giovani maschi si sentano più sicuri nell’esprimere le loro opinioni politiche e nell’intraprendere azioni per sostenerle. Per ridurre il divario di genere nella partecipazione politica è necessario dare alle ragazze l’opportunità di esercitare ruoli di leadership, di sperimentare le loro capacità e di acquisire consapevolezza critica rispetto ai vincoli e alle barriere che dovranno affrontare fin da giovani e poi da adulte, in modo da poter fornire loro degli strumenti utili a superare gli ostacoli che la società ancora impone. Le differenze di genere sono già ben visibili durante l’adolescenza: la minore propensione delle ragazze a partecipare alla politica attiva per dedicarsi invece all’impegno civico suggerisce che fin da giovanissime c’è una minore familiarità con la possibilità di assumere posizioni di leadership».
Società disciplinare: la microfisica del potere e i dispositivi del controllo sociale
La «microfisica del potere» scardina la concezione del Potere Istituzionale, ovvero un potere politico verticale capace di gestire dall’alto i ceti sociali più poveri, che li vuole piuttosto inconsapevoli, ignari delle sofisticate strategie del potere politico, incapaci perciò di esercitare azioni di rilevanza politica per la rete sociale nella quale sono inseriti dalla nascita.
Il potere foucaultiano è un potere trasversale, che attraversando le classi sociali, innesca meccanismi di azione e reazione, vicendevolmente intersecabili. Le espressioni della microfisica del potere sono innumerevoli, ma rispondono ad un principio generale che stabilisce i ritmi dell’azione politica e sociale: la repressione del diverso, sia nell’ambito della politica che in quello dell’etica. Il potere è fluido, è una catena di rapporti in continua organizzazione e in un perenne rifacimento.
Fotografia di Martina Lambazzi
La microfisica è rete di relazioni. Il potere non è né la regola, né il dominio di classe, bensì il potere dei rapporti, non dei soggetti. Rapporti che si rafforzano in maniera costante, anche nella resistenza che viene opposta loro. Il potere intercettato da Foucault è caratterizzato da due requisiti fondamentali: circolarità e fluidità, che culminano nelle istituzioni che tutti riconosciamo come autorevoli, ovvero una «molteplicità di rapporti di forza immanenti», quali lavoro, relazioni, attività sportive, rapporti economici e molto altro ancora. Luoghi di interazione sociale all’interno dei quali si esercitano forme di potere e in ognuna di queste una molteplicità di forze, che sono preminenza sugli altri.
I rapporti di potere, che inevitabilmente implicano il prevalere degli uni sugli altri anche se mai in maniera definitiva, non si esercitano attraverso forme di violenza e coercizione, ma tramite il sistema della normalizzazione. La normalizzazione è l’arma retorica e maggiormente performativa attraverso cui il potere si assicura il suo controllo.
È una strategia obliqua, è convincimento, controllo e contenimento dei comportamenti, dei premi e punizioni, è la paura trasmessa dalle istituzioni. Sono i cosiddetti dispositivi a oggettivizzare il comportamento dei soggetti, perché presuppongono una responsabilità del potere e la soggettività come coscienza comune, di fatto però totalmente depotenziati e sottratti alla discrezionalità individuale. I dispositivi intervengono sulla libertà del soggetto, in quanto comportamenti istituzionalizzati che vengono interiorizzati, proprio per questo Foucault conclude che il dispositivo stesso costituisce il potere effettivo, perché in grado di costringere la libertà degli individui, incoscienti di questa strategia di deresponsabilizzazione personale e di spersonalizzazione nella società. È così che esiste la società disciplinare.