Il movimento della Body Positivity è ormai ben noto e consolidato, soprattutto all’interno di piattaforme social, siti web e blog nei quali proliferano foto e racconti di esperienze personali contraddistinti da hashtag quali #SelfLove, #Normalizenormalbodies, #Bodyacceptance e molti altri.
Il tema diventa inoltre sempre più centrale nello storytelling di influencer e brand che negli ultimi anni si stanno facendo protagonisti, quasi appropriandosene, del discorso sull’accettazione dei corpi. Ciò rischia però di oscurare la storia del movimento e i suoi reali obiettivi, appiattendone la complessità. Infatti la Body Positivity – affermando che tutti i corpi sono non ugualmente belli, ma ugualmente validi – si muove prima di tutto su un piano politico e si intreccia con questioni socio-culturali che vanno ben al di là dell’opinione, positiva o meno, che una persona possa avere della propria immagine esteriore.
La Body Positivity può essere considerata diretta discendente del movimento della Fat acceptance – sviluppatosi negli Stati Uniti nella seconda metà del ventesimo secolo – del quale però estende obiettivi, linguaggio e ambiti. I corpi cosiddetti “non conformi”, vittime di quel sistema oppressivo e discriminatorio che si cerca di portare alla luce, non sono infatti soltanto i corpi grassi; nondimeno quella del peso è una delle principali caratteristiche fisiche cui si rivolge questa differente attenzione sociale.
Dall’idea di grasso alla Body Positivity
L’idea contemporanea di grasso, e tutti i significati che questo termine attrae inevitabilmente a sé, ha origini più recenti di ciò che potremmo pensare oggi: stiamo parlando infatti di una narrazione che ha soltanto poco più di un secolo. Fino alla fine del 1800, tale idea si è accompagnata a quelle di prosperità, benessere, prestigio sociale; il peso in eccesso era, per così dire, “un privilegio di pochi”: indicava disponibilità economica e – benché possa risultare difficile da credere – indicava anche un corpo in salute, in quanto privo di malattie in grado di debilitarlo.
Si potrebbe ritenere che il cambio di rotta sia avvenuto grazie ai progressi raggiunti in campo medico all’inizio del secolo scorso e alla conseguente scoperta dei rischi che le condizioni di sovrappeso e obesità comportano per la salute della persona (rischi che peraltro sono ancora molto discussi, ci spiega la dietista Veronica Bignetti, quantomeno nella loro effettiva entità).
In realtà, come evidenziato dalle ricerche storiche e sociologiche di Amy Erdman Farrell nel suo testo Fat Shame, la percezione negativa del grasso – della persona grassa nella sua totalità – è precedente all’esplicita preoccupazione per la salute, che è invece maturata solo in seguito. In altre parole, il grasso è diventato un problema sociale prima ancora che fisico, biologico, medico.
La nostra cultura gli attribuisce significati che trascendono la caratteristica fisica, oggettiva e misurabile, arrivando a connotare la persona anche e soprattutto da un punto di vista morale: grasso vuol dire pigro, incapace di governare i propri impulsi, indolente, senza forza di volontà, inferiore. Il mondo guarda oggi a questi corpi con diffidenza e fastidio e li tratta con meno umanità, come se a loro non si applicassero i normali standard di educazione, rispetto e riservatezza. Questo perché l’avere peso in eccesso viene visto prima di tutto come una responsabilità, una scelta o, per meglio dire, una colpa. Un tratto fisico diventa così la cifra unica e ultima del valore di un essere umano, misurato in chili, e ne fagocita tutte le altre possibili sfaccettature.
Ma come si è arrivati a questo? Naturalmente la trasformazione non è avvenuta in maniera netta. Secondo gli studi della Erdman Farrell, tra la seconda metà del diciannovesimo secolo e i primi anni del ventesimo, il corpo grasso smise di indicare soltanto l’appartenenza ad una posizione sociale elevata e iniziò ad essere associato all’arricchimento sfrenato e all’incapacità di gestire l’abbondanza di risorse offerte dal mondo moderno.
I cambiamenti sociali, economici ed industriali dell’epoca portarono sempre più persone ad avere accesso a una quantità maggiore di cibo e a poter svolgere lavori sedentari o meno faticosi: i corpi iniziarono così a cambiare, letteralmente, e il conflitto culturale tra vecchio e nuovo – antichi valori e nuovi bisogni – si svolse proprio su di essi. In particolare la preoccupazione per le conseguenze negative della vita moderna si concentrò sulle donne, considerate prive delle qualità razionali degli uomini e quindi inadatte a controllare il proprio desiderio di benessere.
Fotografia di Martina Lambazzi
Il disprezzo dei corpi non conformi si legò presto anche alle idee di etnia, evoluzione e civilizzazione: il peso eccessivo cominciò ad essere individuato in quelle categorie di individui considerate inferiori e relegate al fondo della scala evolutiva. La grassofobia si intersecò quindi con il classismo, il razzismo, l’abilismo, il sessismo. Ancora oggi aumentare di peso significa perdere la propria posizione, il proprio spazio politico, scendendo in basso nella gerarchia sociale ed economica – nella stessa misura in cui la perdita di peso si accompagna all’idea di successo, e segna un aumento di prestigio sociale e un miglioramento non soltanto fisico ma anche morale e psicologico. Le idee del XIX secolo sull’evoluzione degli esseri umani e sulle fasi della civiltà, lungi dall’essere scomparse, si sono piuttosto insinuate nel tessuto della narrazione intorno ai corpi, in cui alcuni di essi continuano a essere visti come superiori, più degni.
La presa di coscienza dello stigma emerse alla fine degli anni Sessanta, e la rivendicazione per la Fat Liberation si mosse insieme alle altre dell’epoca, come i movimenti per i diritti civili e la seconda ondata del femminismo. La prima azione documentata fu il Fat-in (da “Sit-in”) del 1967, quando un gruppo di persone si riunì a Central Park, New York, per protestare – in modo ancora spontaneo e poco strutturato – contro la cosiddetta “cultura della dieta”. Nel 1969 nacque la NAAFA (National Association to Advance Fat Acceptance) dall’azione di Bill Fabrey; mentre nel 1973 venne stilato il Fat Liberation Manifesto che nei suoi pochi punti chiedeva la fine della discriminazione verso le persone grasse e la metteva in correlazione con altre forme analoghe di oppressione.
Perché l’autostima è “body positive”, ma non ci interessa
L’imparare ad accettarsi e a trattarsi con amore, e di riflesso la lotta al bodyshaming – vale a dire il giudizio e la derisione del corpo altrui, qualsiasi tipo di corpo – è certamente utile, ma non basta. Si tratta di riconoscere che alcuni di essi sono vittime di una discriminazione che ha dimensione sistemica e si propaga a tutti gli ambiti umani: dalle relazioni alla vita professionale, dall’assistenza medica o legale alla rappresentazione mediatica.
Fotografia di Martina Lambazzi
Lo stesso vale per il nuovo concetto di Body Neutrality, nato come reazione alla crescente banalizzazione del messaggio di Self-Love e con l’intento di riportare il movimento alle sue origini. Affermare che la bellezza non è un valore e che dovremmo posizionarci in maniera neutrale nei confronti del nostro corpo, non preoccupandoci di esso e slegandoci da ogni considerazione di tipo estetico, non alleggerirà il sistema di oppressione che determinate categorie subiscono.
La “Diet Culture” è un’istituzione di potere: si toglie valore morale ad alcuni corpi – secondo dicotomie di giusto/sbagliato, buono/cattivo, sano/malato – per spegnerne la voce e annullarne l’identità, in modo da assoggettarli. Una persona grassa potrà imparare ad accettarsi e amarsi, ciò nondimeno continuerà ad avere difficoltà ad ottenere una diagnosi medica che non sia basata sul peso (il cosiddetto weight bias), o un lavoro per cui è qualificata, o una rappresentazione non stereotipata da parte dei media; sarà limitata nella sfera pubblica e costretta a subire continue ingerenze circa la propria salute e il proprio stile di vita; si sentirà costantemente sotto ai riflettori e allo stesso tempo marginalizzata, invisibile. Per questo il “thin shaming” e il “fat shaming” non pesano allo stesso modo: i giudizi sul proprio aspetto fanno male a tutti, ma non tutti sono vittima di uno stigma e di una discriminazione sistemica, generalizzata, interiorizzata.
In sintesi, il corpo contribuisce alla costruzione dell’identità in senso politico, e innesca dinamiche di privilegio e subalternità: è su questo terreno, più che su altri, che la lotta per liberazione dei corpi – di tutti i corpi – deve avvenire.