Per parlare di carcere e disturbi psichici abbiamo voluto che fosse una voce interna a spiegarne le dinamiche sociali e le implicazioni esistenziali che si dispiegano all’interno di una struttura detentiva. Giovanni Colonia è una persona detenuta nella Casa Circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso, ma insieme a questo è molte altre cose, tra cui studente magistrale prossimo alla laurea in Editoria presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Roma Tor Vergata.
Il suo interesse per la psicologia va di pari passo all’accoglienza della sua persona: pronto come pochi altri nella classica posizione di ascolto di chi sa essere padre che conforta e consola e compagno di un viaggio che non necessariamente deve essere solo disgrazia, ma auspicabilmente anche percorso che si nutre di voglia di esistere. Con lui abbiamo voluto parlare nello specifico dell’insorgenza di disturbi e patologie psichiche all’interno del carcere e più avanti parleremo anche del diritto all’affettività in carcere.
L’attitudine alla materia lo ha portato anche a intraprendere un lavoro di tesi in psicologia generale, nella quale il carcere non rimane soltanto cornice, luogo in cui vivere forzatamente, ma un ambiente da guardare con sguardo interno ed “esterno”, nello stesso momento, per poterlo analizzare e raccontarne le patologie e i disturbi psichici. Perché come ci ha spiegato lui stesso «il contesto è importante e il carcere è un contesto distruttivo».
Parlare di carcere è anche parlare dei disturbi psichici, in base alla tua esperienza detentiva in quale modo vengono affrontati e gestiti?
Con l’isolamento e con gli psicofarmaci. Nell’ordinamento penitenziario, il regolamento di esecuzione D.P.R. 230/200 agli artt. 111 e 112 prevede la possibilità di assegnare detenuti affetti da patologie psichiatriche in sezioni speciali, attualmente chiamate «articolazioni per la salute mentale», che servono a rendere il regime carcerario compatibile con i disturbi psichici.
Ma nella pratica queste persone vengono messe in isolamento, perché non possono svolgere alcuna attività trattamentale per ragioni di ordine e sicurezza. Di conseguenza chi è recluso lì, rimane sempre chiuso in cella. Viene somministrata soltanto la terapia farmacologica, che finisce per peggiorare lo stato psicologico della persona detenuta.
Sono molte le persone che entrano in carcere da detenute ma che in realtà andrebbero considerate come pazienti psichiatrici?
A dir la verità non conosco molti casi, ho giusto qualche informazione a riguardo. Tra queste, una persona arrestata e portata in carcere che era affetta da disturbo bipolare e borderline, già diagnosticati precedentemente all’arresto, tanto che per questa persona erano stati richiesti diversi TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio). Una volta in carcere gli è stata confermata la diagnosi e applicata la misura del GSI (Grande Sorveglianza Intramuraria). Così come un’altra persona, affetta da disturbo psicopatico delirante, a cui è stato diagnosticato anche uno stato di infermità mentale. Da detenuto, però, non posso avere molte informazioni su casi specifici, ma oltre a questi ce ne sono sicuramente molti altri.
Tra carcere e disturbi psichici c’è anche un altro legame: il primo che diventa fattore scatenante dei secondi. Quanto è frequente e perché?
È molto frequente, non a caso nel manuale diagnostico statistico (DSM), un sistema classificatorio dei disturbi mentali, i due traumi più gravi da tenere in considerazione per fare una diagnosi psichiatrica sono la perdita delle persone care e il carcere. Quindi sì, il carcere diventa fattore scatenante dei disturbi psichici e proprio per questo motivo l’istituzione carcere è un fallimento: funziona in un modo che fa male alle persone.
Quali sono i principali disturbi accusati dalle persone detenute?
I disturbi correlati all’ansia. I motivi più frequenti per cui il detenuto assume psicofarmaci sono riconducibili agli stati ansiosi, ma anche all’insonnia e alle difficoltà di adattamento. Poi a questi si aggiungono le persone che li assumono per compensare la mancanza di droghe.
L’ansia è un’emozione spiacevole caratterizzata da una sensazione generica di pericolo, paura e attivazione fisiologica. Paura e ansia sono risposte umane, normali come risposte a minacce o situazioni di pericolo, ma per definire un disturbo d’ansia si prendono in considerazione due concetti di base: il contesto in cui si manifesta e la gravità su un continuum da moderato a grave.
Quindi il contesto è importante e il carcere è un contesto distruttivo. Non sono psicanalista, né psicoterapeuta, ma avendo studiato un po’ questa materia e alla luce della mia esperienza carceraria posso dire con certezza che molti detenuti soffrono di ipocondria, sentono dolori fisici che in realtà sono dovuti a un problema psicologico. Altri soffrono di paranoia, estrema sospettosità, o di ipomania, tratti grandiosi ed eccessiva eccitazione.
Ingresso esterno della Casa Circondariale di Rebibbia – Nuovo Complesso. Fotografia di Francesco Formica
Un altro disturbo molto diffuso è il pensiero dicotomico, a causa del quale è tutto bianco o tutto nero, le persone che ne soffrono vedono le cose in termini di due categorie che si escludono a vicenda senza toni intermedi. Molto diffuso è anche il disturbo ossessivo compulsivo, quindi l’ansia prodotta da pensieri involontari accompagnati da rituali compulsivi.
Riguardo a questo posso farti alcuni esempi: alcune persone qui dentro sono ossessionate dalla pulizia della cella, arrivano a fissarsi sulle fughe delle mattonelle che vogliono far diventare sempre più bianche oppure si infastidiscono se una bottiglia sullo stipetto non è allineata con le altre e non fanno altro che riposizionarle. Altri fanno un casino se cade una briciola di pane in terra e tutto questo succede perché il pensiero fisso del carcere e della situazione in cui ci si trova porta a sfogarsi su queste piccole cose in maniera compulsiva.
Allo stesso modo alcuni fanno palestra, ci sono persone che si sovraccaricano di pesi pur non avendo una preparazione adeguata. Gridano ogni volta per alzare la sbarra rischiando di farsi male e passano molto più tempo del dovuto in palestra. Altri invece, come me, dicono sempre le stesse cose perché alcune volte anche a me il contesto crea un po’ d’ansia. (Ride)
E insieme a questi compaiono anche i disturbi più gravi, come quelli di personalità quindi psicopatici di tipo machiavellico, disturbo narcisistico di personalità e disturbo bipolare, alcuni infatti alternano mania e ipomania a stati di depressione. Tra l’altro problemi di natura psicologica non riguardano soltanto i detenuti ma anche il corpo della polizia penitenziaria e non sono io a dirlo, ma l’alto tasso di suicidi tra gli agenti di custodia. Tutto questo per dire che il carcere è un miscuglio di disturbi è che così com’è fa male.
In quali soggetti e casi è più frequente che si sviluppino questi disturbi?
Nelle persone appena arrestate che fanno fatica ad ambientarsi o, paradossalmente, nelle persone che si sono adattate troppo perché da molto tempo detenute. Nel corso dell’espiazione della pena il detenuto assorbe un insieme di regole che governano ogni aspetto della vita. Questo provoca un annullamento della personalità e dei valori preesistenti all’ingresso in carcere. Viene chiamata sindrome della carcerazione e dimostra quanto l’ambiente carcerario sia nocivo per le persone più deboli che lo subiscono e che sono senza strumenti per reagire. Per questa ragione in carcere ti devi difendere sia a livello fisico che a livello mentale facendo sport, leggendo e studiando. Anche se poi studiando e capendo bene come stanno le cose si è più suscettibili allo sconforto perché ci si rende conto veramente di tutte le assurdità su cui è costruito un carcere. A Napoli si dice: “chi capisce malepatisce”.
Qual è il rapporto che si instaura tra queste persone e il resto della popolazione carceraria?
Solitamente si cerca di aiutare queste persone innanzitutto perché in carcere c’è molta solidarietà e poi anche perché queste persone devono convivere con te, naturalmente finché risultano gestibili.
Tanti anni fa, nel 1992, nel carcere di Poggioreale hanno messo in cella con me un ragazzo che soffriva di crisi epilettiche e, come accade, ogni volta che aveva una crisi si faceva la pipì addosso. Gli venivano in media due crisi al giorno e qualcuna anche di notte e dunque si aggiungeva il problema di dover cambiare il materasso, quando era disponibile.
Ogni volta lo aiutavo cercando di non fargli sbattere la testa. Terminato l’attacco epilettico gli scaldavo l’acqua in una pentola sul fornello per farlo lavare, perché all’epoca non c’era né acqua calda, né riscaldamento in cella. Mentre lui si lavava io pulivo e lavavo il pavimento.
All’epoca ero un ragazzo anche io e, un giorno sì e uno no, ricordavo alle guardie che il mio compagno di cella aveva bisogno di un’assistenza, che io non potevo dargli. Per me era normale aiutarlo soprattutto all’interno di un’istituzione totale come quella di Poggioreale, ma non era sufficiente. Dopo quasi due mesi si sono resi conto che effettivamente aveva bisogno di assistenza e lo hanno spostato in un’altra sezione, affidandolo a un piantone, ossia un altro detenuto pagato per assisterlo. Mi ricordo che mi chiamava dalla finestra per dirmi che mi voleva bene. Ogni volta che ci ripenso mi emoziono.
Con quale frequenza questi disturbi diventano causa di suicidi?
Altissima. Il suicidio è una cosa enorme e se una persona decide di togliersi la vita vuol dire che è psicologicamente devastato. Se guardiamo i dati dei suicidi in carcere ci rendiamo conto di quanto siano impressionanti. Stando a quelli riportati dal ministero della Giustizia, nel 2019, si sono verificati 53 suicidi e la media rimane invariata dal 2002 al 2021, con una percentuale di 8,7 suicidi ogni 10 mila detenuti. A cui si devono aggiungere 939 tentativi di suicidio e 8.376 atti autolesionistici. Questi dati diventano ancora più preoccupanti se paragonati alle stime riportate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità secondo cui nel 2016 in Italia nella popolazione libera si è registrato un tasso di suicidi pari allo 0,82 ogni 10 mila abitanti.
Quali sono le terapie farmacologiche più diffuse in carcere?
Di solito vengono prescritti farmaci psicotropi, dunque ansiolitici per curare o attenuare stati d’ansia e angoscia, antidepressivi per alleviare avvilimento e tristezza, stabilizzatori d’umore e antipsicotici. Sono farmaci che agiscono sui disturbi, aumentando o diminuendo le funzioni dei relativi sistemi di neurotrasmissione, quindi farmaci agonisti che aumentano la neurotrasmissione e farmaci anti agonisti che riducono la trasmissione impedendo la sintesi dei neurotrasmettitori oppure bloccando i recettori postsimpatici. I farmaci inibitori, ad esempio, servono per bloccare la ricaptazione della serotonina della sinapsi e sono usati nel trattamento della depressione e degli stati ansiosi e proprio per questo motivo sono i più usati qui in carcere.
Cosa significa convivere quotidianamente con disturbi e patologie psichiatriche in carcere?
Significa che la carcerazione diventa ancora più pesante perché oltre ai problemi che devi affrontare a causa della privazione della libertà, lontano da famiglia e affetti, e a causa dell’adattamento a determinate regole – a volte assurde – imposte dagli istituti, devi anche accollarti la detenzione di chi soffre di problemi psichiatrici. A volte la sensazione è proprio quella di vivere all’interno di un manicomio.