Termina con il Centro di Salute Mentale di Ceccano, Dipartimento di Salute Mentale e Patologie della Dipendenza della Asl di Frosinone, il nostro reportage sui Servizi che erogano prestazioni per la salute e il benessere mentale. Tra gli operatori che da anni lavorano presso il CSM abbiamo incontrato Maria Tiberia, assistente sociale, e Luciano Pozzuoli, psichiatra e psicoterapeuta, che hanno sottolineato l’importanza del lavoro che il Centro di Salute Mentale svolge sul territorio. Come afferma Pozzuoli «quella del territorio è un’esperienza molto valida per la gestione, e soprattutto la prevenzione, di pazienti con esordio psicotico o di situazioni più gravi che possono essere gestite distanziando il più possibile il ricovero, se non addirittura riuscendo ad evitarlo. Il lavoro territoriale è variegato perché ci permette di occuparci di pazienti di tutte le fasce d’età, a partire dai maggiorenni. Le patologie sono tutte quelle che colpiscono la salute mentale, dove le più comuni sono rappresentate dall’ansia, la depressione, i disturbi di personalità, il disturbo bipolare, la schizofrenia. Gestiamo, poi, anche casistiche più particolari: basti pensare alla collaborazione con gli Enti Locali, spesso per il coinvolgimento di minori, figli di persone con patologia psichiatrica. In queste occasioni si rende necessario mettere in rete le diverse agenzie del territorio, in un lavoro di connessione multifattoriale. Inoltre lavoriamo in parallelo con il SERD per le problematiche di dipendenza, perché molto spesso questi pazienti vengono inviati a noi per gestirne la patologia psichiatrica più specifica».
Luciano Pozzuoli. Fotografia di Martina Lambazzi
Tiberia, oltre a confermare il lavoro sugli aspetti sociali che riguardano il paziente e l’importante collaborazione con i medici e gli psicologi nel lavoro di équipe, ha aggiunto una nota personale rispetto alla professione che svolge con la stessa passione dell’inizio: «sono più di trent’anni che lavoro nella salute mentale, sono stata assunta quando ancora c’erano i pazienti dell’Ospedale Psichiatrico. Ho ricevuto molto da loro, mi hanno insegnato una sorta di rispetto e di delicatezza che mi sono portata dietro negli anni. Continuo a nutrire un grande amore per il mio lavoro anche se, nel tempo, diventa più pesante. Spesso capita di portarsi a casa problemi che ti toccano particolarmente, talvolta continuiamo a lavorare anche da casa. Abbiamo ottenuto dei bei risultati negli anni. Sono arrivate persone in preda all’angoscia, con relazioni personali disastrose, che poi hanno avuto un’evoluzione di riscatto e di crescita meravigliosa. Devo dire che sono stata molto fortunata perché ho avuto dei collaboratori, soprattutto dei responsabili, illuminati e con un pensiero aperto».
Maria Tiberia. Fotografia di Martina Lambazzi
Fausto Russo è lo psichiatra e psicoterapeuta responsabile della Struttura e, più estensivamente, dei Centri di Salute Mentale di tre dei quattro Distretti della provincia di Frosinone. È lui che ci ha aiutato a tracciare la storia di alcuni dei luoghi che hanno caratterizzato il percorso della malattia mentale in quella che ancora oggi viene definita comunemente “la terra dei matti”. Con lui, oltre a comprendere meglio la funzione del Centro di Salute Mentale, abbiamo osservato dall’esterno l’Ala Mosconi, struttura in disuso che ospitava parte dell’Ospedale Psichiatrico. Abbiamo osservato anche le mura del vecchio manicomio, un luogo che, seppur controverso, ha permesso agli abitanti di Ceccano di entrare nello spirito della malattia mentale al di là dei pregiudizi. Per finire abbiamo ascoltato la storia del vecchio teatro, uno spazio nel quale risuonava la voce dei malati mentali affinché non ci si dimenticasse della loro esistenza.
In quello spazio si avviò un’esperienza di apertura al territorio, impiegando l’enorme potere terapeutico dei suoni. “I suoni che curano” è stato il progetto avviato nello spazio del vecchio manicomio e aperto significativamente al territorio, all’interno di un progetto laboratoriale indirizzato al miglioramento complessivo della capacità di comunicazione.
Il ruolo del Centro di Salute Mentale. «Lavoriamo molto sulla rete, che è una parola magica»
«Siamo nella stanza del CSM in cui arrivano le richieste, formulate da chi porta un proprio bisogno personale ma qualche volta anche dalla persona che si prende cura del paziente, soprattutto un genitore. Di solito sono le mamme a farsi carico del disagio dei figli. Queste richieste vengono filtrate dalla nostra équipe composta dallo psichiatra, dallo psicologo, dall’assistente sociale, dagli infermieri. I casi vengono assegnati in base alla loro rilevanza e all’ordine di arrivo, facendone emergere la specificità della richiesta e dell’operatore che dovrà occuparsene, sempre all’interno di un privilegiabile lavoro di équipe. I tempi di attesa sono molto brevi, di solito riusciamo a dare risposte nel giro di due settimane al massimo. Devo dire che l’indice di soddisfazione degli utenti, che misuriamo sempre, ci rivela una complessiva efficacia dei nostri trattamenti. Così, in maniera più strutturata, abbiamo depositato in sala d’attesa un questionario nel quale abbiamo chiesto all’utente di indicare, oltre al livello di soddisfazione o di insoddisfazione per le risposte ricevute, come più specificamente si era sentito in termini di accoglienza. Dico questo perché il clima organizzativo è fondamentale, è da quello che discende anche l’attenzione alla relazione e al rapporto col mondo in senso più lato. L’attenzione alla categoria dello stare nel mondo determina non solo il tipo di cura e di cure che verranno erogate, ma orienta verso una più ampia rivalutazione della relazione. Sicché, le nostre terapie hanno a che fare con la rifinitura di uno stile comunicativo che è andato a smarrirsi.
Parlavamo di terapie. E allora, il percorso terapeutico si avvale di un approccio farmacologico iniziale, con il quale andiamo a correggere degli squilibri e a ripristinare il più possibile una funzionalità neuro-cerebrale. Questo vale ad esempio per le psicosi, che sono il nucleo portante delle patologie di cui ci occupiamo. La psicosi presenta un sintomo imponente, il delirio, accanto a una più generale alterazione del concetto di realtà e a un significativo disturbo percettivo – le cosiddette allucinazioni – in cui si crea un universo fittizio. Il paziente psicotico si è convinto, o è stato convinto, di risultare un perdente nel rapporto con il reale, vale a dire nel rapporto con l’altro e con il mondo in generale. Poiché è compromessa la possibilità di rapportarsi con il mondo, lo psicotico se ne costruisce uno suo proprio. Di quel suo mondo personale si elegge sovrano, decidendone lui stesso le leggi che lo regolano: chi vorrà entrarci, allora, dovrà sottoporsi a quelle specifiche leggi che lui ha fissato. Chi pronuncia critiche al mondo dello psicotico produce solo frustrazione, perché ne mette in discussione tutto l’impianto di pensiero e lo fa sentire vulnerabile e particolarmente frustrato, in quanto non capace neppure di pensare a mondi alternativi.
Fotografia di Martina Lambazzi
La creazione di una realtà, evidentemente fittizia, è il prodotto di un delirio, cioè di un atto di pensiero che resiste ad ogni critica tesa a smontarne l’evidente non corrispondenza con il reale. Il delirio serve allo psicotico per credere in qualcosa che non c’è, ed è rinforzato dall’allucinazione, una percezione sensoriale alterata che per lo più fa vedere e sentire ciò che non esiste. Tornando alle terapie messe in atto, accanto all’impiego di farmaci ci si avvia a un lavoro di lettura delle dinamiche comunicative, affettive, emotive e relazionali della persona. Lavoro, questo, più proprio degli psicologi, ma in realtà facente parte di un tipo di approccio il cui stile operativo deve essere acquisito un po’ da tutti gli operatori. Un lavoro di questo tipo trova la sua cornice più efficace nel territorio, cosicché la persona viene considerata come facente parte di un contesto che diventa una vera e propria comunità di salute dove tre parametri sono storicamente indicatori di riferimento: abitare, lavorare, fare relazione. Tutto questo conduce verso una visione di rete, parola magica che è più di una metafora. Basti pensare che la rete è una evidenza già presente prima di tutto nella fisiologia dei nostri neuroni, che tanto più funzionano quanto più sono in rete tra di loro, connessi l’un l’altro. Forti di tale corrispondenza con la realtà biologica individuale, sosteniamo l’individuo nell’esprimersi all’interno di reti territoriali che gli facciano sentire connessioni e appartenenza. Le reti diventano capaci di creare un contesto accogliente e stimolante in cui il paziente può meglio manifestare il suo sentire e può anche permettersi di oltrepassare l’ovvio ed esplorare l’altrove. In questo senso, non basta non essere un problema, c’è bisogno che le persone sentano di poter essere una risorsa. L’angolatura farmacologica, psicologica e sociale rappresenta lo stile che ci connota nell’intervento con questi pazienti. Accanto alle psicosi, di cui ho fin qui parlato, altre patologie trattate nel Servizio sono le nevrosi, nelle quali troviamo sintomi di più comune riscontro, come ansia, depressione, fobie, ipocondrie: tutte condizioni nelle quali l’energia psichica non si è diretta verso investimenti emotivi sani e strutturati. La terza categoria, che sta emergendo oggi in maniera più consistente, è quella dei disturbi di personalità. Le persone che ne sono affette sono poco flessibili, ignare che il loro comportamento sia disadattivo, inappropriato, disfunzionale, ma convinte che i loro problemi dipendano dagli altri, dai quali non si sentono né compresi, né supportati. Accanto a questi tre macrocategorie diagnostiche, oggi si fanno spazio le dipendenze, articolate in una maniera più ampia rispetto alla sostanza classica: pensiamo alla dipendenza dal gioco, dal sesso, dal web. Lavoriamo, per questo, in tandem con il Serd, pronti a proporre anche possibili percorsi comunitari. La metafora è più che mai quella di attrarre risorse e strumenti polifonici, a più voci, per integrare un mosaico di opportunità, capaci di raggiungere il più possibile la complessità e la completezza della persona».
Il ruolo della musica nella cura. «La memoria sonora caratterizza il nostro essere al mondo»
«Il richiamo alla polifonia induce alla suggestione della terapia con i suoni. Sappiamo quanto lei abbia contribuito allo sviluppo della musicoterapia, in termini di ricerca e di applicatività clinica. Qual è, dunque, il ruolo dei suoni nei percorsi di cura e di riabilitazione in ambito di salute mentale? Già Platone, riferendosi all’impiego dei suoni nei mali dell’anima, aveva osservato: “quando dal di fuori si reca una scossa a stati di questo genere, il movimento arrecato dall’esterno padroneggia quello interno, che è di angoscia e di delirio”. E poi Racamier: “quando cessa la tenue musica dell’oggetto interno, si produce un chiasso spaventoso che è il rumore della psicosi”.
Due intuizioni davvero splendide, che aiutano a comprendere meglio come l’impiego del suono e della musica nella cura della patologia mentale, in special modo nei disturbi della comunicazione, si riveli oggi straordinario. Tra le prime e più consistenti esperienze italiane in questo senso annoveriamo quella presso l’Ospedale Psichiatrico “Leonardo Bianchi” di Napoli. È nata lì quella che poi è diventata la “Scuola napoletana”, che ha dato luogo all’apertura di due Scuole di formazione triennali, attestate sugli standard normativi europei. Oggi, da una fase in cui la musicoterapia si mostrava come completamente sconosciuta ai più, siamo pervenuti a un momento storico in cui, da più parti, si moltiplicano gli spazi e le possibilità applicative di questa disciplina, che sta sempre più compiutamente passando tra le maglie rigorose della validazione scientifica. Le sue metodologie d’intervento appaiono sempre più diversificate e mirate, mostrando efficaci e condivise capacità di incidere sul benessere complessivo dell’individuo.
L’impianto della musicoterapia si avvale dell’uso della musica e dei suoi elementi, suono, ritmo, melodia, armonia per creare uno spazio terapeutico dove si creano movimenti e processi che vanno a facilitare e promuovere la comunicazione, le relazioni, l’apprendimento, nella prospettiva di assolvere i bisogni fisici, cognitivi, emotivi, sociali della persona. La terapia con i suoni, allora, va a favorire l’espressione delle emozioni, stimolare l’attività psicomotoria, supportare le funzioni cognitive (ideazione, attenzione, concentrazione, memoria), modulare l’umore e facilitare il rilassamento, incidere su attività corticali superiori come l’apprendimento e l’immaginazione.
Fausto Russo. Fotografia di Martina Lambazzi
Le basi scientifiche della musicoterapia affondano già nella lontana epoca fetale, quando, nel grembo materno, l’essere umano si trova completamente immerso in un universo sonoro: respiro, voce, vibrazioni, rumori d’acqua, passaggio dell’aria nei polmoni e nell’intestino materno. E soprattutto, il battito cardiaco. Accolto nell’universo sonoro del grembo materno, il feto apprende due abilità fondamentali: il linguaggio e il movimento. Impara a muoversi perché acquisisce il concetto di governare la propria posizione nello spazio, mentre galleggia nel liquido amniotico. Impara poi a parlare, semplicemente perché convibra nella risonanza sonoro-emotiva del corpo materno. In molti casi di schizofrenia si pratica un accompagnamento sonoro verso il ritorno a una fase pre-oggettuale, dove la nozione di mondo non si è ancora formata. Questa pratica sonora produce nel paziente che vi si sottopone una forma di regressione, al punto di simulare una nuova nascita, la re-birthing degli autori di lingua inglese, dove sarà più agevole agganciare i nuclei cognitivi ed emotivi compromessi dalla malattia. Tutto questo perché ogni relazione che avviene nel grembo materno passa necessariamente per i suoni e ogni successiva relazione che l’individuo andrà a vivere risentirà necessariamente di quel primitivo codice sonoro. Così, la cura musicoterapica, farà si che la persona possa ottimizzare nient’altro che il patrimonio di energie sonore ereditate.
L’udito, dunque, è la prima abilità sensoriale che il feto scorge e addestra, ed è proprio la percezione di sonorità multiformi che gli rivela l’esistenza di un universo intorno a lui: è qui che comincia ad abbozzarsi la nozione di un possibile rapporto persona-mondo. Sul piano neuro-sensoriale, dunque, già a partire dal quarto mese, il feto riconosce ed è in grado di memorizzare le sonorità, grazie alla presenza della nascente memoria sonora che, dato rilevante, è il primo tipo di memoria che si struttura. Come ha dimostrato una ricerca condotta in alcune cliniche ostetriche in Francia, dove venne chiesto a un campione eterogeneo di circa trecento gestanti al terzo mese di gravidanza di leggere una favola ai propri nascituri. Le madri, per trenta giorni e alla stessa ora, hanno letto quella favola, finché all’inizio del quarto mese di gestazione è stato chiesto loro di leggerne un’altra. Sa cosa è accaduto? I feti si sono accorti di un cambiamento intervenuto e hanno scalciato. Per cogliere quella variazione, evidentemente, devono aver memorizzato gli stimoli sonori precedenti. Non fosse altro, allora, per questo suo formarsi per prima, la memoria sonora ci dà un identità ben precisa, è quella che caratterizza il nostro essere al mondo, cosicché ogni qualvolta ci imbattiamo nella emotività di fenomeni sonori facciamo i conti proprio con quella memoria antica. Anche il canto e il ballo, per esempio, rappresentano un modo per recuperare l’universo sonoro sperimentato durante la vita uterina.
Un ulteriore esempio dell’impiego dei suoni in un contesto terapeutico posso portarlo con la mia testimonianza diretta di psicoterapeuta familiare. Nel primo incontro di un percorso terapeutico che si avvia, comunico ai singoli componenti la famiglia che nella terza o quarta seduta andrò a introdurre la presenza di strumenti e la consegna sarà: “quello che avete da dire, comunicatelo per il tramite dei suoni”. All’inizio questa proposta destabilizza i pazienti, ma già subito dopo si dispongono favorevolmente all’esperienza e quasi attendono con fiducia di arrivare a esprimersi con un codice diverso. Vorrebbero dire una verità loro propria, secondo quella ambivalenza che li fa essere sia timorosi di venire smascherati nel loro stile comunicativo incrostato, sia desiderosi anche timidamente di distanziarsi dal gioco di equivoci e manipolazioni che va avanti da tempo. Tutto questo può trovare una via di sbocco diversa, proprio perché le tracce sonore esprimono e veicolano contenuti emotivi profondi, lontano dal codice verbale, già ampiamente usato per mistificare, per nascondersi, per pretendere. Quando diciamo che, nel permetterci di contattare le nostre nuclearità emozionali, la musica è davvero uno strumento immediato, vogliamo dire che non ricorre a mediazioni logico-strutturali, proprie dei linguaggi verbali».
Il vecchio manicomio. «Queste mura sono spesse come spesso è lo stigma che ha connotato la lettura delle vicende esistenziali di questa terra»
«Il manicomio con le sue mura, accanto alla ferrovia e al saponificio, hanno caratterizzato la storia di questo paese. Quest’ultimo ha segnato la vita di tante famiglie offrendo loro possibilità importanti di lavoro, inquinando però irrimediabilmente il fiume Sacco, tant’è che i movimenti ecologisti che sono nati continuano a battersi per ridisegnare uno scenario più sostenibile. Ci tengo a parlare di queste mura manicomiali, spesse come spesso è lo stigma che ha connotato la lettura delle vicende esistenziali di questa terra. Lo stigma, in effetti, è stato duro a morire e ha permeato sia la cultura alta, sia il buon senso comune. Paradossalmente era più oggetto di stigma l’ammalato che si ricoverava in Ospedale, nel Servizio di Diagnosi e Cura, che non nel manicomio stesso. Quando ho fatto le guardie nell’SPDC, mi chiedevano, con un’idea di cura completamente distorta: “dove vai stasera: che vai a guardare i pazzi?”. E, sempre paradossalmente, ad addolcire lo stigma nella città di Ceccano è stato con molta probabilità il manicomio stesso. Gli abitanti di questa struttura sono stati bene accolti dalla popolazione, verso di loro non si è sviluppato uno stigma così imponente come altrove. Un esempio, in questo senso, è dato dalla presenza, all’interno delle mura manicomiali, di un campo di baseball, quando Ceccano militava nella serie B. Altre realtà ergoterapiche, compresa la presenza di una biblioteca di pregio, hanno connotato in maniera più mite quella che altrimenti sarebbe stata una realtà più triste. Da quando, poi, i manicomi sono stati chiusi, questo spazio ha ospitato dapprima due comunità terapeutico-riabilitative, poi una comunità è stata chiusa e adesso abbiamo la Rems».
L’Ala Mosconi. «Una struttura testimonia che queste rovine hanno un senso»
«Un altro luogo che ha scritto la storia della salute mentale in questa terra è l’Ala Mosconi, monumento triste dell’abbandono e dell’incuria. Potrebbe avere un senso abbattere queste rovine per poter disporre di uno spazio altrimenti e più funzionalmente utilizzabile. Oppure, in una logica che voglia dare un significato ad ogni cosa, credo che queste rovine abbiano un senso anche come testimonianza storica, perché ricordano che qui c’è stata l’alienazione. C’è stato tutto quello che in una sola parola viene chiamato manicomio. È un monumento alla memoria che può avere un valore anche per visite educative, affinché gli studenti capiscano cosa ha significato l’alienazione mentale nei tempi passati e che tipo di risposta le veniva data. Per stimolare, nelle loro menti di giovani in formazione, idee su come convertire quello che rimane ora in qualcosa di utile, più inclusivo soprattutto».
L’Ala Mosconi. Fotografia di Martina Lambazzi
Il teatro del manicomio. «Un modo per dare dignità alla realtà manicomiale»
«Come ultimo passaggio di questo breve percorso, ecco le tracce di quello che fu il teatro del manicomio. Era utilizzato per qualche conferenza, tenuta un po’ per motivi autoreferenziali o promozionali, un po’ per ricordarsi che la struttura esisteva, che i malati esistevano e che, in senso lato, esistevano “le cose della mente”. Era come se ci fosse un inconfessabile desiderio di vedere in quel teatro il luogo fisico deputato ad accogliere la messa in scena della mente, di quello che la mente scrive, insegue, nasconde o svela. Proprio in questo spazio, nel 1993, ho avviato un’esperienza pionieristica, il primo laboratorio per il miglioramento della comunicazione in Italia. Sempre mossi dall’idea di far comunicare l’esterno con l’interno, si è organizzato questo spazio perché potesse ospitare persone interessate a formarsi in maniera teorica ed esperienziale. Ho, perciò, tenuto personalmente dei corsi per rendere più efficace lo stile comunicativo personale e per imparare a leggere l’intenzione comunicativa dell’altro. Altro obiettivo del laboratorio è stato quello di promuovere e favorire un vissuto di sinergia tra le varie associazioni del territorio, altrimenti ognuna operante in un proprio universo limitatamente autoreferenziale. Sono passate di qui oltre duecento persone, per lo più appartenenti alle associazioni del territorio ed al mondo scolastico. Il feedback ricevuto ci ha mostrato come le singole realtà associative avessero imparato a conoscersi le une con le altre, mentre fino a quel momento erano chiuse nel proprio guscio, ognuna si occupava del proprio ambito specifico. Hanno, invece, comunicato tra di loro e hanno sentito che l’appartenenza comune al territorio, che ci caratterizza in quanto esseri umani, è qualcosa che va sostanziata con una partecipazione e con un confronto tra idee e sentimenti diversi.
Il vecchio teatro del manicomio. Fotografia di Martina Lambazzi
Questa storia è durata due anni circa, per poi interrompersi in maniera comicamente drammatica, perché nell’aprile del 1995 un’ala dell’ospedale civile di Ceccano è crollata e allora si è posta la necessità di traslocare tutto ciò che era lì. L’esigenza primaria di trovare una collocazione per le suppellettili dei reparti messi fuori uso prevalse e si ritenne che il teatro fosse il luogo da sacrificare come deposito. Così, per lungo tempo, ogni qual volta si apriva la porta di quello spazio, si vedevano degli oggetti informi, ammassati l’uno sopra l’altro, dove a stento si riuscivano a distinguere reti in disuso, armadi divelti, balle di pannoloni, materassi impolverati. Sarebbe però un errore soffermarsi solo sulla precoce e traumatica interruzione di quella esperienza. In verità, appena il laboratorio fu sospeso, gli operatori hanno potuto constatare nella popolazione un visibile ed esplicitato cambiamento di approccio sia verso la malattia mentale in generale, sia verso la consapevolezza di poter attingere a risorse personali inattese. Il teatro ha rappresentato il luogo, non solo metaforico, dello scambio tra interno ed esterno, tra malattia e salute, tra storie vissute e storie raccontate. Il teatro ha permesso di riconoscere i fili sottili che tengono assieme gli esseri umani, permettendo di ribadirne le connessioni e la comune appartenenza».
L’operatore come porto di speranza per il paziente. «Voglio trasformare il pianto in canto»
«Quando la mente viene vissuta come una realtà inafferrabile, impenetrabile, incomprensibile, è allora che la si rinforza nella sua frammentarietà, nella sua ridondanza, nel suo girare a vuoto su sé stessa. Quando, invece, la mente viene vissuta come capace di generare meraviglia e bellezza, è allora che la mente diviene altro: si fa anima. E ci ricorda che le relazioni sane, che fanno star bene, sono quelle il più possibile collaborative, empatiche, ispirate: dunque, relazioni desiderative e generative. E così cambia anche l’approccio alla cura. In questa direzione va esaltato il sapere esperienziale dei nostri operatori, seri e intelligenti, bravi soprattutto ad entrare nella narrazione dei pazienti, nelle storie che già salgono dai loro volti. Bravi a parlare il loro linguaggio senza rimanere impigliati nella trappola di certe visioni del mondo frammentate. I nostri operatori rappresentano un porto di speranze per i pazienti, sanno far vedere loro che una salita smette di essere inaccessibile quando impari a costruirci degli scalini: quest’opera di trasformazione, o di più specifica ridefinizione, è quella che più assomiglia alla vita. Dove, per esempio, uno zero può essere vissuto come nullità (si vale zero, cioè niente) o può essere vissuto come un fattore moltiplicativo (se aggiungo uno zero a dieci lo faccio diventare cento).
Fotografia di Martina Lambazzi
Ma forse il più bell’esempio di saper convertire uno stato di malessere in una condizione di forza me lo ha mostrato una mia paziente, Rosaria. Curiosa, intelligente, straordinariamente sensibile nel decifrare il pensare dell’altro, era rimasta intrappolata in una forma di psicosi, che l’aveva fatta evadere dal reale perché trovava che i compromessi per adattarcisi snaturavano troppo la sua anima. Ebbene, in uno degli ultimi incontri che avemmo prima che si trasferisse con la famiglia, Rosaria si soffermò sulla sua forma di tristezza sconfortantemente pervasiva, che sembrava non le lasciasse spazi di benessere e di realizzazione personale. Sembrava. Perché, in fase di elaborazione dei suoi vissuti, ebbe modo di dire in maniera piena, assertiva e spontanea: “dottore, io una cosa le voglio dire, e sono sicura che io lo saprò fare e che lei sarà contento. Voglio trasformare il mio pianto in canto”. Un auspicio, questo, pacatamente folgorante. Che cancella con una passata di gomma quegli stereotipi di comodo appiccicati sulla superficie delle persone matte. E che, senza alcuna esitazione, esalta il sapere esperienziale dei pazienti. Un sapere che va messo in circolo, in tutta la sua dignità».