Una tappa del nostro reportage presso le strutture del Dipartimento di Salute Mentale e Patologie della Dipendenza della Asl Frosinone è stata il Centro Diurno dove abbiamo incontrato la responsabile Patrizia Monti, insieme a Cristina Papitto, operatrice CSV Lazio a Frosinone, ai due tirocinanti psicologi Daniele Riggi e Martina Giovannone e a due utenti del centro, Marco e Giuseppe.
È stato Marco a spiegare all’inizio cos’è un Centro Diurno e in cosa si differenzia da una Comunità: «in Comunità il paziente sta sempre all’interno della struttura, invece nel Centro Diurno si entra e si esce per fare delle attività». Ed è stato proprio di queste attività che gli operatori sanitari hanno voluto raccontarci, portando alla luce però una criticità sistemica: l’isolamento geografico e sociale in cui è stata storicamente confinata la Salute Mentale.
Una verità emersa non soltanto dalle loro parole, ma anche dalla nostra fugace esperienza: nonostante nel corso dell’intervista sia emersa come costante la necessità improrogabile di costruire una rete sociale capace di includere e integrare positivamente la diversità e la fragilità, il Centro Diurno è di fatto collocato di fronte ad un ingresso ospedaliero. Non affaccia dentro la comunità, ma sul parcheggio dell’ospedale. Eppure, la medicalizzazione dovrebbe costituire la fase iniziale dell’approccio terapeutico, non la matrice che la caratterizza.
Cos’è un Centro Diurno?
Patrizia Monti: La UOS (Unità Operativa Semplice) Centri Diurni del DSMPD di Frosinone comprende cinque servizi: Il Sentiero di Cassino, Oltre il Muro di Ceccano, La Bussola di Ferentino, il Centro di Isola Liri e Orizzonti Aperti, questo di Frosinone. Come già spiegato da Marco, è una semi-residenza e non un servizio h24 come la Comunità: eroghiamo il vitto ma poi ognuno torna alla propria abitazione. Siamo una via di mezzo tra il Servizio di Salute Mentale e la Comunità Terapeutica, un ponte tra i servizi e le comunità di competenza territoriale. La UOS è inserita in una rete di servizi costitutivi il DSMPD, la sua attraversabilità e la sua integrazione con tutti gli altri servizi, inoltre, garantiscono l’unitarietà degli interventi e la continuità terapeutica.
I Centri Diurni sono luoghi di frontiera. Questa immagine evoca qualcosa che ha a che fare con l’imprevisto, con un passaggio, con una possibilità d’incontro con l’alterità, con lo spirito d’avventura. Chi soffre chiede la rottura dell’isolamento e vuole essere incontrato là dove soffre. Il problema per noi non è “la guarigione”, ma l’emancipazione, la costruzione sociale della persona. È per questo che ci piace pensare al Centro Diurno come uno “spazio incubatore di presenze al mondo”, in cui il nostro fare mira a riabitare il corpo, il tempo e lo spazio.
Patrizia Monti. Fotografia di Francesco Formica
Poiché questi servizi sono, di fatto, istituzioni che concorrono alla tutela della salute mentale e la loro caratteristica di semiresidenzialità costituisce una delle principali risposte alle esigenze di presa in carico dell’utente, sia per la diversificazione delle prestazioni che vi possono essere erogate che per l’articolazione che può sviluppare con il contesto naturale di vita del malato, hanno come mission il raggiungimento dei principali obiettivi di salute. Quindi la promozione della salute mentale, la riduzione delle conseguenze disabilitanti attraverso la ricostruzione di un tessuto affettivo, relazionale e sociale, l’attivazione di risorse individuali e di contesto per la salvaguardia della salute mentale e della qualità della vita del nucleo familiare dell’utente e di tutti i nuclei familiari con gravi problemi relazionali.
Le nostre attività sono organizzate intorno a questi obiettivi, e intorno ai bisogni dei singoli utenti, come ad esempio il gruppo di confronto sulle tematiche del lavoro, le terapie individuali, i colloqui con le famiglie, affiancati dalle molteplici attività di integrazione con il contesto.
Più nello specifico quali sono le attività e i servizi che erogate?
A proposito delle attività d’integrazione con il contesto, ogni Centro Diurno è caratterizzato da attività risocializzanti diversificate e strettamente collegate alla rete territoriale di riferimento. Alcuni di questi sono il Centro Diurno Cassino con Associazione Dike e Cooperativa Autentica progetti di integrazione culturale; il Centro Diurno Ceccano attività di montagnaterapia in collaborazione con il CAI, progetto psico-riabilitativo in collaborazione con l’Associazione di Nordic Walking e i progetti di risocializzazione con l’associazione Familiari Ver.Bene; il Centro Diurno Ferentino per attività risocializzanti e di ortoterapia con le Associazione di Familiari Arcobaleno, Associazione Comitato di Quartiere e Cantiere Salute; il Centro Diurno di Isola attività risocializzante di Danzaterapia a cura dell’Associazione il Glicine e il Centro Diurno Frosinone per il gioco delle bocce. A questi si aggiunge la gestione del blog a cura dei tirocinanti, dell’Associazione di Familiari Ver.Bene e dell’Associazione Oltre L’Occidente.
Le attività organizzate con questa rete di associazioni sono molto importanti per noi perché è fondamentale che anche le persone “esterne” riescano a comprendere e conoscere ciò che facciamo. Nella rete di riferimento di Frosinone c’è anche Aconcagua l’Associazione Utenti, impegnata a contrastare lo stigma e a far conoscere le attività laboratoriali che portiamo avanti. È in preparazione la pubblicazione di un libro con le ricette realizzate qui all’interno del Centro Diurno, in cui vengono riportati sia i nomi particolari con cui sono stati rinominati i piatti, sia gli aspetti più divertenti legati alla reinterpretazione delle ricette. Portiamo avanti anche un laboratorio di alfabetizzazione digitale, gestito soprattutto dai tirocinanti psicologi.
Tra i progetti della UOS anche quelli riguardanti l’inserimento pre-lavorativo in convezione con il consorzio di cooperative sociali Parsifal. Alcuni dei nostri utenti hanno iniziato a lavorare presso la piscina e il cimitero di Alatri. Probabilmente quest’anno riusciremo a far partire anche un progetto di borsa-lavoro con l’asilo comunale di Frosinone. Altre due persone invece hanno partecipato al servizio civile. Il problema però è dare continuità a questi progetti. Ovviamente, durante questo periodo di forti restrizioni a causa del Covid-19, abbiamo usufruito tantissimo dell’online, soprattutto durante il primo lockdown e non abbiamo mai lasciato da sole tutte le persone che frequentano i vari Centri Diurni, favorendo sempre l’accesso al servizio.
Daniele Riggi: quest’anno insieme ai ragazzi del centro diurno abbiamo cercato di riavviare il nostro blog, partito già prima della diffusione del Covid-19. Un’associazione del territorio si era anche resa disponibile a fornire uno spazio, dove i ragazzi avrebbero potuto lavorare per tenerlo aggiornato. Purtroppo la pandemia ha bloccato tutto e quindi, insieme alla mia collega Martina, abbiamo deciso di farlo ripartire. Il blog rappresenta sia la memoria delle attività del Centro Diurno, sia un’occasione di stimolo e riflessione sulle attività del presente. Il senso è quello di creare un collegamento con la rete di blog nazionali, curata da Expo Salute Mentale, uscendo dalla sola realtà territoriale locale. L’obiettivo è appunto quello di incontrare le realtà dei Centri Diurni collocati su tutto il territorio nazionale, dando modo agli utenti di riflettere su quelli che sono i temi più importanti della salute mentale, come la residenzialità o l’integrazione sociale attraverso il lavoro. Durante il lockdown abbiamo fatto da supporto all’interazione online tra gli utenti e il centro, sia dal punto di vista tecnico che clinico. Adesso che una parte delle attività in presenza è ripartita, seguiamo il gruppo di discussione del venerdì. Personalmente, anche tramite le attività del Terzo Settore, ho avuto il privilegio di curare i rapporti del Centro Diurno con l’esterno, con il territorio e la comunità.
Martina Giovannone: per quanto riguarda il laboratorio concernente il blog ci tengo a dire che gli utenti hanno accolto questa attività con un certo entusiasmo. Serve anche a offrire una certa continuità con il periodo pre-covid. Già dalla prima riunione è scaturita molta partecipazione: tutti hanno portato nel gruppo le loro idee e il loro contributo personale e sulla base di questo abbiamo suddiviso i ruoli. Alcuni di loro sono arrivati in riunione preparati con delle iniziative da proporre già scritte. Noi siamo solo di supporto in realtà.
Daniele Riggi e Martina Giovannone. Fotografia di Francesco Formica
Lo stigma sulla malattia mentale quanto condiziona il vostro lavoro?
Patrizia Monti: Lo stigma si evince già dal nostro isolamento rispetto al contesto sociale, dalla fatica che facciamo nel trovare per i nostri utenti un inserimento lavorativo oppure nel realizzare attività risocializzanti insieme alla comunità, senza una nostra implicazione diretta. Se dobbiamo costantemente farci mediatori per qualsiasi attività con l’esterno, allora questo è già il primo segnale di rifiuto da parte del territorio. È in atto una sorta di reflusso culturale, in cui tutte le fragilità vengono stigmatizzate. Tutto ciò che è diverso è come se non potesse più avere voce in capitolo in questa società. Siamo cittadini poco impegnati nel promuovere un contesto culturale capace di generare accoglienza anziché isolamento o distanziamento. L’esperienza che ci ha accomunati tutti in questo ultimo anno di distanziamento fisico ci ha catapultati tutti, per così dire, nel mondo “relazionale dei nostri utenti” e forse per questo hanno retto meglio di tutti gli altri il distanziamento fisico e sociale perché per loro è una realtà quotidiana pre-pandemica.
Nel 1978 ho fatto il mio tirocinio pre-laurea al manicomio Leonardo Bianchi di Napoli, ho ultimato la mia formazione a cavallo della riforma 180 che chiudeva i manicomi. Nel reparto del Bianchi, in cui svolgevo il tirocinio, gli psichiatri dicevano che Basaglia era un pazzo, questo per dire che ho cominciato a muovere i primi passi all’interno di un panorama in cui la componente manicomiale era ancora molto presente. La riforma Basaglia in quegli anni divideva il mondo della psichiatria ed è così tuttora.
Oltre a questo, la regionalizzazione della Sanità e i tagli degli ultimi dieci anni aggiungono un ulteriore problema, quello delle criticità specifiche per ogni luogo: in altri termini abbiamo costruito 20 sistemi Sanitari Regionali. Il problema dunque è anche politico. La pandemia ha fatto emergere la necessità di ripensare all’assistenza in termini di servizi di prossimità (alla casa, alla vita dell’utenza).
Considerando tutti i servizi dislocati sul territorio si è arrivati realmente alla de-istituzione della salute mentale?
Patrizia Monti: No. Un servizio pubblico, senza risorse umane né finanziarie, non può gestire il problema della salute mentale. Le condizioni in cui lavoriamo dopo tutti i tagli di cui parlavamo, creano, di fatto, istituzionalizzazione. Senza la possibilità di costruire un servizio integrato con l’esterno, il sistema non riesce a far uscire l’utente dal circuito dei servizi e dunque crea istituzionalizzazione. La competenza – anche dell’operatore più illuminato – arriva fino ad un certo punto, poi serve il passaggio alla competenza della comunità di riferimento. Dobbiamo modificare il paradigma culturale: la salute è un bene comune e non individuale.
Cristina Papitto: Siamo fermi alla fase di sperimentazione, manca l’intero processo di sistematizzazione. Potremmo raccontare esperienze ventennali di percorsi che abbiamo sperimentato, tra questi il servizio civile, ma che non siamo riusciti a mettere a sistema proprio perché l’ente istituzionale è rimasto radicato ai vecchi percorsi. Il corso di formazione che abbiamo organizzato non era soltanto un corso di formazione, ma anche di informazione, perché hanno partecipato tanti operatori della Asl. Lo scopo era anche quello di informarli dell’esistenza di percorsi alternativi, portando come casi di esempio le esperienze di altri territori. Se la sensibilizzazione si rivolge prima di tutto agli operatori che lavorano all’interno dell’istituzione, allora forse il cambiamento ha più probabilità di essere innescato.
Cristina Papitto. Fotografia di Francesco Formica
Patrizia Monti: Questa non vuole certo essere una dichiarazione di resa, al contrario. Siamo molto determinati. Tra le proposte che abbiamo cercato di attivare, il laboratorio di sartoria è stato molto partecipato ma poi non ha avuto un seguito. Partendo dalla realizzazione di cravatte, il laboratorio si è esteso alla produzione di borse e collane. Ritenevamo che il progetto avesse le potenzialità per diventare un laboratorio territoriale, una sartoria sociale, dove poter impegnare gli utenti che avevano preso parte al corso, ma invece, una volta esaurito il finanziamento, né il comune né i volontari che avevano aderito, né gli utenti stessi hanno voluto investirci. Sicuramente la patologia determina degli atteggiamenti di chiusura e di resa davanti alla difficoltà, dall’altra parte inoltre c’è una società sempre più individualista, mi ripeto dobbiamo cambiare paradigma e pensare che creare un contesto accogliente significa poterne usufruire personalmente un domani. Il destino umano implica l’esaurirsi nella fragilità e nella richiesta di accudimento: lavorare per una comunità inclusiva significa lavorare per il proprio futuro.
Quindi non è un problema riconducibile esclusivamente all’istituzionalizzazione, ma anche alla cultura e all’educazione sociale.
Patrizia Monti: Sì, il Dipartimento di Salute Mentale ha una sua rete sociale di riferimento, ma è necessario progettare e cogestire i progetti nel rispetto e riconoscimento delle competenze di ciascuno compreso le competenze dell’utente finale.
Quali sono le figure professionali presenti nel Centro Diurno?
Patrizia Monti: Io sono la Responsabile e sono una psicologa, poi qui lavorano due infermieri e un assistente sociale a fascia oraria. Negli altri Centri Diurni della UOS sono presenti anche un educatore professionale, altri quattro psicologi e 1 Tecnico della Riabilitazione. Siamo in attesa di altri tecnici della riabilitazione. Siamo anche molto determinati a contribuire al cambiamento con l’istituzione del tavolo di Coprogettazione per l’adozione del BdS (budget di salute), strumento che dovrebbe consentirci di ricomporre la frammentazione degli interventi e dei sostegni economici.
Vorremmo sapere da Marco, se è d’accordo, come vive questa struttura e quali sono le attività nelle quali è inserito.
Marco: Mi trovo molto bene, le attività sono molte, facciamo delle gite all’esterno, che però ora sono ferme a causa del covid. Ho disegnato anche il logo dell’Associazione Utenti con il computer. Quando vengo qui parlo con gli altri e sono stato contento di aver potuto continuare a farlo online in questo periodo. All’inizio mi rifiutavo perché avevo paura che mi rubassero i dati personali, ma ora sono felice di aver ceduto. È passata questa paura.
Marco. Fotografia di Francesco Formica
Di cosa si occupa e come nasce l’Associazione Utenti?
Cristina Papitto: È nata qualche anno fa, la stiamo riprendendo in mano seguendo chi si occupa dell’adeguamento dello Statuto per il Terzo Settore. Dietro l’Associazione si è sviluppato un forte coinvolgimento volontario a partire già dalla fase della gestione inziale, segue l’idea originaria di fare del Centro Diurno un centro sociale, in cui il protagonismo degli utenti è prioritario. Lavoriamo non per l’utenza, ma con l’utenza e la differenza si nota: se l’azione è condivisa a monte con l’utente stesso si ottengono altri risultati. L’utenza non è mai esclusa delle decisioni. Le persone del Centro Diurno passano molto spesso al centro per i servizi: aiutiamo le persone a fare domande per concorsi, a compilare domande di lavoro, ma anche a sistemare i loro computer. Condividiamo tutti l’idea comune di doverci riappropriare della salute mentale come bene comune. Nel progetto con Cassino, il territorio è stato centrale, tanto che è subito nato un Comitato per la Salute Mentale – costituito sia da associazioni di familiari che da associazioni che fanno loro da supporto, e da funzionari interni alla Asl – con l’intento di informare il territorio circa i termini più importanti riguardanti la salute mentale. Siamo scesi sul territorio per parlare di salute mentale: abbiamo occupato le biblioteche e i centri diurni stessi, le piazze. Per cercare di informare. Questo è il nodo centrale per smantellare la paura della diversità. Abbiamo iniziato vent’anni fa scendendo in piazza per informare e la nostra attività informativa è proseguita nel tempo, fino ad oggi.
Patrizia Monti: Tutto questo però è ancora troppo privato. Siamo un servizio pubblico che però rimane privato rispetto alle azioni laboratoriali, che non sono conosciute e non solo dalla comunità ma dal sistema sanitario stesso. Il sistema di Salute Mentale non è mai diventato un sistema riconosciuto per le sue pratiche, per il successo terapeutico del nostro approccio. Era impensabile che un paziente con diagnosi di schizofrenia fosse seduto in una sala insieme ad altre persone per discutere su tematiche di vario genere. La Psichiatria è la cenerentola della Medicina, la riabilitazione psichiatrica è la cenerentola della cenerentola. Abbiamo sempre saputo che i servizi poveri producono cronicità e questo ci ha spinti a riempiere i servizi anche di persone estranee e non appartenenti al servizio stesso. Nel tempo questo approccio ci ha ripagata in termini di consapevolezza dell’utenza. I Progetti Terapeutici Riabilitativo Individuali (PTRI) – che vorremmo attuare – servono per coinvolgere le Associazioni e farle diventare co-gestori dei vari ambiti di intervento: noi sanitari trattiamo la parte di nostra competenza, mentre gli altri gestiranno i percorsi di integrazione. Tutto ciò sostenuto da uno strumento finanziario importante, che è il budget di salute: una cifra assegnata ad ogni utente e che varia in base al tipo di assistenza necessaria: dai progetti ad alta intensità sanitaria a quelli a bassa intensità sanitaria. Marco, ad esempio, attraverso i tutorial ha imparato a realizzare delle statue. Una cosa del genere, se inserita in un laboratorio che coinvolge il territorio, ha delle potenzialità terapeutiche maggiori: dare senso alle proprie emozioni attraverso un’attività artistica riconosciuta non soltanto dall’operatore sanitario ma da tutti gli altri. Con il loro riconoscimento e con il loro dare senso alla sua statua gli consentirebbero di andare avanti e questo tipo di risultato non ha eguali. Se riusciamo a fare questo, ed io sono convinta che ci riusciremo a farlo con il Tavolo di Coprogettazione, saremo una comunità che crea salute.