Crescenzo è da sedici mesi nella comunità Exodus di Cassino. Ha 33 anni ed è in quella fase del percorso che prepara al reinserimento lavorativo. Intanto si occupa della manutenzione all’interno della comunità e svolge lavori di giardinaggio all’esterno. Pur non essendo stato avvertito preventivamente della nostra presenza, si è liberato dalle sue attività di lavoro quotidiane per sedersi con noi e raccontarci, in maniera molto accogliente, qualcosa che certamente non era tenuto a fare: frammenti della sua storia, il prima e il durante della sua permanenza in comunità.
Si presenta subito da solo, dicendoci che è lì «per finire di scontare la pena», che appena arrivato ha apprezzato il posto e le persone, ma che comunque il periodo iniziale è stato complicato da gestire. «All’inizio mi sono trovato comunque male perché venivo da 18 mesi di carcere, durante i quali ero sempre stato chiuso dentro una cella e quindi ho fatto fatica a riaprirmi e a rimettermi in discussione un’altra volta. Anche perché provengo già da una ricaduta».
Comunità Exodus Cassino. Fotografia di Francesco Formica
Per iniziare a raccontarci la sua esperienza nella comunità, parte dal cuore del problema: «per non rimanere schiavo dei pensieri negativi, mi sono buttato subito sul lavoro pratico, mi sono messo in gioco. Avevo bisogno di essere sempre impegnato e di non avere continuamente quei pensieri negativi che mi mangiavano, a partire dal carcere e dal vissuto che mi ha portato lì, fino alla ricaduta. In questo mi hanno aiutato moltissimo gli incontri settimanali con lo psicologo, il mental coach e gli educatori. È tutta una questione di allenamento, che piano piano ti rende capace di spostare i pensieri negativi su qualcosa di positivo, che può essere anche una cosa stupida. Sono riuscito ad organizzarmi rispetto allo svolgimento della giornata: mi sveglio la mattina alle 6 e faccio attività fisica, lavoro, trovo il tempo per rilassarmi, leggere, vedere qualche serie tv o film. Pian piano mi sono rimesso in contatto anche con la mia famiglia, cercando di ricostruire il rapporto».
Sei riuscito a spostare i pensieri negativi? A renderli un po’ più positivi?
Sì, ovviamente i pensieri negativi ci sono ancora, ma a distanza di tempo sono diversi. Ti faccio un esempio: ho avuto una compagna con la quale ho fatto un figlio, Francesco, a cui non sono mai stato vicino. Non potevo permettermi di farlo perché, non stando bene io, non sarei mai riuscito a far stare bene lui. Ora invece, piano piano, con l’intervento degli assistenti sociali sto cercando di instaurare un rapporto, ma non è semplice perché per lui io non sono nessuno.
Mi sto dando degli obiettivi. Entrare in comunità non basta, mi sono detto che dovevo rimettermi in piedi, dovevo stare bene io, altrimenti non sarebbero mai state bene le persone intorno a me. Sono partito da questo. La mia famiglia mi è rimasta vicino, anche mentre ero in carcere, nonostante tutti i casini che ho fatto. Tuttora mia madre ha paura, ha bisogno di vedere un vero cambiamento in me. Un altro obiettivo è riprendere la patente e lavorare. Un piccolo lavoro l’ho già trovato in un’azienda che si occupa di cartongesso e pittura. Man mano vado avanti, un passo alla volta. Si fa fatica tutti i giorni.
Non posso dirti che non penso alla sostanza, perché mentirei a me stesso. Ogni tanto ci penso, ma mi fermo, come se avessi un campanello di allarme. È la paura di perdere tutto un’altra volta, perché, ripeto, giorno dopo giorno si fa veramente tanta fatica per ricostruire tutto. Ovviamente adesso sto raccogliendo quello che ho seminato e non mi accontento.
Hai avuto altre esperienze in comunità?
Vengo da altri due percorsi precedenti. Nel primo, me ne sono andato dopo sei mesi e infatti dopo poco tempo sono ricaduto. Dopo un anno, ho provato a rientrare in comunità un’altra volta e sono rimasto lì per un anno e mezzo, dopo il quale per quasi due anni non ho toccato né alcol, né la sostanza.
Comunità Exodus Cassino. Fotografia di Francesco Formica
Avevo tutto, però alcune situazioni negative intorno a me mi hanno riportato di nuovo a cadere. Stavo scappando, un’altra volta ancora, da me stesso. Sapevo che stavo scappando da me stesso, ma mi è piaciuto farlo. Oggi, però, non scappo e affronto quello che c’è da affrontare.
Cosa hai trovato di diverso in questa comunità?
Più che altro ero veramente stufo della vita che facevo, stavo sempre per strada. Il carcere penso mi abbia salvato e per questo ringrazio mia madre perché è stata lei a farmi arrestare. Oggi la capisco e la ringrazio, perché da solo non ce la facevo più. Ho provato a chiedere aiuto anche al S.E.R.D., ma lì ci sono dei tempi e io non mi potevo permettere di aspettare. La strada più facile era quella di attaccarmi alla bottiglia di alcol o alla sostanza, passavo le giornate in questo modo. Ero arrivato al punto dei ricoveri all’ospedale psichiatrico, ero arrivato all’esasperazione. O morivo o mi ammazzavo.
Qui ti senti più sicuro?
In parte sì, ma il precedente percorso in comunità di tredici mesi mi ha fatto sentire troppo sicuro e la troppa sicurezza mi ha fregato: sono andato in sfida con la sostanza, con l’alcool, con le persone. E questa cosa non va bene. L’ho capito adesso.
In carcere come venivi seguito?
Ero seguito dalla mia famiglia e dal S.E.R.D. di Frosinone. La prima lettera a mia madre l’ho scritta dopo tre mesi perché non riuscivo a perdonarmi tutte le cose che ho fatto a casa. Dopo la prima lettera, mi sono sentito un po’ più leggero. Non avevo colloqui, né telefonate, potevo parlare solo con il mio avvocato. Sentivo tramite lettera mia madre ogni quindici giorni o un mese. E poi ero assistito dallo psicologo e dall’assistente sociale del S.E.R.D.
Prima parlavi della fatica che fai ogni giorno. Immagino ci siano fasi più difficili e critiche e fasi invece più facili da attraversare.
Sì, sono diventato anche molto più severo con me stesso. Se mi capita di sbagliare me la prendo molto con me stesso, ma fortunatamente adesso riesco subito a parlarne. Non voglio più le risposte comode, vado a cercare sempre la risposta giusta, anche se è la più scomoda, perché ne ho bisogno per lavorarci sopra. Vorrei che le persone che si rivedono in questa mia esperienza non arrivino a toccare il fondo e, se invece lo hanno toccato, spero che abbiano qualcuno che possa aiutarli, soprattutto i più giovani.