Durante la nostra visita alla Comunità Exodus abbiamo avuto modo di confrontarci con il responsabile, Luigi Maccaro, in merito al funzionamento della struttura e alla percezione della tossicodipendenza da parte della società. Prima di incontrarlo abbiamo conosciuto Silvia Scafa, referente delle attività di Unità di strada, la quale ci ha raccontato il lavoro svolto a stretto contatto con gli adolescenti.
«Il compito dell’Unità di strada è fare riduzione del rischio – proponendo l’alcol test gratuito, ad esempio – e informazione. Per raggiungere i ragazzi proviamo ad arrivare su strada e nelle scuole, dove ci occupiamo di prevenzione. Attualmente siamo in giro con la campagna “Sei tanto sicuro?”, la risposta alle informazioni provocatorie degli adolescenti convinti di poter interrompere l’uso di sostanze quando vogliono. La campagna viene promossa attraverso la carovana della prevenzione: andiamo in giro tra i comuni concordando conferenze stampa e presentazioni dei progetti, inoltre proviamo a creare rete sul territorio non soltanto insieme ai servizi ma anche con le associazioni culturali, sportive e artistiche.
Venerdì scorso, a piazza Labriola, sono riuscita a convincere un gruppo di ragazzi a creare un evento da portare in piazza: hanno proposto di posizionare al centro degli strumenti musicali e chiunque lo voglia, passando di lì, può suonarli. Devo dire che non ci scontriamo poi tanto con la diffidenza, quando ci avviciniamo agli adolescenti loro stanno al gioco, che poi si trasforma in qualcosa di serio. Probabilmente sono meno propositivi rispetto alla nostra generazione, ma quando ci poniamo in ascolto smettono di sentirsi giudicati».
Come nasce questa Comunità e come è strutturata?
Questa Comunità è una delle sedi della Fondazione Exodus, che nasce come progetto all’interno dell’Opera Don Calabria, una congregazione con sede a Verona e di cui fa parte Don Antonio Mazzi. Nel 1984 Don Antonio si occupava di un centro di formazione professionale per ragazzi disabili in prossimità del parco Lambro – a quel tempo il più grande luogo di spaccio a Milano – e a partire da qui è nata l’idea di accogliere ragazzi con problemi di tossicodipendenza proponendo esperienze itineranti mediante il progetto delle carovane. Durante i primi anni venivano accolti all’interno di una cascina nel parco Lambro ragazzi tossicodipendenti per una fase di disintossicazione che durava tre mesi. Da lì partivano per esperienze itineranti in Italia e in Europa fino a nove mesi o un anno.
All’epoca in Italia la tossicodipendenza era un problema di ordine pubblico. Don Antonio con il suo progetto suggeriva esperienze interessanti, in modo tale che le persone decidessero di far riemergere la parte buona di sé. Una di queste carovane, risalendo dalla Puglia, ha chiesto ospitalità all’abbazia di Montecassino. L’abate del tempo, allora, ha incitato gli operatori a fermarsi per un periodo più lungo dato che all’epoca – nel 1989 – il problema della droga era sentito in maniera diversa, c’erano morti per overdose o per Aids e Cassino non era immune. Dopodiché è stata messa a disposizione questa struttura, che era una casa colonica abbandonata, ed è iniziata l’avventura. Nel frattempo sono cambiate le leggi. Con la 109/1990 sono stati istituiti i S.E.R.D, dunque la cura è passata a strutture con requisiti specifici e personale dedicato. Dalle carovane in varie parti d’Italia sono nate delle comunità residenziali, oggi se ne contano circa venti.
Come si è trasformata negli anni la Comunità Exodus?
All’inizio della nostra attività gli abitanti del vicinato nutrivano delle preoccupazioni, nei primi dieci anni abbiamo lavorato per formalizzare la presenza della struttura e impostare il programma di riabilitazione. Nel 2000 sono diventato responsabile e ha preso avvio il dialogo con la Asl, i comuni del territorio e le scuole al fine di attivare progetti di prevenzione: peer education, formazione insegnanti, sportelli di ascolto. Alla riabilitazione si è aggiunta la prevenzione. Abbiamo poi dato vita a una Cooperativa sociale per occuparci del reinserimento lavorativo delle persone che terminano il programma, alle quali proponiamo un periodo di lavoro di sei mesi.
Ora abbiamo superato il terzo decennio e dal 2010 è stato avviato un percorso di trasformazione della cascina con l’obiettivo di creare un Centro di aggregazione giovanile. Insomma, una bella rivincita rispetto ai timori iniziali, ma soprattutto un consolidamento del rapporto tra comunità e territorio. Questa città ci ospita da trent’anni, noi ci mettiamo a disposizione dei bisogni ai quali possiamo dare una risposta, come il gruppo di auto aiuto rivolto alle persone che sperimentano una dipendenza da gioco d’azzardo.
Abbiamo creato un Centro diurno per minori, ancora in via sperimentale perché aperto solo da un anno, come risposta intermedia che i comuni possono dare ai minori inseriti in nuclei familiari difficili per i quali si può evitare il collocamento in casa famiglia lavorando al supporto della genitorialità. La nostra ultima follia tre anni fa, abbiamo presentato una lista alle elezioni comunali per esaltare il rapporto tra la comunità e il territorio. Tutti eravamo alla prima esperienza politica e avevamo il desiderio di mettere a disposizione della comunità un bagaglio di esperienza e competenze: ora abbiamo due consiglieri comunali e io sono assessore ai Servizi Sociali.
In questo trentennio di attività avete notato un cambiamento di percezione di fronte al problema della tossicodipendenza?
L’unica costante è l’indifferenza. Trent’anni fa c’erano morti per overdose e Aids, ma i più pensavano che il problema non li riguardasse. Negli anni Novanta sono arrivate le droghe sintetiche e hanno cominciato ad avvicinarvisi non solo le persone che vivevano in quartieri difficili ma anche altri, perché queste sostanze – come l’ecstasy ad esempio – potevano essere utilizzate per il divertimento. Negli ultimi dieci anni, poi, il prezzo della cocaina è crollato e nel frattempo la tossicodipendenza ha raggiunto tutte le classi sociali.
Oggi gli adulti e le istituzioni non si rendono conto della gravità del problema. Il 30% degli studenti italiani ha fatto uso di droghe e, a partire dai risultati di alcune ricerche, sappiamo che molti ragazzi con disturbo ADHD – o con altre forme di disagio non diagnosticate – trovano nelle sostanze una sorta di auto medicamento. La società è intrisa di rapporto con le sostanze, non più figlie di una condizione di disagio ma condimento della vita.
Il tema vero, a mio parere, non è tanto la cura delle persone tossicodipendenti quanto la cura di una società fondata sull’egoismo: non ci si accorge che se i nostri figli dovessero incontrare esperienze di devianza la causa sarebbe in parte attribuibile ai loro errori, ma in larga parte al fatto che non viene offerto molto altro a coloro che non hanno ancora una strada ben segnata. Noi ci prendiamo cura delle persone fragili, l’obiettivo però è quello di prenderci cura di una società dipendente dal possesso. Ci proponiamo al territorio come punto di riferimento per la cura dei ragazzi.
Nella fase del reinserimento si riscontra l’assenza di pregiudizio?
Devo dire che anni fa era decisamente più forte. Oggi arrivano ragazzi molto giovani che fanno uso di sostanze meno impattanti sul fisico, quindi il pregiudizio è minore. C’è anche più fiducia nei confronti della comunità. Il problema vero è che manca il lavoro: prima i ragazzi che accoglievamo avevano avuto modo di fare delle esperienze lavorative, oggi non ne hanno.
Poco tempo fa l’uscita della docu-serie SanPa ha portato l’opinione pubblica a discutere nuovamente di tossicodipendenza e contenzione. Come è cambiato negli anni l’approccio alla cura?
Quella di San Patrignano è stata un’esperienza molto particolare, penso – e spero – unica. Il programma di riabilitazione non può che essere fondato sulla libera scelta della persona. La metà dei nostri utenti si trova in misura alternativa alla detenzione, in ogni caso sono liberi di scegliere se restare: il cancello è chiuso ma resta sempre aperto e i ragazzi devono decidere ogni giorno di portare avanti il loro impegno. Un lavoro educativo senza la libera adesione al programma sarebbe impossibile.
È vero che all’inizio molti arrivano qui per far contenti i genitori o per trovare accoglienza, successivamente bisogna lavorare sulla motivazione. A tal proposito abbiamo introdotto da qualche anno l’orientamento motivazionale con un coach che organizza sia incontri di gruppo sia individuali per far sì che la motivazione cresca. Almeno la metà degli abbandoni precoci del programma avvengono nell’arco dei primi tre mesi, dunque è importante sostenere i ragazzi affinché superino quella soglia. C’è bisogno di un lavoro che vada in profondità e consenta alle persone di capire quali sono le ragioni per cui si è intrapreso un certo tipo di percorso e che cosa va ricostruito in termini di personalità e capacità relazionali per evitare di ricadere negli stessi errori. L’approccio pedagogico, terapeutico e motivazionale lavorano insieme.
Concentriamoci su due momenti: l’arrivo in comunità e la fine del percorso. Chi si occupa di proporre l’ingresso? E poi, una volta terminato il programma continuate a seguire i ragazzi?
In questi anni la richiesta arriva dal carcere nel 50% dei casi. Ci occupiamo di chiamare in causa il S.E.R.D di appartenenza in base alla residenza oppure quello interno alle strutture detentive, che avvia il percorso di preparazione: colloqui con assistenti sociali e psicologi, ad esempio. Anche noi svolgiamo dei colloqui conoscitivi in carcere e, completata la fase di preparazione, diamo disponibilità all’avvocato che, successivamente, si rivolge al giudice per la concessione della misura alternativa. Le richieste arrivano anche da parte delle famiglie, le quali vengono indirizzate sempre al S.E.R.D perché nel loro programma si prevede, tra le altre cose, l’ingresso in comunità. Per troppo tempo queste due realtà sono state viste come separate e qualche volta anche alternative, ma la co-progettazione del programma di riabilitazione con gli operatori del S.E.R.D è fondamentale.
Al termine del programma le persone tornano a casa, ma continuano ad essere seguite dal S.E.R.D dove riprende il programma ambulatoriale. Chi porta a conclusione il percorso torna spesso a trovarci, qualcuno continua a partecipare agli eventi di gruppo o ai colloqui con lo psicologo.
Quali sono le attività proposte dalla vostra comunità?
Nel quotidiano i ragazzi portano avanti le attività connesse alla gestione della casa, inoltre ci sono le attività educative fatte di colloqui con gli operatori per l’aggiornamento del progetto educativo personale oppure sport, teatro, volontariato. Proponiamo, poi, le attività terapeutiche come i gruppi con lo psicoterapeuta e il coaching motivazionale. Una volta al mese si organizza un’uscita che consenta ai ragazzi di stare a contatto con l’esterno: per noi è sempre stato importante evitare il più possibile la reclusione.