Il percorso terapeutico si nutre di parole che viaggiano alla ricerca di significati nascosti, ma a volte ci si confronta con l’indicibile. E allora quel che resta è l’opportunità di rivolgersi a ciò che è manifesto: il corpo, che è strumento e messaggio.
Con Alessandra Moreschini, psicoterapeuta sistemico-relazionale, abbiamo parlato di corpo e DCA nella pratica clinica. Nel corso del nostro incontro abbiamo riflettuto intorno all’influenza che le dinamiche sociali e gli stereotipi possono avere sulla percezione del corpo, soffermandoci sull’importanza di ricostruire la storia della persona a partire dal sintomo e individuando la necessità di creare una rete solida nel processo di guarigione affinché l’immagine di sé percepita e quella visibile vengano ricomposte.
A cosa ci riferiamo quando parliamo di disturbi del comportamento alimentare?
I DCA sono descritti nel nostro manuale diagnostico come dei disturbi che riguardano nello specifico le condotte alimentari, più in particolare il DSM-5 individua sei classi diagnostiche: Pica, disturbo della ruminazione, evitante/restrittivo, anoressia nervosa, bulimia nervosa e binge eating disorder, ossia un disturbo del comportamento alimentare caratterizzato da un’alimentazione incontrollata senza le condotte di compenso. Per ciascuno di questi disturbi, poi, viene classificata anche la frequenza con cui i sintomi dovrebbero manifestarsi affinché si possa fare diagnosi di DCA.
Quanto contano le dinamiche sociali, ad esempio il modo in cui maschi e femmine vengono socializzati, nell’esperienza percettiva del proprio corpo ed eventualmente nella manifestazione del disturbo?
Sebbene questi disturbi riguardino sia il genere femminile sia quello maschile, le manifestazioni possono essere diverse: cambia il tipo di relazione con il corpo, ma anche con la percezione.
Per quanto riguarda il genere maschile spesso si fa riferimento all’anoressia nervosa inversa perché, anziché avere il timore di essere in sovrappeso, la paura è di non risultare abbastanza visibili sul piano della consistenza muscolare e questo porta a potenziare il corpo attraverso l’esercizio fisico.
Nelle pazienti con disturbo del comportamento alimentare che soffrono di anoressia nervosa la caratteristica che ritrovo è la difficoltà a percepire il proprio corpo per quello che realmente è. Si crea una sorta di discrepanza tra l’immagine che la persona ha di sé e quella reale, che genera un malessere molto forte in coloro che la sperimentano ma che in qualche modo origina da questo stesso malessere.
Immagino che la percezione del corpo per chi soffre di un disturbo del comportamento alimentare sia estremamente soggettiva. Puoi restiruirci in minima parte il vissuto emotivo delle persone che hai avuto modo di incontrare?
Ad emergere frequentemente è quello che viene definito come dismorfismo corporeo: un’alterazione della percezione del proprio corpo, ma anche un rifiuto per il corpo in generale e per parti di sé che vengono vissute come deformi, cosa che spesso esprime al di fuori un conflitto emotivo interno. C’è qualcosa che prima viene rifiutato internamente e poi esternamente, è una non accettazione che passa attraverso il corpo ma forse non parte dal corpo, arriva al corpo.
Alessandra Moreschini. Fotografia di Martina Lambazzi
Io inizio sempre da ciò che si manifesta per intraprendere un viaggio insieme alla persona alla ricerca di significati e disturbi emozionali, nel tentativo di conoscere la storia della persona e la storia del sintomo affinché diventi visibile il tipo di reazione che il corpo da quel momento in poi ha strutturato.
Viviamo in una società che ha interiorizzato pregiudizi grassofobici. Hai notato questa tendenza alla marginalizzazione verso alcuni tipi di corpi nel corso della tua pratica clinica?
È il peso dello stigma che noto a tanti livelli e penso che dipenda molto dal prototipo di bellezza al quale siamo esposti e che subiamo. In realtà il lavoro terapeutico passa proprio attraverso la possibilità di uscire fuori dall’equazione “bellezza uguale magrezza” per riscoprire che la bellezza ha il sapore di una dimensione soggettiva.
Forse proprio quando arriviamo a questo punto di approdo, al di là degli standard e dei prototipi proposti dalla pubblicità o dalla società, giungiamo al livello più alto di libertà che ci permette non di accettare, ma di vivere pienamente il nostro corpo oltre qualsiasi forma di pregiudizio o precondizionamento.
È corretto parlare di disturbo del comportamento alimentare laddove non si esperisce un rapporto sano con l’alimentazione?
In effetti si tratta di una dimensione ampia e se usciamo dall’ottica della diagnosi, per la quale sono importanti i criteri di frequenza dei sintomi, anche un comportamento alimentare che non contraddistingue il disturbo vero e proprio può essere espressione di una sorta di deformazione di quello stesso comportamento.
In fondo nell’alimentazione c’è scritto tanto: un comportamento alimentare può essere la risposta a determinate manifestazioni emotive tutte le volte che raggiunge la caratteristica di un’abbuffata o le volte in cui, per effetto di determinati stati interni o esterni, tendiamo a restringerlo. Queste componenti interne ed esterne lo contraddistinguono come manifestazione e non come disturbo, o come DCA, o come la letteratura e i sistemi di classificazione lo identificano.
Ci sono stati momenti storici in cui hai notato un incremento di questi disturbi? E quanto hanno influito i fattori esterni? Mi viene in mente l’esplosione di Instagram, il social delle immagini, o l’ultimo anno di pandemia che certamente ci ha portato a esperire un rapporto diverso con l’alimentazione e con il corpo.
Ripercorrendo questo anno di emergenza la cosa che ho notato, evidenziata anche dalla letteratura, è un aumento delle manifestazioni di disturbo del comportamento alimentare: la pandemia ha portato con sé l’accrescimento significativo delle angosce, delle paure, anche dell’incertezza. E che questi stati spesso siano alla base di una trasformazione delle abitudini alimentari è cosa già nota.
Bisogna darsi la possibilità di riconoscere quella fame come una fame che risponde a degli stati emotivi. A partire dal fatto che abbiamo vissuto chiusi in degli spazi ristretti con delle regole che ci hanno impedito di vivere la vita di sempre e la nostra quotidianità, questo incremento è stato significativo sia come risposta alle emozioni sia come risposta a uno stile di vita tanto diverso da quello al quale eravamo abituati.
Alessandra Moreschini. Fotografia di Martina Lambazzi
Sicuramente anche il boom di Instagram ci ha reso ancora più esposti a delle immagini, a degli standard, a degli ideali di bellezza che ci spingono a interiorizzare quel prototipo alla base dell’insoddisfazione percepita in relazione al nostro corpo e che a sua volta incide sulle dinamiche e le abitudini alimentari. È come se si creasse un effetto domino che a cascata porta con sé una serie di elementi.
Quali sono gli elementi del trattamento psicoterapeutico nei disturbi del comportamento alimentare e quindi come si fa a ricostruire un rapporto sano con il proprio corpo?
Penso che la risposta sia nella rete, nel lavoro multidisciplinare che coinvolge diversi professionisti: dal nutrizionista allo psicologo allo specialista, fino ad arrivare a tutta la rete della persona che vive con il disturbo del comportamento alimentare. La presa in carico globale, ci dice la letteratura ma è confermato anche dalla nostra esperienza pratica e clinica, è la forma di supporto più efficace.
Io credo che l’approccio sistemico-relazionale, quello che per formazione ho scelto, permetta di abbracciare tutti questi elementi e livelli in una interazione tra di loro. Il lavoro di terapia è prezioso perché consente alla persona di scoprirsi e ricostruirsi nel processo di accettazione non solo del corpo, ma anche delle emozioni di cui il corpo è contenitore: lavorare sull’interno permette di vedere dei benefici all’esterno
Qual è il ruolo del corpo nella tua pratica terapeutica?
Il corpo è centrale – in fondo a volte il corpo parla più di tante parole – e mette in relazione una serie di aspetti invisibili, partendo da ciò che non si vede per arrivare a quello che si vede. Ci permette di capire che il suo è un linguaggio comprensibile a chi lo sa ascoltare e decifrare. A volte il corpo parla, a volte il corpo ci ferma, a volte il corpo ci salva perché consente di esprimere quello che la persona vivrebbe come indicibile, ma proprio attraverso il corpo entra in comunicazione.
Che ruolo hanno, invece, le strutture educative e socializzanti in questo processo di ricostruzione del proprio sé?
Siamo tutti attori fondamentali di un processo di cura, di un progetto di guarigione. Io mi sento portata a pensare che tutto è sistema, tutti gli elementi che interagiscono tra di loro hanno in sé delle proprietà che possono diventare risorse terapeutiche. È questo il motivo per il quale mi capita frequentemente, anche nell’approccio individuale al paziente, di invitare membri della famiglia come consulenti che aiutano me ad aiutare la persona.
Non solo perché i loro occhi hanno visto e vedono più dei miei tante volte, ma anche perché leggere la dinamica alimentare dentro la dinamica relazionale spesso aiuta a comprendere elementi fondamentali che il lavoro terapeutico può includere per il raggiungimento degli obiettivi. Vedere quelle relazioni in vivo e dal vivo aiuta profondamente. Uno spazio meraviglioso, quale quello terapeutico, come luogo di incontro in cui s-coprirsi, ri-scoprirsi e ri-costruirsi in tutte le nostre parti.