La lunga chiacchierata con Irene Baccarini, docente di Lettere nelle scuole superiori di secondo grado, muove dall’esigenza di comprendere la concezione della morte nel Cristianesimo. Come conciliare la nostra finitezza con il desiderio di assoluto? L’esistenza di Dio e, al contempo, del dolore? Da quali valori è unita la società nella quale viviamo e in che modo possiamo soddisfare l’esigenza di una dimensione ulteriore?
Quella di Irene è la testimonianza di un viaggio di maturazione personale che rimette al centro un elemento fondante dell’umano: la ricerca di senso e, di conseguenza, la contraddizione insita nella drammaticità della vita e della morte. «Abbiamo una sete di infinito ma siamo in qualche modo finiti, questa è la nostra drammaticità. Desideriamo che tutto continui in eterno ma al contempo abbiamo la consapevolezza che tutto finisce e ce l’abbiamo non soltanto a partire dal fatto che noi finiremo come persone, ma dal fatto che tutto attorno a noi finisce».
Qual è la concezione della vita e della morte nella cultura cristiano-cattolica?
Spesso c’è un pregiudizio nei confronti di questo tema, nel senso che per tanto tempo, in base ad alcune affermazioni di autori cristiani, si è pensato che contasse solo l’aldilà, e che noi fossimo solo «pellegrini su questa terra». L’idea che la vita nell’aldiqua non conti perché la vera vita è quella che vivremo dopo la morte, quando risorgeremo con il corpo e con lo spirito, in realtà deve essere contestualizzata ma anche letta nella sua completezza, perché la vita nell’aldilà è una conseguenza di ciò che siamo sulla terra.
La vita dopo la morte è il risultato di ciò che siamo stati, delle scelte che abbiamo compiuto e di quelle che non abbiamo compiuto. La convinzione che contasse soltanto l’aldilà si è fondata nel tempo sulla supposta superiorità dell’anima rispetto al corpo, dunque sull’idea che quando ci libereremo del corpo raggiungeremo la pienezza della vita. Nella rivalutazione dell’umanità di Cristo, però, la vita sulla terra deve essere vissuta in tutta la sua pienezza.
Quale ruolo credi che abbia la scelta nell’esistenza di una persona che crede in Dio? Te lo chiedo soprattutto in relazione al tema della morte: mi viene in mente il suicidio, quindi la scelta di morire, oppure l’eutanasia che, in Italia, fatica ad essere introdotta all’interno del discorso pubblico.
È un dibattito che ha conosciuto un grande cambiamento negli ultimi anni. Il cardinal Carlo Maria Martini, ad esempio, ha assunto una posizione di grande apertura nei confronti del rispetto della condizione e della volontà del malato, in riferimento alle cure mediche che possono trasformarsi in accanimento terapeutico. Sono questioni di bioetica molto complesse, nelle quali non mi sento di entrare esprimendo un’opinione generale; credo che vadano analizzate caso per caso. Rispetto al suicidio, nonostante ci siano alcune personalità del mondo ecclesiastico che su queste tematiche restano molto rigide, credo non sia possibile esprimersi in modo generale. Molti anni fa mio padre, che è stata una guida importante nella mia crescita spirituale, mi disse: «La vita è un dono, anche quando è sofferenza». Tuttavia non me la sentirei mai di condannare chi dovesse fare tale scelta. In questo senso veramente solo Dio può conoscere il cuore dell’uomo.
Per un fedele è complicato perché a volte ci si confronta con le posizioni definite dal mondo ecclesiastico e teologico. La scelta in questo frangente è un discorso quantomai difficile da affrontare per il cristiano, se con questo termine intendiamo colui che deve allinearsi alle posizioni della Chiesa; poi però esiste la visione personale del credente che riflette a partire dalla sua vita spirituale. Personalmente su molte tematiche ho delle posizioni che dissentono da quella che dovrebbe essere la linea della Chiesa, anche perché nel corso del tempo ho maturato un mio modo di riflettere su quelle questioni. Credo che molto sia demandato alla libertà di coscienza della persona credente.
Io mi trovo in disaccordo, ad esempio, con certe forme di accanimento terapeutico perché in quei casi mi chiedo: «chi è che decide chi deve vivere e per quanto deve vivere? Non stiamo, anche in quel caso, anteponendo la nostra volontà a quella di Dio?». Se il cristiano deve mettersi nell’ottica di rispettare le parole del Padre Nostro – «Sia fatta la tua volontà» – allora tenere in vita una persona qualora non sia più in grado di vivere, di dire se vuole vivere, deve portarci a chiederci quale volontà stiamo rispettando.
Come persona che si rispecchia nell’ideale di fede cattolica, qual è il tuo rapporto con la morte?
È molto cambiato nel corso della mia maturazione come cristiana, perché il Cristianesimo non è un dato di fatto ma una ricerca continua, una messa in discussione, un conflitto con quel Dio che senti di amare ma che non riesci a capire come agisca nella tua vita: è un continuo cercarlo e rimettere in discussione il modo in cui vuoi che sia fatta la sua volontà nella tua esistenza. Ci sono stati momenti in cui ho vissuto la dimensione di Cristo soltanto nella sua umanità, quindi il fatto che fosse risorto era qualcosa che non faceva parte del mio Cristianesimo. Non pensavo all’aldilà perché ero legata alla dimensione umana di Cristo, all’idea che ci fosse stato un Dio che si era fatto uomo, che aveva gridato l’abbandono del Padre, che aveva deciso di soffrire con noi, che ci aveva amato nella nostra nudità.
Successivamente, attraverso la lettura di autori come Dante e Luzi, ho iniziato a concepire il rapporto tra la vita e la morte in modo diverso. Non sono due dimensioni che si contrappongono, non c’è un aldiqua e un aldilà a cui aspirare, sono due momenti diversi della nostra esistenza. La Commedia rappresenta benissimo la completezza dell’eternità, che è anche temporalità. Non bisogna vivere la vita sulla terra con la paura del giudizio eterno o con la consapevolezza che quella che stiamo vivendo sia soltanto un’anticipazione, ma con l’idea che si tratta di due momenti complementari.
Irene Baccarini. Fotografia di Martina LambazziAnche altre letture hanno condizionato la mia visione della morte. Penso al suicidio, ad esempio. Forse non a tutti, ma a molti è capitato di pensare alla morte come liberazione. Io stessa ho pensato alla morte come alla pace che mi avrebbe potuto liberare dalle angosce, però c’è anche un’altra parte di me. Mi piace molto pensare al mito di Persefone che, rapita dal dio degli Inferi, vive metà della sua vita nell’aldilà, ma poi, quando ritorna sulla terra, riporta la primavera. Questo mito mi rispecchia molto, perché in me convivono una parte che pensa alla morte, e una parte che si sente attaccata alla vita. Questa contraddizione che riposa dentro di me viene sanata dalla figura di Gesù, nella misura in cui ha scelto di vivere e morire da uomo, ma è risorto compiendo una scelta d’amore: questa è una prospettiva che mi aiuta ad avvicinarmi ancora di più alla sua figura e a desiderare quello che Lui ci invita ad aspettare, ossia il Regno dei Cieli.
Tornando a Dante, lui dice che potremmo contemplare in Dio tutto l’universo – «Nel suo profondo vidi che s’interna / legato con amore in un volume / ciò che per l’universo si squaderna» – e sarà la realizzazione di un amore eterno e universale. È qualcosa che non si può descrivere a parole, forse neanche la nostra immaginazione arriva a concepirlo, però è quello che mi capita di desiderare, anche in modo molto ingenuo. Sarebbe bello, come viene prospettato nel finale dei Fratelli Karamazov, pensare che un giorno ci riabbracceremo e staremo tutti insieme. È una prospettiva di speranza che per i non credenti può sembrare consolante, perché verrebbe a colmare ciò che su un piano materialistico o nichilistico non viene prospettato. Io il desiderio di vedere Gesù e di poter vedere in Lui l’amore, non solo per tutti gli uomini ma per tutte le creature, lo custodisco.
L’idea della morte – del dolore, della perdita – spesso fa paura. Credi che la fede nel Cristianesimo aiuti a dominare questa emozione?
È difficile per me parlare di paura. Mi ricollego non tanto alla prospettiva cristiana quanto a quella di alcuni filosofi – pensiamo alla Lettera sulla felicità di Epicuro – che si sono domandati perché dovremmo avere paura della morte. Sai quando capisco che mi spaventa? Nel momento in cui mi accorgo che ho paura delle cose che finiscono, quindi non della morte della mia persona ma del fatto che prima o poi tutto giunge a una conclusione.
La visione leopardiana è drammatica proprio perché mette a nudo questa verità: abbiamo una sete di infinito ma siamo in qualche modo finiti, questa è la nostra drammaticità. Desideriamo che tutto continui in eterno ma al contempo abbiamo la consapevolezza che tutto finisce e ce l’abbiamo non soltanto a partire dal fatto che noi finiremo come persone, ma dal fatto che tutto attorno a noi finisce. Ci affezioniamo a una persona o a una cosa e prima o poi giunge la morte a ricordarci che siamo materia, quindi destinati alla fine.
Non bisogna aver paura, io sono stata aiutata dalla Letteratura in questo. Dobbiamo essere consapevoli di ciò che possiamo fare ogni giorno, della pienezza con cui possiamo vivere e del modo in cui dobbiamo sentirci attaccati agli altri. Per questo parlavo di contraddizione: da una parte penso alla morte come liberazione, dall’altra mi dico che ho questa vita per amare, per fare del bene.
Umberto Galimberti in uno dei suoi saggi ha affermato, riprendendo Nietzsche, che il colpo di genio del Cristianesimo risiede nella scoperta dell’anima immortale. È stata questa intuizione, sostiene, a sconfiggere la paura della morte. Pensi che la fede cristiana assuma questa accezione?
Noi abbiamo dei testi sacri, ma per ogni cristiano è fondamentale la ricerca personale. Bisogna distinguere tra il messaggio divulgato nel corso dei secoli e tutto ciò che il cristiano deve vivere. Si tratta di una scommessa, proprio quella di cui parlava Pascal, perché non è tutto già dato, non è vero che se credo posso stare tranquilla poiché la mia anima è immortale. La domanda di senso si apre nel cristiano e non esiste una risposta predefinita, la fede è un rapporto d’amore. Tra due innamorati non è scontato che tutto andrà bene soltanto perché si amano, la stessa cosa accade nella relazione tra il cristiano e Gesù. Su questa costruzione si fonda ciò che saremo.
Prima parlavi di contraddizione. Credo che nel tempo molte persone si siano allontanate dal Cristianesimo proprio perché è stato privato della sua tragicità, appiattendosi su un messaggio consolante. Sei d’accordo?
Penso anch’io che nel tempo abbia prevalso una dimensione consolante e moralistica del Cristianesimo, che ha perso tanto delle sue radici ebraiche. C’è un salmo molto bello che dice: «Insegnaci a contare i nostri passi e giungeremo alla sapienza del cuore». Ecco, questo cuore non è la sede dell’emotività come siamo abituati a pensarlo noi occidentali che contrapponiamo la ragione al sentimento, nella visione biblica è la sede della sapienza che è superiore sia a un sentire emotivo sia a un sapere razionale: è la pienezza di ciò che l’uomo è, si tratta di una sapienza che si conquista piano piano.
Questa drammaticità presente in alcuni autori di fede cristiana è stata smorzata, ma io penso che per il cristiano confrontarsi con la dimensione del male, quindi con tutto ciò che decostruisce e distrugge, sia fondamentale. Le persone che non credono, che si sono allontanate dalla fede, hanno visto nella religione o una dimensione severa o una prospettiva consolante dell’amore universale, invece non dobbiamo dimenticarci che se ci sarà un giudizio, avverrà sulla base di quello che siamo stati. Non è tutto già deciso, anzi. A me è capitato di scontrarmi con Dio, di chiedergli il senso di ciò che stavo vivendo. Anche Gesù, prima di andare incontro alla sua Passione, ha detto: «Padre, se vuoi allontana da me questo calice. Tuttavia non sia fatta la mia ma la tua volontà».
Come si concilia l’esistenza di Dio con l’esistenza del dolore e della morte?
Ti rispondo facendo riferimento a una cosa che è accaduta in classe con i miei studenti e le mie studentesse. Parlavamo dei Promessi Sposi, un romanzo in cui la lotta tra il bene e il male emerge in maniera importante, interrogandoci su questo rapporto in un autore come Manzoni che ha vissuto il problema del peccato in maniera tormentata. L’Adelchi morendo dice: «Non resta che far torto o patirlo». Ecco, come conciliamo un’affermazione del genere con Dio? Se esiste un Dio, perché permette che compiamo il male o lo subiamo?. È nata questa discussione e molti ragazzi, che tra l’altro non credono, mi hanno detto: «Se non esistesse il male non esisterebbe neanche il bene».
Nel libro di Rüdiger Safranski il male è interpretato proprio come Il dramma della libertà: siamo noi a scegliere cosa fare della nostra vita e cosa fare della vita degli altri. Il problema del dolore della sofferenza, quindi, si apre anche se vediamo le cose in una prospettiva laica. Per il cristiano è più drammatico perché chi non crede può fermarsi a una visione materialistica della realtà oppure può credere che tutto sia dato dal caso. Il cristiano non sempre riesce a comprendere e lì a volte subentra la fede, altre volte la rabbia. Da questo punto di vista mi hanno aiutato il pensiero e la poesia di Luzi, il quale, soprattutto nelle ultime raccolte, afferma che dovremmo accettare il mistero di cui siamo parte, stupirci e lasciarci comprendere: è ciò che lui intende quando parla di «conoscenza per mistero».
Che ruolo ha, per te, la dimensione collettiva nell’esperienza della morte?
La mia prima forte esperienza di morte è stata la morte di mio nonno, avevo 14 anni e ho scoperto la necessità di coltivare una dimensione spirituale. È stata la prima esperienza forte di dolore, la prima volta che ho chiesto: «perché?». I primi anni andavo spessissimo a trovarlo al cimitero, avevo bisogno di quella «corrispondenza di amorosi sensi», come la chiama Foscolo. Sentivo la sua vicinanza e la tomba creava ancora quel legame. Poi l’ho perso, ho perso l’idea del mantenere questo rapporto. Credo però che il rito conti tantissimo. I riti creano comunità, sono un momento di aggregazione e proprio in questi anni ci stiamo rendendo conto che ci mancano.
Fotografia di Martina LambazziIl Covid ci ha suggerito che abbiamo bisogno di una dimensione spirituale a cui la morte ci richiama, che piano piano sta scomparendo. La nostra è una società tecnocratica in cui si cerca di rimuovere ogni tipo di pratica religiosa e questo umanismo esasperato, che pone la scienza al primo posto, ci sta facendo capire che abbiamo bisogno di qualcosa che sia superiore a una realtà che ci soddisfa fisicamente, ma non spiritualmente.
Il funerale è un momento di raccoglimento in cui ognuno di noi pensa a ciò che lo ha legato alla persona che non c’è più, si confronta con la paura della morte, si arrabbia con Dio. È un momento in cui le domande di senso fondamentali dell’uomo emergono. Mi fa piacere che venga notato anche da autori non cristiani come Giuseppe Conte, che sostiene l’importanza di tornare ai miti. Il mito è la spiegazione del naturale attraverso il soprannaturale, noi invece spieghiamo il naturale con il naturale, e la mancanza di spiritualità è una privazione di qualcosa che c’è nell’uomo e di cui non possiamo fare a meno, nonostante pensiamo di poterlo rimuovere. Il rito unisce e oggi, di fronte a un individualismo esasperato, mi chiedo: cos’è che ci unisce? La nostra società su cosa fonda il proprio senso di comunità? È possibile mantenere il senso delle radici conservando l’apertura verso l’altro? Come cultura occidentale ci stiamo scontrando su queste tematiche. Per un Cristiano la riflessione sul limite è suggerita dal rapporto con Dio, è più facile essere umili.
Pensi che l’assenza della morte all’interno del discorso sia una conseguenza dell’allontanamento da questa dimensione spirituale?
In parte sì. Siamo pieni di distrazioni e quando si cerca di rimuovere l’attenzione all’esistenza – a ciò che l’uomo è, a ciò che l’uomo è con gli altri – è normale che ne risenta la dimensione spirituale, tant’è vero che oggi nessuno legge la poesia, nessuno si confronta con una riflessione più profonda. Questa crisi spirituale, a mio avviso, è certamente collegata al tentativo di rimuovere la morte, ma anche l’idea dell’invecchiamento del corpo: dobbiamo essere sempre giovani e belli, e la scienza lavora per questo. Focalizzarci su un’immagine di noi che non deve cambiare è preoccupante ed è il sintomo di quanta paura abbiamo: la nostra società cerca in tutti i modi di rimuovere il pensiero della morte, ma questo vuol dire aver perso in anticipo la scommessa della nostra vita.