Strette. Una rete di maglie intrecciate. Salde. All’interno di un fiume che altro non è se non divenire di consapevolezze e responsabilità. «Quell’immagine di tante donne intrecciate in maniera orizzontale tra loro, che fanno cordata, che allargano la foto e non stringono verso un unico soggetto, quella io credo sia la postura che dobbiamo mantenere».
Abbiamo voluto incontrare di nuovo Marta Bonafoni, candidata capolista al Consiglio regionale del Lazio con la Lista civica D’Amato presidente, per ricostruire parte della trama che lega la politica alle donne e queste al potere. Abbiamo voluto raccontare la storia di una cultura politica, quella femminista, attraverso la postura coraggiosa e cosciente di chi costruisce la ragione della politica stessa nelle relazioni con le persone. Tenendole. Strette.
Marta Bonafoni. Fotografia di Francesco Formica
Inizierei dal chiederti come mai hai scelto questo luogo per la nostra intervista?
Quando mi hai proposto questa intervista sui corpi, le donne, la politica e il potere ho pensato innanzitutto a una connessione, perché quando parliamo di politica e donne parliamo non soltanto di politica, ma di una cultura politica. La politica italiana ha molto a che fare con questo luogo, lo Spazio Impero, con i suoi miti o contro-miti.
Questo è l’ex Cinema Impero, uno dei 150 segni grafici soltanto nella città di Roma, che racconta, persiste e ricorda – peraltro senza alcun cenno critico – l’esperienza coloniale italiana, partita molto prima del fascismo, ma che in quel periodo ha avuto un rigurgito importante.
Durante il colonialismo, il piccolo popolo italiano guidato da Mussolini, per rilanciare il suo ruolo nel mondo, ha unito la conquista delle terre africane alla conquista, o meglio, alla violenza sulle donne africane. Addirittura, tra le varie forme di chiamata alle armi c’erano proprio le cartoline in cui venivano rappresentate queste figure di donne dalle grandi mammelle, le belle abissine delle canzoni. Venivano usate proprio come esche, come incentivo a partire.
Spazio Impero. Fotografia di Francesco Formica
Quelle stesse donne che poi venivano abusate e spesso e volentieri rese, contro la loro volontà, compagne illegali e nascoste. Era possibile in qualche maniera coltivare quelle relazioni, ma era vietato per legge farlo ufficialmente, tantopiù il matrimonio, che veniva considerato a tutti gli effetti un delitto contro la stirpe e la stirpe era quella del maschio italiano bianco, forte e muscoloso, il corpo maschile stereotipato di cui l’emblema per antonomasia era quello di Mussolini.
Un corpo che doveva prevaricare sui corpi sfruttati, esattamente come sfruttata era la terra delle donne africane. Peraltro c’è una data che coincide in maniera piuttosto evidente: era il 3 ottobre 1935 quando cominciava la colonizzazione della cosiddetta Abissinia ed era sempre il 3 ottobre, quando, nel 2013, è avvenuta la strage dei migranti e delle migranti provenienti dall’Africa, che viaggiavano su un barcone, e che Villa Celimontana ricorda con una targa.
Queste donne sono le stesse che finiscono vittime di tratta, esattamente gli stessi corpi di quelle cartoline. Mi sembrava quindi significativo iniziare da questo luogo perché nella cultura politica del nostro Paese c’è un irrisolto, un non detto, un non rielaborato che risale al passato coloniale italiano e che si lega con il non ancora fino in fondo elaborato rapporto tra il corpo della donna e il potere e quindi fra il potere maschile e il potere delle donne.
Il corpo delle donne è associato al potere e alla politica anche perché è un corpo politico: a differenza del corpo maschile, ha combattuto. È un corpo di battaglie, sacrifici e privazioni. E allora ti chiedo quale ruolo ricopre nella storia del corpo delle donne, inteso come corpo politico, Giorgia Meloni, la prima donna presidente in Italia, che in uno dei primi comunicati dice “chiamatemi il Presidente”.
Questo è un grandissimo tema, che finiremo di analizzare e attraversare tra diversi anni, perché non c’è dubbio che in Italia sia successo un fatto e lo ha ricordato anche il presidente della Repubblica nel suo discorso di fine anno: per la prima volta in questo Paese è una donna a guidare la presidenza del Consiglio. Eppure è una donna che come primo atto non burocratico – perché parliamo di una circolare interna, quindi del linguaggio dentro le istituzioni – decide di fare un atto politico, neutralizzando la sessualità della sua figura. E una circolare che è arrivata fino alle redazioni giornalistiche, infatti la declinazione al maschile o al femminile dipende dalla sensibilità del giornalista e della giornalista o della testata.
Ha deciso di compiere questa pratica di neutralizzazione perché, secondo quella cultura politica, non conta se sei donna o uomo nel momento in cui affermi la tua posizione di potere, ma conta il fatto che tu sia brava e meritevole, il fatto che tu abbia avuto la capacità, la grinta, la forza (maschile) di raggiungere quel potere.
Marta Bonafoni e Chiara Formica. Fotografia di Francesco Formica
In campagna elettorale, in tante abbiamo sottolineato che si può esercitare una leadership femminile, senza che questa coincida con una leadership femminista. Nel momento in cui una donna raggiunge il potere qual è la differenza? Dal mio punto di vista, la leadership femminista apre la strada anche a coloro che verranno dopo, non fermandosi soltanto a richiamare le figure del passato. Giorgia Meloni, nel suo discorso di insediamento in Parlamento, ha rievocato – chiamandole solo con il nome di battesimo – le donne che hanno fatto la storia dell’emancipazione femminile in Italia. Chiamarle solo con il nome di battesimo significa ridurle, così come quando utilizziamo “la Meloni” e non “Meloni”.
Ha riconosciuto il passato che le ha permesso di diventare presidente del Consiglio, ma di fatto ha riproposto una fotografia piena di altri uomini e senza prendersi in carico coloro che verranno dopo di lei. E questo perché il tema della meritocrazia neutralizza quello delle diseguaglianze che invece è quello che il femminismo affronta e che vuole sconfiggere, perché esistono diseguaglianze di partenza che falsificano il merito stesso.
Per Hannah Arendt fare “politica” significa appropriarsi di una duplice dimensione, quella della natalità e della pluralità, per poter godere rispettivamente del diritto alla propria unicità e all’uguaglianza sociale e politica collettiva. Lo spazio pubblico quindi diventa uno spazio in cui ognuno e ognuna può alzare la mano e dire chi è. Tornando al linguaggio scelto da Meloni qual è l’impatto che potrebbe avere anche sulla questione dell’identità di genere?
Intanto hai usato la parola “genere”, una parola che se potessero avrebbero già vietato. Abbiamo assistito negli anni passati a un attacco alla cosiddetta ideologia del gender, che dalla chat dei genitori a scuola e rimbalzando dentro i consigli di istituto è arrivata fino alle aule parlamentari e in quelle regionali.
Nel 2013 abbiamo iniziato una discussione di legge, fortunatamente terminata con una votazione favorevole l’anno successivo, e la maggior parte di questo tempo lo abbiamo sprecato a rispondere all’ostruzionismo dei cosiddetti pro vita, che ci intimavano di non chiamarla violenza di genere, perché avremmo incentivato la confusione di genere. Quando invece basterebbe prendere coscienza del fatto che un conto è il sesso e un conto è la costruzione culturale del genere, che va aggiungendosi nelle relazioni, negli incontri, nell’impatto fra l’individuo e la società.
Anna Magnani. Fotografia di Francesco Formica
Temo che questo sia soltanto l’inizio di un percorso in cui ne sentiremo delle belle: non è un caso che, probabilmente più per una manifestazione muscolare e ideologica che per altro, uno dei primi provvedimenti presi in questa legislatura come in altre, ma questa volta avendo i numeri per camminare, metta in discussione la capacità delle donne di decidere in autonomia sul proprio corpo e dunque la legge 194, con il riconoscimento giuridico del feto.
Questa è una bomba culturale e politica che rischia di far compiere, nei prossimi anni, qualche passo indietro, anche se non credo in modo definitivo, perché ormai il movimento femminista ha toccato i lembi delle società, le donne, l’approccio culturale e politico. In ogni caso, rimane evidente il tentativo di mettere in discussione il potere della donna, perché a fronte della capacità femminile di procreare c’è un limite oggettivo – grosso come una casa o esile come il corpo di una donna – che diventa oggetto di una contesa, tende a blindare la possibilità di scelta, che poi prende il nome di stirpe e, in qualche maniera, di italianità.
D’altra parte sul fronte del marketing politico, Giorgia Meloni, durante il periodo della campagna elettorale, pubblica un libro, utilizzando la prima persona singolare e dove per la prima volta – poi lo ripeterà di fronte alla destra estrema spagnola – si declina come madre insieme a donna, facendo coincidere il corpo della donna con il corpo produttivo e riproduttivo della madre.
Un altro fotogramma, peraltro arricchito da una grande commozione da parte della presidente del Consiglio, risale ai giorni di Natale presso una base militare, in cui si reca Meloni. Arriva con la mimetica e fa un discorso commosso – non so se altrettanto commovente – in cui dice: “la patria è madre, dove dovrebbe stare una madre se non qui oggi che è Natale e il Natale si passa in famiglia?”. Chiama in causa il corpo dell’esercito in una fase storica in cui l’esercito torna a essere di attualità anche in Europa. Quella madre patria in mimetica a me spaventa tantissimo, perché è esattamente l’ennesimo colpo sferzato alla politica femminista, a una presenza dei corpi tutta diversa rispetto a quella verticistica e mortifera come quella di un esercito armato.
Noi non dobbiamo perdere la bussola e l’abitudine che ci ha insegnato il femminismo a non cedere alla verticalizzazione del potere in cui finiremmo per contrapporre a una donna un’altra donna. Dobbiamo invece saper contrapporre un altro modello. Ce lo dimostra il movimento Non una di meno che in questi anni è uno dei pochi a riempire le piazze in maniera trasversale, raccontando i corpi nelle loro differenze: sono i corpi del presente, i corpi meticci, i corpi precari, i corpi gender fluid e anche i corpi di un compagno e una compagna che si abbracciano e marciano insieme contro la violenza di genere o contro la violenza patriarcale all’interno del sistema economico. Quell’immagine di tante donne intrecciate in maniera orizzontale tra loro, che fanno cordata, che allargano la foto e non stringono verso un unico soggetto, quella io credo sia la postura che dobbiamo mantenere, anche se non è semplice.
Stiamo parlando di potere, di politica, di donne e torniamo sempre sul linguaggio, perché il linguaggio costruisce la realtà. Una delle critiche principali rivolte alla sinistra negli ultimi anni è di non saper parlare più alle persone, mentre la destra riuscirebbe a farlo attraverso la semplificazione.
Credo che parlare in maniera semplice sia un valore ed è molto diverso dal parlare in maniera semplificata o semplicistica. Si può essere semplici e molto profondi. È vero che siamo diventati incomprensibili, votati dai ceti più abbienti, mentre la sinistra nasce per essere la rappresentante di chi ha meno. Quel linguaggio detta la distanza che la politica ha preso dalla vita delle persone, ma se ti riconnetti ai bisogni, alle aspettative e ai desideri delle persone, alla dimensione autentica della politica, che non è potere fine a se stesso, ma potere inteso come poter cambiare la vita delle persone in meglio, non dico che sia un automatismo, ma il linguaggio viene da sé. Per riavvicinarci alle persone dobbiamo renderci utili per il loro destino.