Negli ultimi mesi l’elezione di Giorgia Meloni come presidente del Consiglio è stata spesso tradotta in una “vittoria delle donne”. Nell’intervista alla scrittrice Giulia Blasi siamo partite da questo assunto per comprenderne la problematicità e de-costruirlo, tenuto conto che «il trionfo individuale di una donna non ha niente a che vedere con la lotta femminista».
Partendo dall’elezione di Giorgia Meloni abbiamo analizzato il modello di potere che affonda le sue radici nella cultura patriarcale e riflettuto sulla credibilità delle donne in politica, che non di rado passa per l’età e l’avvenenza. «Il corpo delle donne non è mai adeguato. Il problema non è quello che ci viene richiesto, ma il fatto che ci venga richiesto».
Ho sentito dire spesso in questi mesi che l’elezione di Giorgia Meloni rappresenta una “vittoria delle donne”. Non ti chiedo se è così, ma perché questa affermazione risulta problematica?
Partiamo dal presupposto che nessuno dice mai: “la vittoria di X è una vittoria per gli uomini”, quindi stiamo parlando di un genere inevitabilmente categorizzato come un blocco unico che ha bisogno di riscattarsi da una forma di oppressione collettiva. Questo fa sparire tutte le differenze che esistono naturalmente, normalmente, culturalmente tra un essere umano e l’altro e anche tra le donne, perché Giorgia Meloni non mi rappresenta dal punto di vista politico, umano, etico, valoriale. Le donne non sono tutte uguali e questa è la prima considerazione da fare.
Non esiste la “vittoria delle donne” laddove una donna vince le elezioni, casomai si può parlare di vittoria dei femminismi per il lungo lavoro fatto affinché le donne ottenessero prima il voto, poi alcuni diritti di autodeterminazione, la possibilità di lavorare fuori casa; perché non dovessero più sottostare allo ius corrigendi o sposare i loro stupratori, perché non fossero costrette ad abortire clandestinamente. Giorgia Meloni, quindi, vince le elezioni come trionfo individuale ma anche come risultato del lavoro dei femminismi al quale non ha mai contribuito. Sfrutta il lavoro dei femminismi – che sono sempre una lotta collettiva – per un suo tornaconto personale, ma non può essere inserita nel contesto di lotte collettive.
Essendo una donna conservatrice, Meloni si allinea con la mentalità secondo cui ognuno di noi deve occupare un posto specifico nel mondo che è determinato dal suo genere, dalla sua classe sociale, dalla sua età. È un’ottima alleata del patriarcato e il patriarcato non ha mai avuto problemi nel lasciar crescere le sue ancelle. Giorgia Meloni può essere la prima presidente del Consiglio in Italia ma non è sicuramente la prima capo del governo conservatrice nel resto del mondo: nel Regno Unito ne abbiamo avute ben tre. La novità è quando ce la fa una donna non conservatrice, perché le femministe sono sempre scomode per il sistema. Se riescono, grazie alle lotte collettive, a ottenere il consenso per loro si prospetta una strada in salita: l’Italia è un paese che guarda ai femminismi con disprezzo e, soprattutto, all’interno della classe politica non esiste un’idea precisa di quella che è la differenza tra i femminismi.
Poco fa dicevi che Giorgia Meloni non ti rappresenta. A chi si rivolge allora?
È una conservatrice, quindi parla ai conservatori. Il nostro è un paese molto conservatore, persino a sinistra lo sono. Lei parla a un pubblico che esiste, è sempre esistito e continua a esistere, inoltre può fare anche appello a un grosso errore commesso – a mio parere – alla fine della guerra, cioè quello di non processare i gerarchi fascisti. In altri Paesi è accaduto da noi invece hanno goduto del perdono repubblicano, si sono potuti ricostituire in barba alla Costituzione ed entrare nella vita democratica. L’Italia non ha fatto i conti col fascismo, quindi adesso ci ritroviamo con persone che hanno il busto del duce in casa, tra cui il presidente del Senato. Il fascismo come viene raccontato adesso è una cosa che non è mai esistita, né Mussolini è mai stato un grande e solido leader: era un codardo pronto a scappare appena giunta l’ora di fare i conti con il suo destino.
Giulia Blasi e Alessia Lambazzi. Fotografia di Martina Lambazzi
Se non hai vissuto sotto il fascismo e non hai visto cosa vuol dire morire di fame sotto una dittatura è facile rifugiarsi in un passato glorioso nel quale l’Italia, secondo chi ci crede, contava qualcosa. Soprattutto, veniamo da anni in cui si è lavorato per distanziare il più possibile le persone dalla politica in modo tale che la cultura e l’informazione fossero sempre più difficili da ottenere e sempre più frustranti, abbiamo tagliato i parlamentari affinché la gente fosse ancora meno rappresentata.
Mussolini per alcuni rappresenta un ideale di ordine, di fulgore, di mascolinità solida, quando invece l’Italia uscì sconfitta dalla Seconda Guerra Mondiale, e il motivo per il quale siamo qui a parlarci in un paese libero non è sicuramente perché c’era “Lui”, ma grazie a chi fece la Resistenza. Mussolini fu catturato e fucilato, e la gente andò a Piazzale Loreto a sfogare sul cadavere la rabbia di vent’anni di dittatura. Per quanto si possa discutere di finale violento, sarebbe stato difficile immaginare una conclusione alternativa.
Ho ascoltato il discorso di Giorgia Meloni in Parlamento. Ha nominato le donne che le avrebbero permesso di raggiungere questo risultato – rigorosamente senza cognome – affermando di aver sfondato il soffitto di cristallo, per poi comunicare dopo poco tempo di voler essere chiamata “Signor Presidente del Consiglio”. Si tratta di una contraddizione o di una precisa strategia?
È perfettamente coerente con quello che vuole proiettare. A lei va bene presentarsi come “donna, madre, cristiana, italiana”. Tira fuori l’appartenenza al genere femminile quando le fa comodo, ma scomparire nel maschile è la cosa più conveniente per la stragrande maggioranza delle donne. Credo che da parte sua sia un segnale inconscio che manifesta la non volontà di mettersi in contrapposizione con il potere simbolico maschile: vuole tenerselo buono, sparirci dentro e non disturbarlo particolarmente. Meloni, in sostanza, disconosce l’esistenza di quel potere simbolico e la pressione a cui la sottopone: preferisce individuare i suoi avversari altrove.
In un tuo libro hai problematizzato il “mito della donna forte”. Siamo di fronte a questo stereotipo?
In Manuale per ragazze rivoluzionarie ho voluto chiarire l’equivoco che fa di ogni donna che ottiene un trionfo personale una forma di icona femminista. Dobbiamo separare i piani. Le donne possono essere personaggi interessanti dal punto di vista biografico anche se non sono femministe, anche se sono dei personaggi negativi. Sicuramente Margaret Thatcher era un personaggio interessante, dire che può essere un riferimento femminista è altro.
I femminismi rifuggono dall’idea della leader, della donna che indica la strada. Sebbene come ogni movimento filosofico e politico abbiano le loro pensatrici, i femminismi si muovono sempre in maniera collettiva. Il trionfo individuale di una donna non ha niente a che vedere con la lotta femminista, perché si può ottenere in milioni di modi che non passano per la lotta femminista. E infatti è quasi sempre così.
Per quale motivo, allora, si è avvertito tanto il bisogno di accostare Giorgia Meloni al femminismo?
Il femminismo è diventato una buzzword. Da “femminista” come insulto – ancora abbastanza diffuso – siamo passati a un tentativo di esproprio della qualifica, perché soprattutto le nuove generazioni hanno recuperato il valore dei femminismi ed essere femministe è diventata una cosa che accomuna molte leader a livello mondiale. In qualche modo si cerca di appropriarsene storpiando anche il senso: “Questa sì che è femminista, non voi che siete tutte chiacchiere” è una frase che ricorre.
Si tenta di riposizionare il termine in modo da spegnere la lotta, perché se a una parola vengono dati altri attributi la si toglie dal suo significato originale. Prima di arrendersi all’evidenza che il femminismo non sarebbe mai scomparso sono stati avanzati molti tentativi di cancellare la parola provando a trasformarla in “umanismo”, ad esempio, ma togliendo un termine e facendolo diventare un’altra cosa si cancella la storia di un pensiero. Nessuno si è mai fatto venire in mente di ribattezzare il marxismo, che è una corrente di pensiero che ha una sua dignità storica riconosciuta, magari chiamandolo “proletarismo”. Se non si rinomina il marxismo, dunque, non c’è motivo per rinominare il femminismo.
Giorgia Meloni, quindi, rappresenta un modello maschile?
Rappresenta un modello di donna conservatrice mutuato dalla cultura maschile. Rimane una donna e utilizza la sua femminilità anche all’interno del discorso pubblico, basti vedere quanto usa sua figlia nelle comunicazioni. Sta cercando di sembrare più inoffensiva e amichevole, non più la cupa urlatrice dei comizi di VOX. Giorgia Meloni utilizza sicuramente un modello maschile, ma il problema è il modello patriarcale. Esistono tanti modelli maschili, non ce ne è solo uno. C’è una cultura patriarcale però che premia certi comportamenti, atteggiamenti, modi di essere. Lei ha scelto quel modo di stare al mondo.
Per molti anni, anche nella mia generazione, ci è stato ripetuto: “pensa come un uomo”. Il messaggio di base era che gli uomini nascevano già completi mentre le donne nascevano imperfette, insicure, e dovevano lavorare su sé stesse per raggiungere lo stesso livello di sicurezza, quindi venivamo al mondo con un difetto di fabbrica. Anche se stiamo cercando di cambiare la retorica, questo messaggio purtroppo esiste ancora. Meloni è guidata dalla cultura patriarcale, che incidentalmente ha a che vedere con un ideale di Italia nazionalista. Lei usa sempre il termine “nazione”, non dice mai “paese”. “Nazione” è un concetto identitario: puoi essere una nazione anche se non sei un paese. L’identità ha a che vedere con tanti elementi fissi culturali – arbitrari ovviamente – alla cui base c’è il suprematismo bianco.
L’idea di nazione di Giorgia Meloni passa per il suprematismo bianco tanto più che varie volte ha parlato di sostituzione etnica, con un riferimento velato all’inesistente “piano Kalergi”, una teoria del complotto dell’estrema destra che ipotizza l’esistenza di un piano per sostituire la popolazione europea bianca con quella di altre etnie, pensata per fomentare l’odio razziale. Proprio ieri si parlava dell’ipotesi di togliere il numero chiuso alla facoltà di Medicina. L’Italia ha oggettivamente un problema di scarsità di medici. Nel 2020 avevamo 77mila operatori sanitari di cui circa 20mila medici senza cittadinanza, che vivono qui ma non possono fare concorsi pubblici. Riformare la cittadinanza attribuendola in automatico alle persone che nascono qui o completano un ciclo scolastico in Italia sarebbe molto più semplice. In questo momento le leggi sulla cittadinanza tutelano le persone nate sotto l’impero austriaco ma non gli italiani nati in Italia. Ovviamente ci si ritroverebbe all’improvviso con una certa quantità di italiani non bianchi, e questa cosa piace pochissimo a chi vota per Giorgia Meloni, perché c’è un ideale fortissimo di italianità che passa per l’essere bianchi, anche se il concetto di bianchezza è talmente arbitrario che, addirittura, in alcune parti dell’America gli italiani sono considerati non bianchi.
Spostandoci dall’elezione di Giorgia Meloni mi sembra che ci sia un discorso da affrontare in merito alla credibilità delle donne in politica. Ho la sensazione che in campo istituzionale la loro credibilità vada di pari passo con l’età e l’avvenenza, tematiche di cui ti sei occupata. È così?
In Italia non abbiamo consolidato nella cultura nazionale la figura della donna anziana saggia. La cosa più vicina credo sia Mara Venier, una delle poche donne che in qualche modo sta invecchiando in pubblico. Abbiamo un problema enorme di mancanza di costruzione della credibilità per le donne anziane. Questo dipende da due fattori: il primo è che le donne fanno più fatica a fare carriera. Per essere una donna anziana saggia devi essere stata una donna giovane il cui percorso andava da qualche parte, ma se finisci spedita fuori dalla partecipazione alla vita pubblica perché hai avuto dei figli non puoi diventare un riferimento.
L’altra cosa è che l’invecchiamento è visto come molto problematico per le donne. Non vogliamo vedere le donne anziane, le delegittimiamo continuamente e questo influisce sulla loro volontà di stare sotto lo sguardo del pubblico. Il problema non è come lo riceviamo noi quello sguardo, il problema è come il nostro corpo viene letto alla luce della cultura patriarcale che assegna al capitale sessuale delle donne il maggior valore possibile. Quando lo perdi – o se non lo hai mai posseduto, perché sei considerata poco piacente – vieni tacciata di essere insoddisfatta e quindi tutto quello che dici in pubblico è legato all’insoddisfazione. L’idea di non essere soddisfacenti per un ipotetico sguardo maschile ci viene ritorto contro come ragione per cui dovremmo tacere.
Alle donne in politica, però, non viene chiesto di nascondere il loro corpo, di renderlo meno ingombrante?
Il corpo delle donne non è mai adeguato. Il problema non è quello che ci viene richiesto, ma il fatto che ci venga richiesto. Ci viene detto di intervenire sul nostro corpo per renderci gradite all’occhio del mondo e queste richieste incessanti vengono fatte passare per cura di sé. La cura di me non ce l’ho spalmandomi di creme, la cura di me è stare un pomeriggio a guardare Netflix sdraiata sul divano mangiando Pringles. La cosmesi è una cosa che accetto perché accetto lo scambio fra la cosmesi e la mia presentabilità sociale, eppure nel mio universo ideale non mi truccherei mai e nessuno avrebbe niente da ridire. So benissimo che non è così e non penso che sia giusto. Subisco questa pressione perché ribellarmi è più faticoso che cedere e cercare un compromesso, ma si tratta di scelte che hanno un costo sociale, economico, di tempo. Vivo in un mondo in cui non mi viene concesso di assecondare il mio desiderio, vivo in un mondo in cui se esco struccata la gente mi chiede se sto bene.