Dire fecondazione medicalmente assistita è dire anche panico, senso di inadeguatezza, esposizione al fallimento e al giudizio. Vulnerabilità nel desiderio. Speranza di non cadere mentre si salta ad occhi chiusi nel vuoto. Respiro corto.
Incontriamo Serena Cataldo, una giovane donna di 33 anni incinta del suo bambino, per parlare del suo corpo, o meglio, dei segni che sul suo corpo ha inciso il processo di medicalizzazione per la fecondazione assistita. Dalle sue parole è emersa un’infertilità accettata, quasi preventivata, ma insieme a questa anche la rabbia per non aver ricevuto le informazioni che le spettavano di diritto.
Il racconto di Serena può essere scandito in tre tempi, il tempo del “panico” e quindi del senso di inadeguatezza nel riempire una parentesi di vita che continuava a mancare l’obiettivo, quello del “se”, delle eventuali possibilità mancate, ed infine il tempo della “rabbia”, il nodo ancora da sciogliere.
Quella della fecondazione assistista è una prassi che viene progressivamente sdoganata e inserita nel ventaglio delle possibilità che conducono alla genitorialità, ma al tempo stesso, per essere definitivamente liberata dall’ultimo residuo stigmatizzante, ha bisogno di essere raccontata e introdotta nei discorsi quotidiani.
Implicita nell’uso politico del corpo femminile la possibilità di scegliere la modalità e i tempi della maternità. Eppure l’infertilità corrisponde ancora ad un’onta, una vergogna che suggerisce a bassa voce l’incapacità di essere pienamente donna. Come a dire che esserlo equivale ad assolvere un dovere, un impegno sociale, a soddisfare una predisposizione considerata naturale. È un tabù che pesa sia sui corpi femminili infertili, sia su quelli che, secondo libero arbitrio, scelgono di non vivere la maternità come un’imposizione, ma come libera scelta, rispetto alla quale esercitare anche il diritto di esimersi. L’infertilità ha bisogno di essere raccontata e normalizzata.
PANICO
«Rimanevo costantemente sveglia, ossessionata dall’idea che sarei rimasta sola e divorata dai gatti». Parte da qui il suo racconto, da questo pensiero ossessivo che la tormentava durante gli attacchi di panico e le restituiva la lucidità solo dopo la tragica conclusione, nella quale «le persone che mi erano intorno non se ne accorgevano neanche, la mia vita finiva e loro se ne rendevano conto soltanto sentendo la puzza di cadavere». Lo racconta ridendo, ma da questo deriva la scelta di intraprendere un percorso di psicoterapia che la accompagnasse nel percorso verso la maternità.
Serena Cataldo. Fotografia di Francesco Formica
Capisce, infatti, di dover essere affiancata da una psicoterapeuta quando iniziano gli attacchi di panico frequenti. «Ero ossessionata dall’idea di morire e di non aver lasciato nulla. Avevo paura che le persone nemmeno si accorgessero che la mia vita fosse finita. La psicoterapia mi è servita soprattutto dopo il primo tentativo di fecondazione assistita che è stato un disastro, quello è stato un momento molto difficile. Ho iniziato ad avere continuamente attacchi di panico. Vedevo il mio corpo cambiare ed era una cosa che avevo messo in conto, ma viverlo è diverso: ci sono tante cose da ricordare, da fare, da mettere insieme per non sbagliare. Ci sono stati periodi in cui ho dovuto mantenere l’equilibrio tra, ad esempio, la puntura alle 3 di notte o l’umore che cambiava repentinamente, l’aumento del dosaggio ormonale che comunque non migliorava le ondate follicolari. Per di più l’iter in Italia è molto lungo e non ho mai accettato di essere un numero in questa storia e quindi io e mio marito abbiamo fatto tutto privatamente in Spagna».
La paura ha faticato ad allentare la sua presa anche all’inizio della gravidanza, «quando sono rimasta incinta ho fatto la prima ecografia e dopo due giorni ne ho voluta fare subito un’altra perché avevo paura che qualcosa non andasse bene. Quel giorno un ginecologo molto bravo, che si occupa di fecondazione assistita, mi disse che dovevo stare tranquilla perché per quanto la mia infertilità avesse reso tutto molto difficile e faticoso, in quel momento ero una donna incinta come tutte le altre»
E… SE …
Il se, una parola così piccola eppure così potente, potenzialmente può distruggere un’esistenza, così come individuarne il senso.
«Con la psicoterapeuta ho iniziato a lavorare sulla presenza di un figlio che non c’era e che, comunque, occupava gran parte della mia vita. Anche gli spazi all’interno di una casa fanno di quell’assenza qualcosa di ancora più frustrante, nel mio caso lo spazio di una cameretta, che non avevo il coraggio né di riempire, né di trasformare in qualcosa di diverso. Ho iniziato anche a lavorare sul mio bisogno di dover tenere tutto sotto controllo, capendo che non tutto dipende da me. Con questo approccio ho cominciato ad essere anche più leggera in altre cose, ma è sicuramente un cammino lungo che non ho finito e che non ho del tutto metabolizzato».
Il se di Serena è la ragione della sua rabbia, perché è un se che ripercorre a ritroso un tempo che non sa e non può essere retroattivo. «Quando ho deciso di diventare madre, sapevo già che non sarebbe stato così semplice perché soffrendo di endometriosi avevo già fatto due interventi e a 26 anni in ospedale un dottore mi disse che avrei dovuto pensare subito ad avere dei figli, ma era un’idea che rifiutavo perché non ero pronta a diventare madre, studiavo, vivevo un’altra relazione sentimentale, non c’era proprio il pensiero di un figlio. Qualche anno dopo, invece, nel momento in cui ho conosciuto quello che è poi diventato mio marito da subito ho provato questo forte desiderio di maternità».
Sapeva dunque che non sarebbe stato facile e, caparbiamente, decide di non perdere altro tempo: «una volta sposati, dopo sei mesi di rapporti sessuali mirati, quei rapporti che poi uccidono la coppia, non ho aspettato molto: mi sono rivolta subito ad un medico che tratta l’infertilità. Mi disse che non avevo molto tempo perché a 29 anni, a causa degli interventi per endometriosi, avevo una riserva ovarica di una donna di circa 40 anni. Quindi ho fatto l’esame della riserva ovarica non perché i medici che mi seguivano per l’endometriosi mi avessero consigliato di farla, ma su suggerimento di una mia amica che aveva fatto PMA, decisi di effettuare l’esame dell’AMH. Non sapevo nemmeno cosa fosse, in realtà è un semplice esame del sangue di routine. Mi chiedo se avessi avuto quella fotografia a 25 anni che cosa avrei fatto? Forse non avrei fatto la stessa scelta di oggi, forse avrei provato a congelare gli ovociti? Non so, quello che so è che mi sono affidata ai medici che mi seguivano eppure non ho ricevuto tutte le informazioni di cui avevo bisogno. Ci sono dei momenti in cui senti di dover cominciare da qualcosa. Il segreto per non essere assorbiti dalla negatività forse è non annullarsi, ho scritto un progetto di dottorato proprio per questo: dovevo riprendere in mano la mia vita. Soprattutto guardarti allo specchio, dopo tutti i tentativi, e non trovare più la persona che eri, né psicologicamente, né fisicamente, è difficile. Ho preso 13 chili con le stimolazioni che per di più sono coincise con il periodo di lockdown, dopo di che ho continuato con il progesterone fino al quarto mese, con i cerotti di estrogeni».
LA RABBIA
«Quando ho scoperto la mia infertilità, a differenza di altre donne che vivono la stessa condizione, non mi sono sentita egoista, ma profondamente arrabbiata perché avevo iniziato a desiderare un figlio a 28-29 anni. Non è stata e non è l’infertilità a suscitarmi rabbia, quanto il non essere stata correttamente informata e non aver potuto scegliere tra tutte le opzioni di cui avrei potuto disporre. Ho accettato velocemente l’idea della PMA, mettendo in conto sia la possibilità di effettuare una fecondazione omologa, eterologa o anche l’adozione, ma con tutta questa rabbia dentro di me. Mi ripetevo che ormai la situazione era questa e che, se volevo avere un figlio, dovevo essere mentalmente libera e accettare tutte le possibili soluzioni che si sarebbero presentate. La psicoterapia mi ha accompagnata e quindi mi ha aiutata, ma non sono guarita, non mi ha “risolta” dalla rabbia».
Serena Cataldo. Fotografia di Francesco Formica
Il processo di medicalizzazione e la ricerca di un figlio costano anche energie e fatiche sotto il profilo relazionale: «la ricerca di un figlio in una coppia uccide il rapporto anche quando c’è un’intimità importante. E poi ogni mese arrivavano le mestruazioni e con loro ogni mese il dolore. Anche far capire ed accettare a mio marito, che è un uomo più grande di me e che aveva avuto già dei figli, che una donna giovane non riesca “naturalmente” ad avere dei figli rapidamente, non è stato facile. Lui sapeva quanto per me fosse importante e quanto io fossi determinata. Volevo essere una madre e sarei stata capace di intraprendere questo percorso anche da sola, ma lui ha scelto di camminare con me, sostenendomi con grande forza e coraggio».