Nel corso dell’intervista a Adele Genghi, fisioterapista palliativista dell’Hospice Casa delle Farfalle di Isola Del Liri, sono emersi i tratti essenziali di una professione che ha dovuto ripensare ed estendere i propri margini di intervento. «Il fisioterapista palliativista ha un ruolo diverso dalla figura tradizionale. Esula da quello che è strettamente il ruolo in ambulatorio o in ospedale, anche semplicemente per il fatto che qui sono entrata a far parte di un’equipe multidisciplinare, composta da medici, infermieri, fisioterapisti e dietista nutrizionale».
Come cambia il ruolo del fisioterapista palliativista rispetto all’operatore tradizionale?
Alcuni colleghi fisioterapisti lo traducono nel non fare niente, ma non è assolutamente vero. Il fatto di non eseguire fisioterapia standard non significa non lavorare, perché il concetto di fisioterapia è ben più ampio. La verità è che non tutti sono in grado di fare i fisioterapisti palliativisti, molti scappano.
Adele Genchi, fisioterapista palliativista presso l’Hospice Casa delle Farfalle di Isola Del Liri. Fotografia di Martina Lambazzi
La tecnica è importante, anche per collaborare con gli altri professionisti e personale medico, ma in generale quello che faccio è accompagnare il paziente e la loro famiglia verso la consapevolezza che il paziente andrà progressivamente a perdere alcune abilità motorie. Quando il paziente entra in hospice, il medico fa la valutazione e a quel punto vengo chiamata per formulare il PAI (Piano Assistenziale Individualizzato). Il trattamento del paziente non è standard: si abbina a quelle che sono le sue condizioni ed esigenze specifiche, così come al supporto alla famiglia.
Qual è l’impatto psicologico della perdita della mobilità nel paziente? Come la affrontate insieme?
Cerco di conservare le abilità motorie dei pazienti dal primo momento in cui entrano in hospice, ma è pur vero che la perdita subentra e che gli stessi pazienti, ad un certo punto, se ne rendano conto. Quindi, iniziano ad avere paura della dipendenza verso tutto e tutti a cui li costringerà la malattia.
L’impatto psicologico è veramente molto forte, la comunicazione diventa una componente centrale, è quella che consente al paziente di andare avanti. Mentre lavoro parlo tanto con i miei pazienti, stabilisco un contatto. Le carezze, ad esempio, significano molto. Avevo un paziente che non riusciva ad esprimersi, quindi lo accarezzavo mentre parlavo con lui, che, a sua volta, cercava di comunicare con lo sguardo e muovendo la testa.
Il contatto che si stabilisce con i pazienti è importante. A volte mi fermo a parlare con loro anche soltanto per commentare qualche programma televisivo. L’importante è far capire loro che ci sono. Il tempo in hospice è dedicato e lento. Cerco di creare una relazione di ascolto, un contatto diretto.
Quando mi rendo conto che la perdita di mobilità non consente al paziente determinati movimenti, cerco di distrarlo, di spostare l’attenzione su altro, magari soffermandomi su quello che gli ruota intorno, come la famiglia. Succede spesso che il paziente, rendendosi conto della perdita di mobilità, si scoraggi e si blocchi ancora di più nei movimenti, quindi utilizzo la distrazione come strategia per incoraggiarlo e tranquillizzarlo e magari dopo un’ora riesce a compiere quel movimento che prima sembrava impossibile.
Il tempo all’interno di un hospice è diverso da quello esterno. Quale significato assume?
L’hospice è una realtà in cui si rivolge interesse al tempo, perché è essenziale. Tutti quanti noi operatori abbiamo bisogno di un tempo che va a rilento rispetto alle realtà esterne, perché – come dicevo prima – il paziente ha bisogno di essere ascoltato. Quello che svolgo non è soltanto un trattamento fisioterapico, esercizi per cercare di mantenere il più possibile le loro abilità motorie. A volte mi prendo cura di loro anche facendo delle passeggiate o soltanto ascoltandoli, concedendo loro un po’ di tempo. Mi adatto anche io man mano alle circostanze del momento.
Le cure globali possono tradursi in senso più ampio con il prendersi cura, che è una forma di amore alta. Cosa lascia a voi questo lavoro? Insomma, la carezza ha un significato come dicevamo prima…
Quando nel 2015 mi hanno proposto di entrare a far parte di questa realtà, non nascondo che ho avuto paura, perché si trattava di un mondo nuovo e sconosciuto per me. All’inizio, ma anche adesso per la verità, mi capita di fare dei bei pianti. È indispensabile lavorare su se stessi per non entrare in burnout, altrimenti non si riesce nemmeno ad amare quello che si sta facendo.
Capisco il dolore fisico e psicologico dei pazienti ed empatizzo con il dolore emotivo delle famiglie, però questo dolore non posso farlo totalmente mio, non potrei nemmeno aiutarli se lo facessi. Cerco di immedesimarmi nella loro sofferenza, ma allo stesso tempo di distaccarmene, per quanto difficile sia, perché non ci si abitua mai alla morte. Provo anche a confortare le colleghe arrivate dopo di me, così in qualche modo riesco a darmi conforto.
Ad oggi sono convinta del fatto che l’hospice non sia un punto di arrivo, dovrebbe essere per tutti noi invece un luogo di partenza. Fuori da queste finestre ci perdiamo dietro problemi che non sono realmente tali e si smette di dare valore alla vita.