La scelta di rispondere al male del reato con il male della pena è il presupposto sul quale si fonda il nostro modello di giustizia. Invocare la necessità di punire i colpevoli per difendere la pace sociale, però, sembra più un palliativo che una pratica risolutiva, un processo auto-assolutorio attraverso il quale ci si illude di garantire la propria sicurezza ricostruendo l’equilibrio turbato. Questa è la premessa da cui ha preso piede il confronto con Elisa Mauri, psicologa clinica e psicoterapeuta che opera anche all’interno delle carceri, una lunga conversazione grazie alla quale è stato possibile riflettere sui limiti della logica retributiva e sull’alternativa possibile: il modello di giustizia riparativa.
«In un libro tanto bello quanto duro, Fine pena: ora, Elvio Fassone racconta la sua esperienza di magistrato che a un certo punto si trova di fronte a un imputato con una carriera delinquenziale importante e il dolore di aver perso sua madre. Fassone sceglie di incontrare Salvatore, di non ridurlo alla sua carriera criminale, dando fiducia alla persona. Rispondere in maniera diversa ha portato qualcosa in quella relazione.
È ingenuo pensare che persone che arrivano a commettere reato possano iniziare a rispondere, per magia, ai problemi della vita in modo completamente diverso da come hanno fatto fino a quel momento. Dobbiamo essere noi, che forse abbiamo qualche strumento in più perché a certe difficoltà abbiamo reagito in maniera più sana, a fornire quegli strumenti per provare a vedere delle alternative. Bisogna iniziare a ribaltare questa aspettativa».
La figura professionale della psicoterapeuta in carcere: di accoglienza, ascolto e confronto
«Uno psicologo ha la possibilità di arrivare in carcere seguendo percorsi diversi. Può appartenere al servizio delle dipendenze, quindi al S.E.R.D., che si occupa delle persone tossicodipendenti all’interno degli istituti di pena, oppure può afferire all’area sanitaria, relativa alla psicologia clinica dell’ospedale referente della zona in cui si trova il carcere. In ultima istanza può essere alle dipendenze del ministero della Giustizia e rivestire il ruolo di esperto psicologo o esperta psicologa ex art. 80.
Per quanto riguarda il mio percorso, io ho iniziato a frequentare dei progetti che mi hanno consentito di entrare in carcere già dall’ultimo anno di università e poi ho scelto di proseguire su questa strada: volevo capire come avrei potuto essere utile nella mia professione all’interno di un ambiente così particolare. Ho fatto quattro anni di tirocinio all’interno di un carcere in Lombardia nell’area sanitaria, insieme agli psicologi clinici, nel frattempo in quegli anni ho partecipato a un concorso che successivamente ha dato forma a una graduatoria, quella a cui le carceri delle varie zone d’Italia fanno ricorso per richiedere disponibilità di ore agli esperti psicologi ex art. 80. Proprio negli ultimi mesi, attingendo da quella graduatoria, sono rientrata in carcere dopo un periodo di pausa rivestendo un ruolo per me nuovo.
In passato insieme a una mia collega ho condotto un gruppo di discussione con uomini adulti detenuti ed è stata un’esperienza molto interessante, che permetteva di creare all’interno del carcere un ambiente di ascolto, ma nello stesso tempo forniva occasione di confronto tra persone che vivevano la stessa realtà, provando a comprendere come una medesima situazione possa dar luogo a reazioni differenti. Purtroppo la difficoltà nel portare avanti delle attività all’interno delle carceri diventa un deterrente importante: esistono tante regole da rispettare, in più è difficile reperire fondi. Si interrompe la continuità dei progetti, il che significa interrompere anche una continuità relazionale con le persone con cui si è instaurata, e questo è un dispiacere per tutte le parti coinvolte».
I limiti della logica retributiva: dell’alternativa possibile e del perché abbiamo paura di attuarla
«La logica retributiva è nata nel XIX secolo insieme al carcere perché, non tutti lo sanno, il carcere non è sempre esistito. Prima della sua nascita si faceva ricorso alle punizioni corporali finché tra i governanti europei, nel XVIII secolo, è sorto il dubbio di poter essere assimilabili ai criminali sui quali veniva inflitta la pena con modalità cruente e forse anche molto soggettive, a seconda di chi attribuiva la punizione, dunque si è pensato bene di riformare il modo di punire chi commetteva reato: è qui che nasce il carcere e, di pari passo, la retorica della giustizia retributiva, la quale crea un nesso lineare e causale tra la gravità del reato e la pena che deve essere somministrata a chi lo commette.
La logica retributiva si incarna nel simbolo della bilancia, che per noi rappresenta la giustizia. Il male del reato, a cui collettivamente si sceglie di rispondere attraverso il male della pena, viene posto sul piatto della bilancia dalla persona che lo ha commesso. Il male della pena deve essere commisurato a quello del reato in modo tale che i piatti della bilancia tornino nuovamente in stato di equilibrio, tuttavia il limite più importante della logica retributiva sta proprio nel fatto che, anche se sono passati secoli, si rimane fermi nel rispondere al male del reato con il male legato alla sofferenza di una pena, seppur cambiata nella sua manifestazione perché non colpisce più il corpo delle persone condannate come accadeva prima che esistesse il carcere. Foucault ci suggerisce che ora ad essere giudicata è l’anima dei condannati: sono cambiate le modalità della pena e si è costruita la retorica della giustizia retributiva secondo la quale si va a giustificare l’esistenza del carcere sulla base di un’azione che è solo quella del reo. Questo sistema della bilancia, chiamato tecnicamente sistema del corrispettivo, purtroppo non fa altro che moltiplicare la sofferenza non solo delle singole persone – di coloro che hanno commesso reato, delle persone che stanno loro vicino, delle vittime – ma anche della società tutta. Basta guardare i dati sulla recidiva per comprendere che questa modalità punitiva crea un circolo vizioso che produce solo dolore, non sicurezza sociale né tanto meno cambiamento.
Quasi nessuno sa, almeno a livello popolare, che esiste un’alternativa: il modello di giustizia riparativa. Se ne parla poco e lo si fa soprattutto in ambito accademico, dunque rischia di rimanere un argomento di nicchia. Questo modello riparativo si fonda sostanzialmente sul concetto di corresponsabilità sociale, ciò significa che tutti gli attori in gioco sono coinvolti nel processo riparativo: i rei, le vittime, la comunità in cui lo strappo del legame sociale rappresentato dal reato avviene. Si tratta certamente di una strada più complessa, perché ci mette davanti alla necessità di toglierci la maschera come comunità costituita da persone innocenti e ci mette di fronte alla responsabilità di dover guardare una realtà scomoda, ossia il fatto che il reato non è semplicemente frutto della follia, della stortura della personalità di un singolo individuo, ma è l’epilogo di una storia che generalmente è fatta di sofferenza, di privazione, ma che può avere delle radici anche in mancanze sociali. In questo senso è utile capire che, oltre alla rieducazione della singola persona che ha commesso un’azione sbagliata, ci sarebbe del lavoro da fare legato proprio al tessuto sociale».
La giustizia riparativa: della soggettività del perdono e dell’importanza salvifica dell’incontro
«La parola perdono, a cui spesso ruota attorno la discussione sulla giustizia riparativa, per noi che abbiamo un sostrato culturale religioso implicitamente porta con sé delle rappresentazioni che forse tutti abbiamo in parte assimilato. La giustizia riparativa conduce prima di tutto le singole persone, quindi i rei e le vittime, ad elaborare i loro vissuti insieme a ciò che è accaduto e poi, in un secondo momento, permette a queste persone di incontrarsi all’interno di un dialogo che prevede anche, per esempio, la partecipazione di esponenti della comunità.
Ciò che ritengo importante è l’incontro, il fatto che finalmente siamo gli uni di fronte agli altri e ciascuno porta i propri testi di una narrazione che ha sconvolto e travolto le vite di tutti, in modi diversi. È qui che sta la ricchezza, nel fatto che ci si reincontra dopo il reato, ci si incontra nel dialogo e si sta nella relazione, perché è nella relazione che vanno costruiti i legami. Si dice spesso che i detenuti a un certo punto devono uscire dal carcere, devono rimettersi nel tessuto sociale, però il punto è che bisogna prima re-introdursi nella relazione con le altre persone, con la comunità e forse prima di tutto con sé stessi.
La questione del perdono, quindi, è qualcosa di estremamente soggettivo che segue processi molto personali. C’è chi si sente di utilizzare la parola perdono chi invece la parola riconoscimento, io penso che al di là di questo la questione fondamentale sia che dopo il reato ci si incontra nuovamente, ci si riguarda in faccia e lo si fa a partire da un’assunzione di responsabilità che a quel punto è distribuita su tutti gli attori in gioco, invece di essere delegata solo a chi ha commesso uno sbaglio».
De-umanizzare l’altro: della legittimazione di un desiderio sopito di vendetta
«Il carcere è un tipo di istituzione totale come ce ne sono altre: il manicomio, l’esercito, la chiesa. L’istituzione totale è un “ibrido sociale”, così come lo definisce Erving Goffman, che ha delle caratteristiche molto particolari: l’obiettivo è quello di riformare l’anima delle persone, ciò si rende possibile totalizzando la loro esistenza. L’istituzione totale, sostiene ancora Goffman, si manifesta quando non c’è più separazione tra tre ambiti di vita: il lavoro, il divertimento e il luogo in cui si dorme. Le caratteristiche intrinseche dell’istituzione totale attaccano sistematicamente la psiche della persona, la sua parte più vitale. Il risultato in genere è un indebolimento psicologico di questa parte vitale e tutto questo non giova a nessuno nella realtà dei fatti: né a chi sperimenta tale condizione né a chi sta al di là del muro pensando che il carcere sia la soluzione per il mantenimento della sicurezza sociale.
Questo tipo di modalità punitiva di cui il carcere è figlio forse appaga una sete di vendetta che più o meno consciamente ci portiamo dietro a livello collettivo, mi viene in mente chi di fronte al caso mediatico chiede la “certezza della pena” o afferma che bisognerebbe “buttare via la chiave”. Sicuramente un tempo la sofferenza dei supplizi era molto esplicita perché veniva inflitta sul corpo ed esposta nella pubblica piazza affinché fosse da monito per tutti i cittadini, adesso la sofferenza è diventata qualcosa di più sottile – perché è psicologica – e viene perpetrata in un luogo lontano, dove chi sta fuori non sa cosa accade dentro. Il problema è che quando non abbiamo contezza di quanto certe nostre azioni possano far male all’altra persona diventiamo più sadici, continuiamo a perpetrarle perché non abbiamo modo di sentire qual è il grado di sofferenza dell’altro. Non abbiamo contezza di cosa significhi realmente “certezza della pena” o “buttare la chiave” perché quella parte è delegata a luoghi specifici di cui nessuno sa niente ma tutti immaginano qualcosa, spesso travisando e stereotipizzando la realtà.
Creare questi asili dedicati che sono le carceri, dunque, chiaramente dice qualcosa anche a livello collettivo. Quello che si fa è concentrare lì dentro le persone che hanno determinate caratteristiche, mentre fuori ci sono gli altri: i buoni. È chiaro che chi sta al di là del muro si sente assolto, ma mi pare che l’essere umano sia più complesso di così».
Il carcere attraverso i media: di pregiudizi e assenza di autenticità
«Quando si parla di cronaca nera il problema è che la narrazione viene appiattita. Si parla sempre di dati di fatto concatenati tra loro in una causalità lineare, mentre dietro e dentro il reato c’è una storia molto complessa e serve tempo per poter focalizzare, nonché competenze specifiche per poterla recuperare. Questo processo di recupero viene fatto all’interno di una bolla che non arriva al di fuori del carcere, tanto meno ai mass media. A loro giungono dei frammenti, spesso rimaneggiati per poter sostanziare quella che un sociologo chiamava la “comunità del rancore”.
A mio avviso ci sarebbero tre cose da fare. La prima è sospendere il giudizio, il che va a braccetto con la necessità di doverci rassegnare al fatto che non sappiamo granché di ciò che accade quando una persona commette reato. Le informazioni che arrivano a noi sono poche e non sono sufficienti per poter decretare la verità. Una verità non so neanche se esiste, ma in ogni caso si può ricostruire un contesto nel tempo. Dovremmo poi smettere di ridurre le persone al loro reato. Se riduciamo una persona a un comportamento e non le diamo la possibilità di identificarsi con qualcosa di diverso non possiamo aspettarci che coltivi un progetto di vita sano.
Bisogna renderci conto che anche se siamo dietro a un computer a scrivere forse stiamo alimentando delle modalità narrative che non fanno altro che lasciarci immobili all’interno del circolo vizioso e retributivo di cui abbiamo parlato».