Per trattare il tema della malattia terminale, connesso al fine vita e alle cure palliative, ci siamo confrontati con gli operatori e le operatrici che prestano servizio all’Hospice di Isola del Liri, “Casa delle Farfalle”. In questa prima intervista l’assistente sociale Anna Iovacchini lascia il proprio contributo rendendoci partecipi del suo vissuto personale e portando come esempio due storie di vita complesse, che l’hanno spinta ad esporsi come professionista per trovare una soluzione.
«Quando mi è stato proposto di lavorare in hospice come assistente sociale mi sono chiesta se fossi in grado emotivamente di reggere un’esperienza del genere e, di conseguenza, mi sono interrogata sul mio rapporto con la morte. In genere rispetto alla morte esistono due tipi di atteggiamento: allontanarsi per scongiurarla oppure avvicinarsi per poterla affrontare. Io ho scelto la seconda opzione. In parte per capire da vicino cosa fosse realmente, in parte perché sapevo che ce ne era un enorme bisogno.
Nel momento in cui capisci che si muore ogni giorno, la morte diventa banale. Non si tratta di un evento estremo e raro, accade tutti i giorni e forse dovrebbe farci meno paura. Diminuendo la drammaticità della morte aumenta di conseguenza il valore della vita. Oltretutto ho dato un valore diverso al tempo, perché chi viene qui ha un’aspettativa di vita inferiore a tre mesi quindi vuol dire che per queste persone esiste un punto fermo. Non ci pensiamo mai, quando hai un punto fermo c’è un tempo e questo tempo dà valore alle cose che hai da fare. Lavorare qui ha dato un senso alla mia vita sicuramente diverso».
L’Hospice “Casa delle Farfalle”.
La storia di Chérie
«Ricordo la storia di una donna che in giovane età aveva conosciuto un uomo, un carabiniere, di cui si era innamorata. Lui è stato immediatamente trasferito, lei è andata a vivere in Francia sposando poi un altro uomo. A distanza di tanti anni, rimasti vedovi, si sono rincontrati, sono andati a vivere insieme finché lei non è arrivata all’hospice con un tumore. Si adoravano, lui la chiamava Chérie. Mentre era ricoverata questa donna aspettava che la figlia dalla Francia la venisse a cercare, quasi come se non volesse abbandonarsi alla morte prima di quel momento. Ma non è mai arrivata.
Fotografia di Martina LambazziNessuno è venuto a prendere il corpo, lui non poteva fare nulla perché non erano sposati. Tramite l’ambasciata francese ho contattato la figlia che ha mandato un carro funebre affinché il corpo venisse trasportato in Francia. Lui voleva seguirla, non sapeva dove fosse. Così, sempre grazie all’ambasciata, ha scoperto che era sepolta in un paese della Francia, ha preso un aereo con il figlio e in un solo giorno è andato al cimitero. È tornato qui con delle foto, sconvolto, e ripeteva: “ho trovato Chérie”.
Mi ha raccontato che non riusciva a trovare il nome sulla tomba, ma poi ha avvertito come una forza che lo spingeva verso un cumulo di terra messa male. Quando è arrivato il custode hanno capito che si trattava di Chérie, allora ha posato un fiore su quel mucchio di terra. In questo modo, stringendo la foto della compagna tra le mani e avendo trovato il posto in cui era seppellita, quest’uomo ha fisicizzato l’idea di morte. Il sepolcro – come scriveva Foscolo – non è necessario a chi muore, ha una funzione per chi resta in vita: non abbiamo una tale capacità di astrazione, abbiamo necessità di mentalizzare. Quando le persone muoiono, fateci caso, c’è chi conserva la foto e il lumino in casa certi che l’anima del defunto sia con loro, chi invece è legato al cimitero proprio perché riesce a pensare che il corpo è là».
L’Hospice “Casa delle Farfalle”.
La storia di Costantin
«Ho conosciuto una famiglia di origine rumena. Moglie, marito e tre figli sono arrivati qui senza mai riuscire a prendere il permesso di soggiorno, perché se non hai un lavoro regolare non puoi avere la residenza. Vivevano in un Comune del Frusinate ma i figli non avevano la possibilità di andare a scuola perché non erano iscritti all’anagrafe, la moglie era malata di tumore e non poteva ricevere cure perché non possedeva i documenti, neanche la tessera sanitaria.
Un giorno è arrivata da me un’insegnante che cercava di aiutarli. A quel punto ho deciso di chiamare la Asl di Isola del Liri e ho chiesto di preparare dei documenti provvisori per far sì che lei potesse essere ricoverata in hospice. Ho attivato la Caritas e aiutato lui – Costantin – a cercare lavoro, ma non c’è stato verso. La signora, non avendo mai ricevuto cure mediche, nel frattempo è morta. Abbiamo organizzato un funerale tramite il Comune al quale eravamo presenti io, Costantin e i suoi figli. L’abbiamo seppellita qui a Isola del Liri, rispettando quanto previsto dalla legge per le persone indigenti. È stata una delle cose più tristi della mia vita.
Fotografia di Martina LambazziHo cercato poi di far tornare il marito e i figli in Romania, ma lui ha scoperto di avere un tumore al rene. Progettavamo che due dei ragazzi andassero a Londra insieme al primo figlio che viveva già lì per lavoro, ma si rifiutavano di lasciare il padre, solo, in Italia. Costantin ha finalmente ottenuto il foglio di via per tornare in Romania, è partito mentre i suoi figli volavano a Londra. Ho saputo che è morto poco dopo».
L’Hospice “Casa delle Farfalle”.
«Non si muore facilmente»
«La legge prevede che venga riservato un sostegno post lutto ai familiari. A volte li indirizziamo nei centri di salute mentale, in qualche caso particolare – è raro – tornano per fare i volontari.
Chi lavora all’hospice vive un’esperienza umana fortissima e forse tutti dovrebbero affacciarsi a questo mondo. È un mondo soglia tra due condizioni: la vita e la morte. Le tocchi con mano entrambe. Non dobbiamo scongiurare la morte. Voglio rivolgermi soprattutto a chi pensa che non ci sia bisogno dell’eutanasia o delle cure terminali, dovrebbero vedere quanta sofferenza abita questi luoghi e quanto è difficile morire. Non si muore facilmente. Se vedi come si soffre, capisci quanto è importante dare dignità alle persone nel momento della morte. In Italia siamo in ritardo su questo. Il mondo cattolico ci ha insegnato che soffrire è una forma di espiazione, ma credo che non sia dignitoso. Dobbiamo aprire una finestra su questi temi perché la morte esiste ed è una realtà. Perché la morte, come la vita, è uno dei momenti più importanti della nostra esistenza».