Nella seconda parte dell’intervista a Lucio Maciocia, psicoterapeuta e responsabile U.O.C. Patologie da Dipendenza della Asl di Frosinone, abbiamo affrontato lo stretto legame che intercorre tra l’utilizzo di sostanze psicotrope e l’origine sociale della manifestazione di questo disagio, oltre al ruolo centrante dell’identità sessuale maschile e femminile nella dipendenza.
«Il soddisfacimento del bisogno non ha molto a che fare con il meccanismo del piacere, ma con la capacità di mediare il piacere tramite un pensiero»
«Il Ser.D nasce intorno all’emergenza dell’uso di eroina, negli anni ’70-’80, ma oggi è in atto una trasformazione molto grande rispetto alle dipendenze: l’eroina, ad esempio, sta diventando una delle tante sostanze, non è quella che incide più profondamente. Tempo fa si sosteneva che le dipendenze fossero fortemente connesse a un contesto sociale di grande difficoltà e all’identità sessuale. Le dipendenze da sostanze, soprattutto eroina o cocaina, erano dunque l’espressione di una malattia sociale che aveva a che fare con l’identità sessuale del maschio, mentre le dipendenze alimentari erano connesse all’identità femminile. Oggi le cose sono più confuse, più difficili da trattare, e probabilmente entrambe le forme di dipendenza rimandano alla questione dell’identità sessuale.
In alcuni casi troviamo ancora una permanenza di caratteristiche sociali abbastanza forti, nel senso che le carriere di dipendenza dalle sostanze iniziano presto ed è possibile intercettare dei segnali abbastanza decisi: la maggior parte delle persone ha iniziato con disturbi di vario tipo, con l’abbandono scolastico durante la scuola media superiore, con difficoltà familiari di diversa natura. Prima inizia questa carriera maggiori sono le difficoltà, perché dal punto di vista scientifico vengono compromesse alcune funzionalità mentali e si corre il grande rischio che alcune modalità di formazione del pensiero non si sviluppino mai.
Per intenderci, in base agli studi condotti in America rispetto alle conseguenze delle dipendenze da sostanze psicotrope sappiamo che il nucleo attaccato dalla sostanza riguarda la parte antica del cervello, ma ad essere coinvolta è soprattutto quella relativa allo stato di attenzione rispetto all’ambiente. Si porta comunemente l’esempio del cerbiatto che si dirige con circospezione alla sorgente d’acqua – la fonte del soddisfacimento primario – mediando tra il bisogno di bere e il rischio che corre nell’avvicinarsi. Le sostanze psicotrope influiscono in maniera pesante su questo tipo di meccanismo, viene a mancare la capacità di preoccuparsi delle conseguenze dell’azione: si va ad assumere acqua pur sapendo, o non tenendo conto, del rischio che possa esserci un coccodrillo. Da un lato abbiamo un istinto naturale di sopravvivenza che si struttura, dall’altro un atteggiamento più complesso – di tipo sociale – che l’assunzione di sostanze non permette di strutturare nella mente di una persona.
Fotografia di Francesco Formica. Lucio Maciocia al Ser.D di Frosinone
Il soddisfacimento del bisogno non ha molto a che fare con il meccanismo del piacere, ma con la capacità di mediare il piacere tramite un pensiero rispetto ai rischi che si corrono: nel momento in cui salta tale processo si perde la percezione del rischio. A questo va aggiunta una povertà culturale molto forte conseguente all’abbandono scolastico – il cervello, come ogni parte del nostro corpo, deve essere usato per ristrutturarsi al meglio, perché meno si usa e più le risposte diventano stereotipali – tale per cui nel momento in cui emerge una ripresa della dispersione scolastica si verifica un aumento generalizzato delle forme di dipendenza da Internet o dei NEET (Not in Education, Employment or Training). Tutte queste espressioni sono forme di manifestazione di un disagio estremamente alto e diventa più facile incontrare le sostanze o anche il disagio mentale.
Attualmente ci stiamo occupando molto delle forme di dipendenza da realtà virtuali da gioco d’azzardo, fenomeni abbastanza nuovi che stanno emergendo e sui quali è difficilissimo intervenire perché non c’è una percezione del rischio così elevata. Ci rendiamo conto che più ampia è la distanza tra la prima soluzione e la strutturazione di un comportamento di abitudine all’assunzione, o di un comportamento malsano, maggiore è il tempo in cui si rimane all’interno del disturbo, perché bisogna recuperare una serie di funzioni mentali che non sono mai state praticate. Questo tempo di latenza dipende moltissimo dal fatto che se il ragazzo è in stato di completo matrimonio con la sostanza non percepisce la difficoltà o se la tiene per sé o può pensare che dipenda tutto da lui. Bisogna dire poi che quando la famiglia – l’altro nostro punto di riferimento – se ne accorge è già passato un tempo infinito. I genitori provano a rivestirsi di carattere e passa ancora del tempo, ma quasi mai riescono a trovare delle soluzioni interne perché molto spesso questi comportamenti sono fortemente legati a disfunzioni di tipo familiare. Un’altra grande difficoltà, quindi, è convincere le famiglie che oltre i figli devono essere aiutate anche loro.
Spesso noi clinici diciamo che si diventa migliori passando dentro il dolore. Anche chi sceglie di studiare psicologia durante il percorso si rende conto di dover lavorare su di sé, perché per poter servire gli altri devi riconoscere in te quello che non è andato e utilizzare la capacità di essere passato attraverso il dolore personale per sentire il dolore dell’altro. Un ex tossicodipendente che è passato attraverso questo processo e ha acquisito questa capacità è una persona straordinaria, è una persona che, in qualche maniera, è emotivamente immediatamente vicino all’altro».
«L’universo femminile ha un rapporto con il corpo molto più forte rispetto agli uomini. Una rabbia molto più codificata, più grande»
«Un tempo la distanza tra maschi e femmine nell’uso di sostanze era più chiara ma, sebbene adesso sia maggiormente sfumata, alcune forme di dipendenza da sostanze sono prettamente maschili e rimandano a una confusione rispetto all’identità del maschio, a una difficoltà nell’evidenziarla. Di solito una donna che usa sostanze manifesta una rabbia più grande, ciononostante nei momenti in cui riesce a trovare un sentiero i cambiamenti sono straordinari, la capacità mentale risulta superiore. Spesso nel maschio c’è una povertà culturale che rappresenta un ostacolo molto grande al recupero di una capacità di pensiero.
Tra i progetti di cui ci stiamo occupando ce ne è uno particolarmente interessante che avrà luogo a “Nuovi Orizzonti”, Cittadella Cielo, che prevede la realizzazione di un centro d’accoglienza residenziale per donne. L’universo femminile ha un rapporto con il corpo molto più forte rispetto agli uomini, una rabbia molto più codificata, più grande. In genere quando una donna decide di intraprendere un percorso di cura esprime una forza straordinaria e una capacità di resistere al dolore decisamente diversa, inoltre è più semplice lasciarsi coinvolgere in un discorso psicologico: con il pensiero avete molto più a che fare, non c’è ombra di dubbio. Il rapporto con il vostro corpo vi obbliga ad avvertire il tempo e dovete fare i conti con le manifestazioni corporali, quindi siete direttamente legate alle emozioni. Sarebbe importante rivolgere un’educazione sessuale ai maschi, c’è bisogno di ragionare sull’identità sessuale maschile, mentre voi dovete rapportarvi immediatamente con una serie di questioni: che donna sono? Mi sposo? Lo faccio un figlio? Siamo di fronte a una corporeità ben più grande, anche il senso del tempo è molto forte.
Riflettendo, sulla base della mia esperienza, credo che ci siano due tipi di onnipotenza, prendendo ad esempio l’anoressia e la dipendenza da cocaina. L’anoressia, tipicamente femminile, è un tentativo di controllo onnipotente del proprio corpo: controllo le mie mestruazioni – svaniscono – controllo la mia sessualità – sparisce – e si tratta di un pensiero concreto, molto forte. L’anoressia ha a che fare con l’identità sessuale, con la funzione dell’essere donna. Ha a che fare con una sorta di conflittualità e una fortissima connivenza con la madre, la quale diventa complice il più delle volte.
Dall’altro lato, il maschio che fa uso di cocaina assume la sostanza come surrogato di un’identità ripetendo a se stesso: “io sono onnipotente, io posso fare quello che diavolo mi pare, io mi costruisco il successo”. La cocaina è spesso associata alla manifestazione di successo, all’idea di essere un grande uomo. Con questa sostanza a ogni altezza corrisponde una sensazione intima e nascosta di impotenza assoluta, ci si spezza. Il cocainomane è duplice e ha in sé onnipotenza e frustrazione: più questa è nascosta – più da dolore – maggiore è il tentativo di supplire con la cocaina e la distanza aumenta, per cui non è più possibile trovare un proprio nucleo di capacità se non attraverso la sostanza. L’identità, quindi, è l’onnipotenza costruita su una incapacità relazionale. Da una parte c’è un corpo che domino, una realtà con degli effetti concreti, dall’altra una mente che funziona come surrogato creando un’identità fasulla di cui non si ha alcuna consapevolezza».