Umani si diventa, non si è. E questo processo di foggiatura coinvolge in maniera prepotente il corpo, costantemente in bilico tra soggezione e libertà, tra capacità di autodeterminarsi e interiorizzazione di norme. La certezza di essere-nel-mondo con un corpo proprio non assicura la possibilità di disporne liberamente.
Dall’interruzione di gravidanza alla scelta di avere un figlio, dal lavoro sessuale alla nudità esibita come rivendicazione o espressione di sé, il corpo – nello specifico quello femminile – è bersaglio di battaglie normative che mirano a individuare la forma più corretta per esistere. Ogni corpo è una storia, ma possiamo davvero considerarci autori o avanziamo sotto dettatura?
Il corpo tra soggezione e libertà: lo strumento del controllo
Nel libro Fat Shame. Lo stigma del corpo grasso, Amy Erdman Farrell traccia la storia dei corpi non conformi suggerendo che, lungi dal rappresentare uno strumento di libertà, il corpo è stato utilizzato nel tempo, più o meno consapevolmente, come dispositivo di controllo.
L’avvento della modernità istituisce dei canoni dai quali è vietato discostarsi pena la marginalizzazione e alla fine dell’Ottocento il corpo inizia ad essere utilizzato per creare delle categorie superiori, per costruire non soltanto l’identità bianca e giustificarne la superiorità, ma anche un corpo degno di godere della piena cittadinanza.
Con il beneplacito della scienza e della medicina si costruisce una gerarchia a base etnica che celebra gli europei e relega al fondo gli africani e i nativi americani, inoltre prende avvio un processo di marginalizzazione che coinvolge le donne e il corpo grasso, associato alle persone di colore e quindi allo stadio primitivo dello sviluppo umano.
La modernità, spesso intesa come epoca della libertà e del progresso, condanna alcune esistenze al margine e lo fa agendo su qualcosa che abbiamo modo di manipolare ma di cui non possiamo liberarci: il corpo.
Il corpo vive – e ci condanna a vivere – in un’antitesi irriducibile. È un tempio da arredare e al contempo una prigione che ci ricorda la nostra tangibilità, ci conduce a una forma e impedisce la fuga nel non-essere. È soggetto e oggetto poiché guarda ma essendo guardato non può far altro che scoprirsi esistente.
Schiena di una donna. Fotografia di Martina Lambazzi
Il corpo tra soggezione e libertà presenta i segni del potere su di sé ogniqualvolta viene ridotto dall’esterno a una funzione, resa attributo dell’essere nella sua totalità: lo sanno bene le donne che, ancora oggi, cercano un equilibrio in una società che santifica il loro corpo di madri e lo oggettivizza quando è espressione di femminilità – qualsiasi sia l’idea di femminilità incarnata. La lotta tra affermazione e subordinazione è sempre in atto e la sfida risiede nella ricerca degli strumenti che rendano il “corpo docile” un soggetto agente.
Il corpo oltre la soggezione, verso la libertà: la nudità come strumento politico
Durante gli anni ’70, nel pieno della seconda ondata femminista, compare lo slogan “Il personale è politico”, attribuito all’attivista Carol Hanisch, fondamentale per la risemantizzazione delle esperienze personali che si trasformano in esperienze collettive. Questa espressione è utile per leggere le azioni rivoluzionarie condotte proprio attraverso il corpo e, nello specifico, il corpo nudo.
Il collettivo Femen, nato nel 2008 a Kiev, è diventato il manifesto di un’azione politica che parte dal corpo e si esprime attraverso la nudità scendendo in piazza in opposizione alle ingiustizie e alla società patriarcale. In un’intervista realizzata da Maura Gancitano, fondatrice di Tlon, Inna Schevchenko spiega il senso delle azioni del movimento: «noi donne siamo le legittime proprietarie di questi corpi. Siamo noi a decidere quale sia il loro significato, quando possono essere corpi sessuali e quando corpi politici. E quando possono non avere alcun significato oltre al fatto di essere il mio corpo».
È così che l’essere umano esprime la propria forza: trovando il coraggio di definirsi contro-natura e accettando la fragilità dei propri modelli di riferimento. Scrivere autonomamente la semantica del proprio corpo è un atto politico e diventa l’unico modo possibile per rifiutare la sacralizzazione come l’oggettificazione, per trovare una sintesi tra soggezione e libertà, tornando ad essere veicolo di un messaggio autentico.
Fare umanità. Il processo di costruzione di esseri umani contro-natura
L’essere umano, gettato nel mondo con il proprio corpo nudo, ha inscritto da subito il tragico nelle pagine della sua esistenza. La natura, tanto nella tradizione religiosa quanto nella mitologia, condanna l’hybris dell’uomo suggerendogli che non bastare a se stessi è sinonimo di tracotanza e richiede il contrappeso di un’espiazione.
Orecchino. Fotografia di Martina Lambazzi
Porsi in contrasto con la natura, però, non rappresenta un vezzo, si impone come necessità. È la cultura a donare all’uomo la libertà di definirsi e questa libertà, veleno e antidoto, diventa humus della creatività nonché terreno di incertezza: tutto può essere creato, tutto può essere distrutto.
L’essere umano deve creare se stesso e il processo di costruzione di sé è ben rappresentato da quelli che vengono definiti rituali antropo-poietici, che spesso si giocano sul terreno del corpo. I baNande del Congo prima dell’olusumba, il rituale che segna il passaggio dalla vita infantile a quella adulta mediante la circoncisione del prepuzio, rivolgono una domanda alla divinità Katonda: Omundu, niki? “un uomo, che cos’è?”. Tale quesito esprime al contempo la forza e la fragilità dell’essere umano che ha bisogno di guardare fuori da sé interrogando il divino, rappresentazione di alterità in senso assoluto, per trovare risposte sul significato della propria esistenza.
Il corpo è centrale in questo processo di identificazione perché è attraverso un’incisione sulla pelle che ci si spoglia della forma di identità precedente incorporando quella successiva. Fare umanità, allora, significa manipolare il corpo, anche quando la natura di questi interventi non è strettamente funzionale alla sopravvivenza. Basti pensare al ruolo cardine assunto dalla bellezza nella società occidentale tanto che, a partire dal XIX secolo, si sviluppa attorno a questo ideale una vera e propria industria.
Ogni singola esistenza, dunque, è scandita dalla ricerca di senso, di un’identità che richiede una mediazione tra i canoni imposti dall’esterno e quelli suggeriti dalla propria volontà. Umano non è una qualità intrinseca dell’essere vivente. Umano è chi, sempre in bilico tra soggezione e libertà, si riserva la possibilità di tradire gli stessi modelli che ha creato.