Con Yasmin Riyahi, dottoranda in Storia dell’Arte Contemporanea presso Sapienza-Università di Roma, ci siamo confrontate sulla funzione politica dell’arte a partire dai momenti di protesta che nella storia hanno rappresentato fratture necessarie alla costruzione di un’identità individuale e collettiva.
«Protestare è un atto di cura per i valori in cui si crede, forse questa versione romantica ci permette di comprendere la ragione per cui le persone si mettono così tanto a rischio. La rottura difficilmente è dolce e gli attivisti di movimenti come Black Lives Matter o Just Stop Oil se ne stanno assumendo la responsabilità proprio perché tengono al messaggio che hanno scelto di lanciare, non perché hanno deciso di essere deliberatamente ribelli.
Esistono persone escluse sistematicamente dai vantaggi dell’accesso all’accademia, ai musei, al patrimonio, che stanno rivendicando la loro volontà di usare il museo come piazza, di ragionare sul patrimonio in una maniera radicale. Forse non siamo abituati a pensare che ci sono anche momenti di rottura nella costruzione».
L’arte ha una funzione politica. Come si esprime e perché è importante riconoscerla?
«Di solito arte e politica vengono correlate soltanto in relazione a opere che rimandano a tematiche sociali, in realtà tutta l’arte è sempre stata politica. Se il personale è politico, perché non dovrebbe esserlo qualsiasi espressione creativa delle persone?
L’arte non si esprime in una dimensione solipsistica, sia l’artista che le opere dialogano con il contesto nel quale sono inseriti. Penso alla Biennale del Sessantotto, ad esempio, luogo di forti proteste. Le opere del Padiglione Italia non erano “strettamente politiche”, ma gli artisti hanno aderito alla protesta girando le tele contro il muro e scrivendoci sopra: “La Biennale è fascista”. È un’azione politica, anche se di fatto quell’opera non esprimeva un messaggio sociale. Una volta considerato questo, si ridisegna il modo di guardare l’arte e di concepire le scelte artistiche e museali».
Qual è il rischio che si nasconde dietro al tentativo – se e quando c’è – di spogliare l’arte della sua dimensione politica?
«Il rischio è contemplare l’arte rendendola un’esperienza di consumo. Una volta che un’opera viene collocata all’interno di una dimensione politica più ampia, si avvia un processo di consapevolezza e di formazione politica personale che porta alla decostruzione di convinzioni. Guardare un museo, una mostra, un’opera d’arte aiuta anche a capire a cosa si è interessati, che cosa potrebbe avere un seguito e perché, che cosa non ce l’ha e perché. Per come la vedo io, si tratta di collocare in una linea di coerenza non soltanto la produzione artistica ma anche la persona che la contempla aiutandola nella sua formazione».
Hai citato l’atto di decostruzione. Mi viene in mente che l’arte, così strettamente connessa alla politica, può rappresentare uno strumento di conservazione del potere ma anche di rivendicazione, attraverso il quale si costruisce un’identità. Qual è allora il ruolo dell’arte nella costruzione di identità marginalizzate?
«L’artista, in quanto tale, sfrutta l’opera per costruire la propria identità. Nell’arte contemporanea, ad esempio, ha perso di senso guardare solo alla singola opera: è necessario rivolgersi in maniera più ampia alla ricerca dell’artista. Non a caso molte opere sono in serie, perché interessarsi alla produzione non è tanto un modo per ottenere delle risposte ma per porsi delle domande rispetto a un ambito di interesse.
Dal punto di vista di chi fruisce, poi, è essenziale. Guardare un’opera o esserne attratti determina una serie di preferenze e di scelte. Fruire un’opera, ragionare sul senso è parte della costruzione dell’identità. Per quanto riguarda me, interrogarmi sul senso di un’opera o sulle cose che sono successe nel mondo mi ha aiutata a investigare il mio posizionamento politico. Il mio modo di riflettere su questi argomenti è fare un’intervista, scrivere un articolo o produrre un paper scientifico, quello degli artisti è ragionare attraverso la produzione di un’opera. Sono modalità di avvicinamento diverse, ma è tutto sempre parte della costruzione di un’identità».
So che tra le questioni sulle quali ti sei interrogata c’è la pratica di abbattimento delle statue ad opera del movimento Black Lives Matter. Su cosa hai riflettuto nello specifico?
«Quando ho visto le prime opere abbattute, da storica dell’arte, la reazione di impatto è stata lo shock. L’immediato impulso che si prova, proprio perché attorno al patrimonio è stata posta un’aura, è lo sconvolgimento. Io quello sconvolgimento ho provato ad abbracciarlo. Mi sono chiesta perché mi desse fastidio e per quale ragione gli attivisti e le attiviste del movimento non provassero lo stesso sentimento di disagio. Sono veramente dei vandali – addirittura dei terroristi come qualcuno li ha definiti – o c’è una consapevolezza più profonda dietro i loro gesti?
Ho iniziato a fare delle ricerche sull’iconoclastia e mi sono accorta che esistevano altri fenomeni del genere. Quando i rivoluzionari francesi protestavano contro la monarchia, prima di decapitare il re hanno decapitato la testa delle statue che lo raffiguravano. L’immagine e la persona per loro erano intercambiabili. Abbattere Cristoforo Colombo, allora, significa distruggere quell’ideologia che ha impostato una serie di valori che non funzionano più per quella società. Va ridisegnata la città, insieme agli ideali della società che la abita. Una sola azione riesce a esprimerlo in maniera molto più esplicativa di qualsiasi articolo o raccolta firme. Gli attivisti, tra l’altro, chiedevano già da vent’anni alle istituzioni di rimuovere quella statua. Si sono assunti una responsabilità anche legale per essere ascoltati che non può liquidare l’atto a un gesto di vandalismo becero.
Parlare di vandalismo sembra un modo per depotenziare il gesto…
Ho citato la Rivoluzione Francese proprio perché è a quel tempo che nasce il concetto di vandalismo, insieme all’idea di conservazione del patrimonio. Per contrasto chi lo distrugge è un vandalo, inteso come un “barbaro” che non appartiene alla civiltà. Ancora adesso quando parliamo di vandali immaginiamo persone al di fuori della civiltà, degli invisibili forse. In realtà questo vandalismo è dentro di noi. La storia dell’arte è anche storia della distruzione di immagini.
Prendere l’episodio isolato più vicino a noi e ricondurlo ai talebani che hanno abbattuto i Buddha in Afghanistan vuol dire decontestualizzare il gesto di distruzione ed esprimere un giudizio sacrificando la complessità. Anch’io ho dovuto fare un percorso di decostruzione, perché non mi ero mai interrogata finora sul fatto che la conservazione fosse un fatto moderno – politico – e che dovesse essere ripensata. A partire dall’abbattimento delle statue ho ragionato su altre questioni, come le collezioni coloniali. Un conto è proteggere l’arte fine a sé stessa, un altro è chiedersi per quale società stiamo conservando e che cosa stiamo raccontando».
Ultimamente si è parlato tanto della fantomatica distruzione di un’opera di Van Gogh da parte del collettivo ambientalista Just Stop Oil. Anche in questo caso la protesta è stata letta dalla maggioranza come un atto di vandalismo, ma è possibile evidenziare l’elemento della scelta in un gesto che a prima vista viene letto come distruttivo?
«Per me è naturale interrogarmi sulla ragione che si nasconde dietro una protesta, anziché definire le persone che la portano avanti come degli incivili. In questo periodo molte persone si sono chieste cosa c’entri l’arte con l’ambiente. Be’, la conservazione non esiste se l’ambiente collassa, inoltre l’arte – in teoria – appartiene a tutti. Queste persone sono dentro la nostra società e ragionano all’interno di uno spazio che appartiene a tutti, ossia un museo. Pensiamo anche alla filantropia tossica, tante aziende che finanziano i musei distribuiscono gas fossile.
Non è la prima volta che si parla di ambiente all’interno dei musei ma finché è un artista ad occuparsene sembra accettato, quando si tratta di attivisti e attiviste si parla di vandalismo. L’errore in questo caso è stato anche di natura comunicativa perché le riviste hanno parlato di distruzione delle opere omettendo il fatto che erano protette da un vetro.
Nel caso di Just Stop Oil sono state scelte opere che hanno a che fare con il paesaggio, la natura, l’ambiente come ad esempio L’urlo di Munch. L’obiettivo non è distruggere, ma lanciare un messaggio. Sono consapevoli che quello che fanno è illegale, ciononostante per loro il messaggio è così importante che si mettono a rischio. Queste persone, marginali rispetto ai discorsi egemoni, hanno bisogno di segnalare dei problemi perché il sistema ignora cose che sono lampanti e problematiche. Bisogna abbracciare lo sconvolgimento e capire cosa c’è dietro».
Poco fa hai citato le collezioni coloniali. Ti chiedo, allora, per quale ragione il discorso sulla decolonialità museale non trova spazio all’interno del discorso?
«Cito un libro che per me rappresenta un punto di riferimento, Decolonialità e privilegio: Pratiche femministe e critica al sistema-mondo di Rachele Borghi, grazie al quale ho riflettuto sul punto di vista della persona con privilegio che spesso non si rende conto della colonialità del sapere ancora imperante. Spesso ci fregiamo di valori “democratici” ma poche persone, di fatto, hanno accesso ai servizi culturali. Facile dire che il museo è di tutti e di tutte, ma questo è vero solo a metà. Borghi intercetta l’importanza di decostruire i territori mentali che impongono un certo approccio al mondo, anche perché cresciamo in una società che non ci indica queste versioni dei fatti. A partire da qui ho riflettuto sulle tematiche di mio interesse. Dunque, se la statua di Cristoforo Colombo, di fronte alla quale passo tutti i giorni per andare a lavorare, mi ricorda la storia dei miei avi schiavizzati e qualcuno mi impone la sua presenza nella piazza in nome di un patrimonio che deve appartenere a tutti e a tutte, il valore democratico di cui ci si fregia viene utilizzato per opprimere la mia libertà.
Mi viene in mente la vicenda di Sam Durant, un artista contemporaneo nato a Seattle e interessato a questioni relative ai diritti umani. In occasione della Documenta di Kassel nel 2012, in Germania, ha creato un’istallazione gigante che rimandava a una forca per impiccagione facendo riferimento agli episodi più significativi della storia americana. Di fatto era una ricerca sulle persone condannate a morte per impiccagione nella storia e sulle incarcerazioni negli Stati Uniti d’America, dove i suoi studi segnalavano la stragrande maggioranza di condanne nei confronti di persone nere o indigene.
Questa opera è stata acquistata qualche anno dopo dal Walker Art Center di Minneapolis per volere della direttrice, la quale, armata delle migliori intenzioni, era convinta che potesse rappresentare una denuncia sociale da esprimere negli Stati Uniti. Secondo la società indigena locale, invece, si trattava della rievocazione dolorosa di un trauma. Attraverso le loro proteste chiedevano la rimozione. L’opera infatti richiamava la strage di Mankato, la più grande esecuzione di massa della storia nella quale sono state uccisi 38 condannati indigeni. L’artista ha deciso di cedere l’opera alla comunità Dakota, che è stata smontata e seppellita in un posto segreto.
Sam Durant ha un posizionamento sociale di uomo bianco e occidentale. Ha tentato di aiutare gli altri, non rendendosi conto di aver saturato lo spazio a disposizione con la sua voce egemone. In questo caso la consapevolezza che non si trattava di una storia da denunciare ma della rievocazione di un trauma è emersa dalle soggettività non tradizionalmente autorizzate a innescare spazi di apprendimento per la comunità, dal margine per dirlo come bell hooks. Neanche il museo poteva saperlo, nonostante fosse un’entità locale, perché in quel board non c’era nessuna persona indigena. E anche questo è significativo. A partire da qui l’artista ha decostruito il proprio pensiero e ha realizzato una serie di disegni di persone che abbattono le statue nella storia: Iconoclasm».
Il concetto di conservazione del patrimonio, ciò di cui abbiamo parlato sino ad ora, sembra indicare un paradosso. La scelta di conservare alcune opere concorre a creare l’identità di una società, che però rischia di irrigidirsi marginalizzando altre forme identitarie. Come si scioglie questo paradosso?
«L’idea di raccogliere e proteggere il patrimonio culturale nasce con i musei, quindi è relativamente moderna. Il museo, come spazio pubblico, forza il destino delle opere proteggendo dalla distruzione ciò che per noi, in quanto società, è importante. Si tratta di una scelta politica sicuramente, che va ripensata in termini contemporanei. Il British Museum raccoglie opere che appartengono ad altre comunità con l’intento di conservare una conoscenza che a noi manca. Questa scelta poteva essere accettata quando l’idea di cultura era di matrice illuminista, di impianto enciclopedico e presupposto “universale”; oggi mi rendo conto che l’opera esposta è stata sottratta a un Paese al quale è stata rubata la propria eredità.
Mi viene in mente un altro libro nel quale vengono trattate queste tematiche: Decolonizzare il museo: Mostrazioni, pratiche artistiche, sguardi incarnati, di Giulia Grechi. L’autrice esordisce citando una scena del film Black Panther nella quale l’antagonista, interpretato da Michael B. Jordan, visita il museo inglese nella sezione di arte africana. Tutti si avvicinano circospetti cercando di capire se fosse intenzionato a rubare, così lui risponde: “Secondo voi questa roba dai miei antenati come l’avete presa?”».
Prima di lasciarci vorrei chiederti, da ricercatrice, come si traducono questi discorsi all’interno dell’accademia?
«Il movimento per la rimozione delle statue, se ci pensi, parte dall’Università di Cape Town, nella quale era conservata la statua del fondatore Cecil Rhodes, che è stato anche schiavista. La rimozione della statua riguardava un discorso ampio condotto all’interno dell’ateneo relativo al fatto che nei corsi accademici veniva privilegiato l’approccio eurocentrico allo studio della storia, ad esempio.
L’Università è un ambiente in cui convivono delle contraddizioni, che ti fornisce gli strumenti per decostruire sé stesso. Nelle fasce più basse dell’accademia noto una consapevolezza diversa. Nonostante questo, chi frequenta l’università è consapevole di dover vivere con la frustrazione che non sempre tutto è ammissibile, perché alcune cose sono sistematicamente imposte. Ci sono spinte di decostruzione e di mantenimento dello status quo, ma vedo dei tentativi – sia dall’esterno che dall’interno – di forzarle».