Luca è il titolo del lungometraggio Disney Pixar distribuito sulla piattaforma Disney + nell’estate del 2021, diretto dal regista genovese Enrico Casarosa e sceneggiato da Mike Jones e Jesse Andrews. La storia è ambientata a Portorosso, un paesino immaginario della riviera Ligure e segue le avventure di Luca e un nuovo amico, Alberto. I due lasciano l’ambiente natio per inseguire una libertà che sembra prendere la forma di un viaggio in Vespa, ma entrambi condividono un segreto. Luca e Alberto si confondono nel borgo nascondendo l’identità di mostri marini, abitanti del mare che bagna il luogo dell’ambientazione. Durante la loro avventura faranno la conoscenza di alleati e nemici, insieme a nuove ambizioni e lati identitari.
I discorsi che nei mesi successivi all’uscita hanno circondato questo film raccolgono un’eredità complessa che ha a che fare con il vero potenziale dei prodotti audiovisivi: la possibilità di creare mondi in cui potersi riconoscere. La visione di Luca ha evocato in me la rappresentazione dei “perché” tipici dell’età infantile: l’ansia di scoprire e l’interesse per le grandi domande sono da sempre tratto distintivo del mondo dei bambini che, nello stereotipo corrente, trovano la risoluzione sperata nelle risposte degli adulti.
Col tempo però il ruolo verticale incarnato dalla responsabilità genitoriale è esploso, depositando i suoi detriti su dispositivi, schermi, personaggi e mondi e rendendo il panorama mediale, insieme all’arte in tutte le sue forme, fonte di insegnamenti oltre che fotografia della condizione odierna. Luca ha rappresentato, per me, una narrazione rivoluzionaria in questo senso, perché ho colto la possibilità non scontata di parlare, pur mancando del coraggio necessario per essere totalmente espliciti, al mondo dei bambini di discorsi identitari che, in questo contesto, chiamerò senza mezzi termini queerness.
Per me vedere Luca è stato come leggere Diane Richardson e i suoi discorsi sulle relazioni di genere e sul sesso come costrutto sociale; è stato come partecipare al pensiero di Judith Butler immergendomi nella visione del genere come performatività per cui il genere è qualcosa che “si fa”, un processo continuo basato sulla cultura che produce l’effetto (o l’illusione) di essere naturale e stabile.
Luca. Tra rivoluzione e buon costume.
Da un lato Luca raccoglie la Pixarvolt, ossia la tendenza dei film d’animazione di integrare idee e teorie, soprattutto queer, nella tradizionale forma di narrazione per bambini, i quali vengono intesi come non accoppiati, non romantici, senza moralità religiosa, senza paura della morte o del fallimento. La loro innocenza è espressione del loro essere queer, ossia la tendenza a reagire agli aspetti repressivi delle politiche identitarie con l’intento di sganciare la sessualità dall’eteronormatività e riportarla dentro le negoziazioni della vita quotidiana. La bellezza di questa idea legherebbe la sfida verso l’ordine sociale e politico alla purezza e delicatezza dei bambini usando la strada dell’inclusività, del coraggio e dell’accettazione.
D’altra parte Luca, come molti altri prodotti audiovisivi, raccoglie anche nelle sue parti migliori una tradizione del “buon costume” difficile da ignorare, velata soprattutto nelle forme e nei significati del queerbating, queercatching, queercoding le quali collaborano alla proliferazione di rappresentazioni stereotipate tragiche che cementificano la sensazione di ripugnanza da associare all’identità queer o il semplice rifiuto dell’andare oltre la mera illusione.
Ma quindi, Luca è un film che può essere letto e recepito come narrazione queer? Ufficialmente la Disney ha lasciato cadere nel vuoto ogni interpretazione di questo tipo, confermando un’unica decodificazione secondo cui i due protagonisti fanno parte di un’età preromantica nella quale simili allusioni sembrano non trovare attrito per restare. Vedendo di fatto scivolare via l’interpretazione di una categoria marginalizzata a favore di una storia su qualsiasi tipo di underdog, la Disney conferma lo stereotipo per cui eventuali narrazioni di carattere queer debbano in modo essenziale essere ricondotte a un universo sessualizzato in cui i bambini non hanno parte.
Luca. L’analisi filmica e l’attribuzione di significati.
Per come la vedo, Luca può essere ed è un’opportunità di presentare una narrazione dalle tematiche queer pur senza vantare un plot romantico o avere bisogno di sfumature adulte e morigerate. Il protagonista ha tutte le caratteristiche di una personalità curiosa e incerta, sa che il suo mondo ha molte sfaccettature in più rispetto a quelle che già conosce e la spinta ad osservarle tutte è talmente forte che il suo corpo non riesce a stare alle regole del mondo fisico. Il “sogno ad occhi aperti” è uno degli elementi infantili più ricchi di significato, è la rappresentazione simbolica che nasce da chi pensa che tutto sia possibile, che tutti possano essere chi sentono davvero di essere.
Luca incontra Alberto quando questo stimolo è già in moto, quando la curiosità è già manifesta. Quest’ultimo, anche grazie a qualche esperienza in più, incarna la possibilità di uscire fuori dall’elemento immaginifico della curiosità che Luca aveva fino a quel momento sperimentato per trasferirsi nel mondo terreno o, in questo caso, terrestre. Questa dimensione è assimilabile alla scoperta della sessualità, al sentimento che lega la consapevolezza di provare qualcosa che il resto della società sembra disprezzare, alla forza con cui si sceglie di non arrendersi alla pressione della norma e uscire per esplorare.
Il viaggio verso la conoscenza di sé inizia per Luca in questo modo, ossia grazie a qualcuno che come lui sente di poter essere altro oltre a ciò a cui era abituato, seppur con i leciti timori del caso. La direzione che presto prenderanno i due personaggi sarà sempre più specifica in termini di norma e accettazione. Questo sarà evidente quando vedremo in Alberto la realizzazione di aver disatteso gli insegnamenti della società, di aver avuto il coraggio di mostrarsi in pubblico per quello che era, «tu non sei come me, tu sei bravo» dirà a Luca. Con queste parole Alberto prova di essere a conoscenza delle regole ma anche di non essere bravo a giocare; vuole suggerire a Luca: «tu sai come non trasgredire, tu sai come performare», potremmo dire facendo uso delle espressioni di Judith Butler.
La narrazione continua seguendo le orme di un coming out, pervadendo la parte che riguarda il modo di rapportarsi con le relazioni. Avere qualcosa, o essere, nell’“armadio” indica quel che è nascosto o tenuto privato agli altri. “L’altro” è visibile su un primo livello nel rapporto che Luca ha con Alberto, nei confronti del quale compirà un tradimento attraverso l’outing, che a nient’altro serve se non a restare – nel caso di Luca – nella cerchia degli accettati. Secondariamente si manifesta nei rapporti tra gli abitanti di Portorosso e quelli del Mare in cui questi ultimi hanno paura dei terrestri e viceversa, ma con una importante differenza: i mostri marini sanno di dover usare la paura per non morire, essendo “gli altri” cacciatori di mostri e avendo costruito il loro paese su una simile pratica. Gli umani non hanno nessuna ragione di temerli e simbolico, proprio per questo, è il passaggio in cui il padre di Giulia spiega che ha semplicemente un braccio solo, non è “stato mangiato” da un mostro marino. A chi abita Portorosso è stato insegnato ad avere repulsione per gli altri, ad essere intimiditi dalla differenza. Il paragone è in questo caso molto immediato.
E se la queerness è ormai chiaro possa essere letta come una sfida alle norme, è possibile osservarne l’applicazione nel ribaltamento dei tropes classici, ossia nei temi ricorrenti delle narrazioni. Nonostante in Luca ci sia una notevole preoccupazione di non far entrare a contatto i bambini con tematiche legate alla scoperta dell’elemento romantico o sessuale, allusioni del genere sono presenti ma in modo sovversivo e congruo ai codici queer: Luca e Alberto durante il loro viaggio faranno la conoscenza di Giulia, un’intelligente e determinata bambina dagli obiettivi chiari e altruistici, che non è mai in questa narrazione l’interesse amoroso di un triangolo.
Cambiando di fatto questa dinamica classica potremmo recepire il suo personaggio come un esempio altamente realistico di alleata. Giulia esce doppiamente dai canoni classici dello storytelling. Nel primo esempio non rappresenta mai l’interesse amoroso per nessuno dei due protagonisti né è presente in lei alcun obiettivo romantico; nel secondo Giulia e suo padre Massimo si ritrovano ruolo di alleati quasi per caso. Questo dettaglio della casualità è reso magistralmente dall’incertezza con cui recepiscono la notizia della “vera natura” degli amici che avevano imparato a conoscere come umani. La reazione di Giulia alla rivelazione di Alberto è di sconcerto fino al momento in cui, volgendo lo sguardo a Luca che soffre per l’azione appena compiuta, capisce qualcosa. Giulia allora è preoccupata perché conosce la realtà della società di cui lei stessa fa parte, è profondamente in contatto con il suo privilegio e sa a quali pericoli i suoi amici possono essere esposti. Giulia e Massimo, scegliendo di riconoscersi in questa posizione, completano l’ultimo gradino dell’esperienza queer fondendo la nuova conoscenza di sé con l’aspetto relazionale e societario. «Alcune persone non lo accetteranno mai. Ma altre sì, e sembra che lui sappia riconoscere quelle giuste».
Luca. Guardare e riconoscersi.
Luca è tutto questo e molto altro. È quello che avrebbe potuto essere al di là di un esempio ottimo di film d’animazione, un Manifesto. È una storia sulle norme e sui posizionamenti che i personaggi adottano nei loro confronti, è il potere della sovversione che parla attraverso i bambini in quanto portatori di comportamenti restii al rispetto delle prassi. Quel che si è cercato di raccogliere è l’apporto rivoluzionario di un testo filmico che tanto potrebbe dare ma che sceglie di usare un linguaggio in codici non recepito nella sua interezza.
I messaggi contenuti in questa specifica opera sono stati compresi da chi davvero sente ogni giorno il peso della marginalizzazione sulla propria pelle, che essi siano stati intenzionali o, secondo la versione più ufficiale, non intenzionali. Non per questo però è giusto tralasciare che il potere del cambiamento insito nelle rappresentazioni può e deve essere messo a servizio di tutti per poterne giovare a pieno e senza armadi in cui nascondersi. Per aiutarci a capire che tutti siamo meritevoli di guardarci mentre esistiamo.