Con Giorgio de Finis, direttore e curatore del Museo delle Periferie, già direttore del Museo d’arte contemporanea di Roma, con il progetto sperimentale MACRO Asilo e ideatore del MAAM (Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz_città meticcia), abbiamo cercato di riflettere sul senso più ampio delle periferie, sul valore simbolico che le connota e che riversano all’interno della rete sociale.
I dispositivi museali realizzati da de Finis raccontano una città altra, un’alternativa categorica rispetto alla metropoli che siamo abituati a vivere e ad abitare, «la città pubblica, non quella fondata sul valore metro quadro del mercato finanziario, sull’interesse privato».
Come nasce l’idea del Museo delle Periferie?
Mi occupo di dispositivi museali e mi diverte utilizzare la parola museo per inventare, di volta in volta, qualcosa che abbia a che fare con la città che vorremmo abitare. I miei musei-fai-da-te si fondano su costanti etiche e politiche – quelle che in qualche modo riguardano la città plurale, lo spazio inclusivo, partecipato, relazionale – ma ciascuno poi si caratterizza in maniera potremmo dire site-specific, venendo ad essere determinato dal luogo, da chi vi prende parte e lo attraversa, dal nome, dalle dinamiche che lo caratterizzano.
Il Museo delle Periferie è apparentemente un ossimoro, un museo che intende valorizzare ciò che normalmente si considera per definizione senza valore: la periferia, appunto, grigia e squallida, triste e “violenta”. A cominciare dal MAAM, e passando per il DIF, il museo diffuso di Formello, il MACRO Asilo, il Corviale Capitolino (che abbiamo solo proposto e non sperimentato), questo è l’ennesimo museo che porto in periferia. Pensato come un’appendice del MACRO Asilo, chiuso “preventivamente” con due anni di anticipo, stranamente è sopravvissuto alla restaurazione che ha messo fine a quella che non esagero a chiamare una “rivoluzione” museale, prendendo vita autonoma. Da un anno dal suo annuncio ufficiale, esistiamo come Museo delle Periferie, siamo la quarta gamba del Polo del Contemporaneo di Roma, sotto l’egida dell’Azienda Speciale Palaexpo, insieme al MACRO, al Mattatoio e al Palazzo delle Esposizioni. Ma ad oggi un museo vero e proprio ancora non c’è: non abbiamo una sede, se non sulla carta. L’edificio deve essere costruito e sorgerà in via dell’Archeologia a Tor Bella Monaca, come opera a scomputo. Per ora svolgiamo attività facendoci ospitare in tutti i luoghi che ci accolgono, il teatro di Tor Bella Monaca, la scuola Melissa Bassi, oppure, come abbiamo fatto in questo periodo a causa del Covid-19, inventandoci piattaforme ibride, “phygital”, come IPER il Festival delle Periferie.
La periferia è l’oggetto di studio e di riflessione di questo museo, che per metà è pensato come un centro studi, perché vuole interrogarsi sul significato di questa parola così abusata, eppure così reale, e per l’altra metà è un museo di arte contemporanea perché affida ai dispositivi artistici il compito di ricucire pezzi di città che non si parlano. È un museo che si rivolge a tutta la città e che parla di periferie al livello globale. Il RIF (l’acronimo che ho scelto per il museo è il centro della parola periferia) si occupa anche di Mumbai e Johannesburg.
Una volta realizzato, sarà il primo museo di Roma Capitale fuori dal Grande Raccordo Anulare, e credo che già questo abbia un valore simbolico importante. In questo primo anno di attività abbiamo ospitato oltre 50 lectio magistralis e una (auto)mappatura degli spazi e dei progetti più interessanti nati nei territori anulari di Roma. Li abbiamo invitati a raccontarsi utilizzando le loro parole d’ordine e i loro immaginari.
Quali sono gli obiettivi del Museo delle Periferie?
Vuole portare, attraverso questo nuovo presidio, il museo oltre il GRA (così come già fatto per i teatri e le biblioteche) ma allo stesso tempo portare la periferia in centro per dargli un’iniezione di vitalità. Inoltre, in un momento storico come quello in cui stiamo vivendo (l’Antropocene, che sarebbe meglio chiamare Capitalocene) in cui si deve prendere le distanze dall’antropocentrismo e riconoscere pari dignità alle altre forme di vita sul Pianeta, mettendoci tutti sullo stesso piano, in periferia appunto, anche teoricamente questo ribaltamento di prospettive credo sia molto importante. La città continua a pensarsi “tolemaica”, con il potere al centro e i satelliti tutti intorno. Pensarci periferici è fondamentale perché rientra in un piano di decolonizzazione del pensiero e delle città.
Qual è la città che racconta il MAAM invece?
Anche il MAAM parla di città. Al suo interno ci vivono 200 persone, migranti e precari provenienti da tutto il mondo. Persone che il museo sta proteggendo con la sua presenza e la sua arte, che a loro volta proteggono il museo. È un’opera corale che parla di diritto alla città, di una città in cui tutti possano avere diritto non solo ad un tetto ma anche ad un museo.
MAAM. Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz_città meticcia. Fotografia di Martina Lambazzi
C’è sicuramente un’interazione che è cresciuta progressivamente tra gli abitanti di Metropoliz (il nome dell’occupazione abitativa che ospita il museo) e l’arte. Lo dimostra la decisione di rifiutare una eventuale offerta di case popolari per continuare a vivere nel “museo abitato”, volontà che stiamo provando a sostenere chiedendo all’Unesco di riconoscere questa esperienza unica nel suo genere. Questo intreccio surreale tra gli occupanti e il mondo dell’arte, in questo luogo improbabile, un ex salumificio abbandonato, ha generato anche comunità, affezione e il desiderio di difendere questa straordinaria esperienza. Che è anche una “immagine”, una speranza, una utopia, per tutti. Il MAAM non nasce come progetto comunitario, non faccio progetti comunitari, ma politici. Il mio riferimento più prossimo è sempre la città, lavoro su scala urbana. Ovviamente a Metropoliz ci sono le 200 persone che ci vivono, a cui sono molto legato, poi i 600 artisti che ci hanno lavorato e le migliaia di persone che ogni sabato lo attraversano e lo sostengono, ma il MAAM è patrimonio dell’umanità.
Qual è il valore politico che attribuisci all’arte?
Quando mi riferisco alla politica, lo faccio richiamando l’etimologia della parola che deriva da polis, perché considero la città il nostro ecosistema di riferimento, l’habitat dei sapiens del terzo millennio. Ed è un ecosistema che dobbiamo difendere come umani-urbani rivendicando il nostro diritto inalienabile ad “abitarla”, contro gli attacchi della finanza estrattiva, le pulsioni egoistiche di chi la città vuole metterla a reddito, sfruttandola come se si trattasse di una miniera.
MAAM. Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz_città meticcia. Fotografia di Martina Lambazzi
Politicamente mi batto per difendere la città come spazio pubblico, comune, partecipato, realizzo progetti democratizzanti, come democratizzante è stato il MACRO Asilo, un vero spezio “agonistico” per dirla con le parole di Chantal Mouffe. Mi occupo dell’ecosistema dell’arte contro il sistema dell’arte, ma guardando all’ecosistema urbano, combattendo privatizzazione, esclusione e messa a reddito di tutto secondo una logica economicistica che allontana progressivamente le persone dallo spazio urbano.
A che punto è il provvedimento di sgombero del MAAM?
Il MAAM è sotto sgombero da sempre, ancora di più dopo la sentenza del Tribunale Civile che ha riconosciuto alla proprietà 28milioni di euro di risarcimento per mancato sgombero. Questa sentenza è stata anche la causa della morte prematura del progetto MACRO Asilo, che sarebbe dovuto durare 2 anni +2, perché si è pensato potesse diventare un presidio permanente a difesa del MAAM nel cuore della città.
MAAM. Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz_città meticcia. Fotografia di Martina Lambazzi
Lo sgombero previsto per febbraio 2020 è rimasto in sospeso per via della pandemia, ma ora si la minaccia torna molto reale e abbiamo temuto che questa estate fosse l’ultima. Dopo le elezioni di ottobre potremmo capire se aprirà la possibilità di un possibile nuovo dialogo con l’amministrazione. Abbiamo scritto che “senza Metropoliz Roma non è la mia città”. Ed è quello che continueremo a sostere a gran forza. Anche con Il RIF, perché è negli obiettivi del museo valorizzare e tutelare le iniziative di interesse che la periferia produce, tanto più se queste sanno farsi città, oltre che rispondere a bisogni locali.
Qual è l’idea che sta alla basa dell’altra città possibile?
Lo ripeto, è quella della città non fondata sul valore metro quadro, sul mercato finanziario, sull’interesse privato. È la città pubblica. E quando dico pubblica non mi riferisco solo alla proprietà ma soprattutto alla fruibilità. Molti spazi pubblici sono a pagamento e seguono le logiche di profitto del privato. Tutto spinge nella direzione dello sfruttamento delle risorse. Pensiamo al ruolo della Corte dei Conti, che era un organo di controllo e si è progressivamente trasformato in organo di indirizzo.
MAAM. Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz_città meticcia. Fotografia di Martina Lambazzi
La politica oggi per avere senso, vista l’aggressione del mercato e soprattutto della finanza su scala globale, deve provare ad arginare le pulsioni egoistiche di chi ha già tutti gli strumenti per operare i propri interessi e proteggere lo spazio di chi la città la abita e la vive. Lavoro per un’idea di città basata sul moltiplicarsi dello spazio comune e della partecipazione. Metropiliz combatte la rendita, la speculazione edilizia e chiede a gran voce i diritti di cittadinanza per tutti, all’istruzione, alla salute, e anche alla bellezza. Porto avanti queste battaglie con gli strumenti dell’arte, che sono quelli che ci permettono di scartare, di sorprendere, di spiazzare, di essere più efficaci.