La scelta di parlare di salute mentale va di pari passo con la volontà di incontrare e dare voce alle persone che hanno ricevuto una – qualsiasi – diagnosi di malattia mentale, quelle che vengono etichettate e categorizzate come pazienti psichiatrici.
Lo abbiamo fatto in più di un’occasione, la prima ha coinvolto le persone ricoverate all’interno della Comunità Romolo Priori Dipartimento di Salute Mentale e Patologie della Dipendenza della ASL di Frosinone. Seduti tutti intorno a un tavolo le nostre conversazioni hanno toccato varie questioni, da cosa significhi vivere in comunità, alla speranza di una vita serena dopo la fase più critica, alla percezione sociale riguardante i disturbi mentali.
Abbiamo voluto parlare di salute e malattia mentale insieme a chi ha dovuto fare di tutto questo una condizione di vita, abbiamo incontrato le persone dietro alla “follia” e quando abbiamo chiesto a Giuseppina cosa vorrebbe dire a tutte le persone che hanno paura e scappano di fronte alla malattia mentale, lei ha risposto: «direi di conoscerci bene prima. Abbiamo una cartella clinica che ci attesta come malati mentali ma, nel bene o nel male, siamo uguali a chi non ha una malattia mentale diagnosticata. Vorrei che le persone, dentro e fuori da qui, non mi trattassero come una malata mentale, capisco gli sguardi e le battute, non sono una deficiente. Capisco quando vengo presa in giro e mi fa male».
La vita in comunità raccontata dai pazienti. “Siamo cicala o siamo formica”
A regalarci una fotografia precisa delle attività presenti all’interno della Comunità è Maria Grazia: «c’è chi sta in cucina, chi lava le pentole, chi butta l’immondizia, chi sta nell’orto. Chi si dedica al lato spirituale e va in Chiesa. Da qualche tempo c’è una psicologa nuova. Il sabato guardiamo un film e poi lo commentiamo insieme. Il lunedì leggiamo delle storie e discutiamo del significato morale del racconto: cerchiamo di capire se siamo cicala o siamo formica, cioè se pensiamo soltanto a divertirci o anche a mettere da parte qualcosa. E poi c’è l’attività di Samarcanda: giochiamo ad indovinare gli autori e i titoli delle canzoni».
Pazienti della Comunità Romolo Priori. Fotografia di Francesco Formica
Ad aggiungere dettagli sulla vita in comunità arriva Giuseppina, che il dottor Morabito ha soprannominato la “Signora No” «perché dico sempre parecchi no». Lei è l’addetta alla cucina, la appassiona e la diverte, le piace guardare Masterchef e a qualcuno ha anche detto che cucinare è quello che vuole fare nella vita. «La vita di comunità non è proprio tutta rose e fiori. È triste a volte perché ci sentiamo dimenticati dalle nostre famiglie, soprattutto quando penso che non mi vogliono perché sono malata. Qui capita di bisticciare per le cose più semplici, come il caffè, però la cosa più bella è condividere. Io lo faccio soprattutto con Massimo, ci siamo raccontati tutta la nostra vita. Quando facevo le visite al Csm non mi aprivo molto, invece con lui riesco a farlo. La malattia mentale è brutta, siamo stati molto sfortunati in questo. La malattia mentale fa paura. Le persone quando sentono la parola schizofrenico o schizofrenia scappano. Sono sempre stata molto insicura e timida, adesso sto meglio, mi sento me stessa forse perché sto tra i miei simili e riesco a esprimermi».
Alle loro voci si aggiunge quella di Daniela, che spera per tutti che «la malattia guarisca e che torniamo a casa. Vorrei tornare a casa per sempre perché ormai tra la comunità di Ceccano e questa sono dieci anni che vivo in queste strutture e invece vorrei stare vicino ai miei nipoti».
Paziente della Comunità Romolo Priori. Fotografia di Francesco Formica
Genesio arriva per raccontarci l’esperienza del vivere in appartamento, la sua quotidianità alternata tra la casa, la comunità, gli hobby e i lavori a cui si dedica. Si dedica alla realizzazione di quadri tridimensionali e «ne ha venduti 150. A volte lavoro con il fruttivendolo e anche con il falegname ma è molto stancante. Sono fragile e caratterialmente molto sensibile, me la prendo molto quando mi dicono le cose, per questo vorrei fare lavori più leggeri. Nell’appartamento, dove vivo con altre due persone, sto molto bene. Faccio la lavastoviglie, pulisco e sistemo casa. La sento come casa mia».
Anche Cesare Masi, infermiere della struttura, ci conferma che «con gli ospiti si instaura un rapporto scherzoso, di amicizia in un primo momento, soltanto dopo subentra la parte infermieristica in senso stretto. È importante che loro si fidino di noi e noi di loro. È una terapia prima di tutto di colloquio e partecipazione».
Anche Leonardo ci racconta un po’ di sé, della sua famiglia: «sto affrontando una separazione consensuale, ma a cinquant’anni non pensavo che mi sarei ritrovato qui, mi immaginavo una vita insieme alla mia famiglia, ho due figli di 14 e 16 anni. Mi chiedo quando uscirò da qui, dove andrò».
Pazienti e operatori all’interno dell’orto della Comunità Romolo Priori. Fotografia di Francesco Formica
A chiusura della nostra chiacchierata, Massimo. Con paziente consapevolezza ci racconta i ritmi della vita in comunità, le sue criticità così come i tratti più positivi, racconta anche cosa abbia voluto dire per lui fare questo passo e cominciare a vivere in un modo che non credeva possibile per se stesso. «Bisogna dire che non viviamo in un regime di ristrettezza, la comunità lascia abbastanza liberi. La pandemia ha limitato le uscite e le passeggiate, ma ora abbiamo ripreso a farle. La vita in comune è fatta di alti e bassi: a volte delle piccole incomprensioni sfociano in diverbi, ma il giorno dopo è tornato tutto a posto. È una situazione che bene o male accettiamo, anzi è una fortuna che ci siano centri come questo, perché sono una salvezza per le famiglie e per chi vive strettamente a contatto con noi. La parte migliore della vita in comunità è la condivisione, la possibilità di esternare con gli altri i propri problemi. Le giornate non sono tutte uguali. La carenza di affetti è invece una mancanza comune a tutti, qui possiamo curare qualche simpatia ma è molto diverso dal calore di una famiglia e di una casa. Ci conosciamo ma poi ci vuole tempo per fidarsi reciprocamente. Tutti proveniamo da una situazione che viene messa in luce parlando e, chi più chi meno, chiunque di noi porta queste storie dentro e pensa che raccontandole agli altri ne emergano anche i lati positivi, oltre a quelli negativi. Ognuno cerca di trasmettere all’altro, con lo scherzo e la battuta, l’idea che in fondo non c’è cattiveria in quello che si fa, ma soltanto ingenuità. Mi ritrovo qui non per scelta mia, andavo al Csm ad Anagni e stavo bene – almeno credevo – poi ho avuto un attacco di ira, una fase più acuta, e la dottoressa che mi seguiva ha ritenuto che fosse meglio per me se fossi stato seguito all’interno di una comunità. Io ero restio, ma mia sorella e mio cugino hanno deciso che era meglio che fossi rimasto qui. Mi sembra ieri, ma sono passati già tre anni, tra l’altro quando sono entrato ancora lavoravo. Qui in comunità ci sono soggetti più o meno espansivi e più o meno refrattari, con qualcuno riesco a parlare meglio. Ci sono molte risorse tra noi che potrebbero essere utilizzate in maniere diversa per essere più attivi».