Durante la visita al Laboratorio Zen Insieme di Palermo abbiamo avuto modo di conoscere anche Fabrizio Arena, vicepresidente e referente per i progetti e le attività in ambito culturale e per i tirocini formativi, e Paolo Di Lorenzo, operatore del Laboratorio. Ci hanno restituito uno sguardo interno – autentico – sul luogo che ormai conserva l’impronta dei loro passi.
Paolo è un ragazzo di ventisei anni che allo Zen dopo esserci nato e cresciuto ha scelto di restare, nonostante gli autobus che non passano e rendono difficile anche soltanto arrivare a scuola o i curricula respinti da chi è certo di poter scrivere la storia di una vita a partire dal luogo in cui si nasce. «Sei dello zen e non mi fido, ho avuto brutte esperienze», dicono i datori di lavoro.
È stato curioso – o meglio, paradossale – scoprire che talvolta i datori si rifiutano di assumere persone che vivono allo Zen, ma al contempo gli abitanti di questo quartiere non hanno neanche la possibilità di richiedere una carta d’identità sulla quale scrivere il proprio indirizzo, perché la loro posizione abitativa, nella stragrande maggioranza dei casi, non è stata regolarizzata. Ce ne ha parlato Fabrizio, il vicepresidente di Zen Insieme che, tra le altre cose, coordina il Laboratorio di musica con un gruppo di bambini e bambine. Oltre a riflettere sui cambiamenti prodotti dalla pandemia, che ha generato nuove richieste e bisogni, ci ha raccontato cosa vuol dire vivere in un quartiere totalmente occupato dove gli abitanti, anche dopo più di vent’anni in alcuni casi, hanno un tetto sulla testa che non possono chiamare casa, almeno formalmente. Ha usato la parola “apolidi” per definire gente che da anni calpesta lo stesso suolo ma non può vantare quei diritti posseduti dal resto della cittadinanza.
Palo Di Lorenzo e Fabrizio Arena. Fotografia di Francesco Formica
«Di fatto nascere in questo quartiere significa nascere in condizioni di compromissione e di vulnerabilità sociale ed economica alle quali non puoi sfuggire. Non si tratta di pietismo, è la verità. Se vivi allo Zen, o in altri quartieri con le stesse condizioni, hai già un futuro pregiudicato. È per questo che si diffondono realtà come la nostra, per tentare di compensare questa situazione. La più grande ingiustizia sociale subita da queste persone non è tanto quello che non hanno ma il fatto che quando si dà loro qualcosa sembra quasi che se la debbano meritare, è come se fosse una concessione. Quello che per chi nasce da un’altra parte della città è la normalità per loro è un optional ed è una cosa tremenda, tra l’altro molto spesso si tratta di una narrazione in buona fede. Dovremmo dare a questa comunità quello che le è stato negato e non chiedere nulla in cambio, perché è già stato chiesto abbastanza».
A causa delle restrizioni dovute alla pandemia è stato necessario reinventare le attività proposte da Zen Insieme. A partire da qui abbiamo chiesto a Fabrizio se si fossero verificate delle variazioni nel numero di richieste. Insomma, sebbene non sia ancora possibile parlare di un “dopo covid”, a seguito dei vari lockdown avete subito un calo di iscritti?
Al contrario, forse questa è stata l’estate con il più alto numero di richieste. Quest’anno è successo quello che temevamo potesse accadere l’anno precedente a seguito del primo lockdown: le famiglie chiamavano chiedendoci di portare i bambini fuori casa, perché avevano bisogno di sfogarsi e di fare cose. In genere d’estate è più facile che vadano al mare mentre d’inverno agganciamo la maggior parte dei bambini e dei ragazzi con il doposcuola. Quest’estate invece si è un po’ invertita la tendenza: il numero delle richieste è stato altissimo, al netto delle altre attività che portavamo avanti e a fronte di un numero bambini ridotto rispetto a quelli che di solito possiamo accogliere, quindi abbiamo dovuto impiegare tutti gli spazi al meglio facendo attenzione a non violare le norme anticontagio. Abbiamo organizzato diversi turni – pur non riuscendo ad accogliere tutte le richieste – tentando di distribuire al meglio le attività nonostante gli spazi contingentati.
Perché, come dicevi, quest’anno si è invertita la tendenza?
Perché i due mesi del primo lockdown ci hanno destabilizzato ma relativamente, venivamo da un anno normale e i mesi estivi sono stati come un’estate comune. L’anno scolastico 2020/2021 ha realmente destabilizzato giovani e giovanissimi, che erano già abbastanza saturi, e in più hanno vissuto un anno scolastico atipico in cui una settimana andavano a scuola e l’altra potevano passarla potenzialmente in isolamento.
Fabrizio Arena. Fotografia di Martina Lambazzi
Abbiamo cominciato a toccare con mano le conseguenze della pandemia e la ricaduta tremenda che sta avendo sui più piccoli, sui giovani e sui giovanissimi, perché alla loro età un anno non è un anno. Pensavo a mia nipote che ora ha sedici anni e non si riprenderà i suoi quindici anni, quell’anno non glielo ridarà mai nessuno. Tutte le esperienze che poteva fare, dalla festicciola con gli amici ai litigi al bacio con il compagno di classe, tutte le cose che si possono fare a quell’età e quindi tutte le dinamiche relazionali che si creano a scuola e in famiglia, è tutto viziato dalla pandemia. Tutto è stato completamente distorto.
Il covid ha generato richieste differenti? Cosa è cambiato?
In alcuni casi i bisogni particolari di alcuni ragazzi e ragazze con cui lavoriamo si sono acuiti. È chiaro che c’è stata un’incidenza di tutte le dinamiche che si sono innescate a seguito della pandemia e dalle restrizioni, sebbene ci sia chi è riuscito a farvi fronte. Altri bisogni sono nati ma forse non ne abbiamo avuto contezza perché non è facile capire da dove parte un problema reale di un bambino, di un ragazzo o una ragazza, tranne in determinati casi come la dipendenza dai telefoni o dai tablet. Penso a ciò che è successo su Telegram durante il primo lockdown, quando sono venuti allo scoperto gruppi nei quali si condivideva materiale intimo non consensuale e questo è un rischio, poi si confonde il giorno con la notte. Quando un ragazzino di quindici anni non va a scuola per uno o due mesi, come è successo questo inverno, è chiaro che si rinnesca quel meccanismo per cui si va a letto alle sette del mattino e ci si sveglia alle tre del pomeriggio. E questo chiaramente non è sano. Ovviamente ogni ragazzino ha le sue turbe, ma la pandemia ha tirato tutti dentro la mischia.
Siamo venute qui per provare a raccontare lo Zen attraverso la voce di chi lo abita. Allora ti chiedo: c’è qualcosa di questo quartiere che ci tieni a raccontare?
In primo luogo il rapporto con le scuole che curiamo da anni con i protocolli di intesa e che ci aiutano a portare fuori di qua le attività svolte all’interno dell’Associazione o a creare dei ponti con la biblioteca Giufà, prima e unica biblioteca del quartiere, con un focus specifico su bambini e adolescenti: una delle cose più belle che abbiamo realizzato in questi anni e di cui andiamo orgogliosi. Molto importante è anche il supporto che proviamo a dare nell’ambito della regolarizzazione delle posizioni abitative, aiutando le persone a gestire un iter burocratico abbastanza complesso, perché lo Zen è quasi interamente occupato. C’è gente che è venuta qui quando il quartiere era incompiuto nel 1984 e oggi, dopo trentasette anni, deve ancora pagare la multa all’Istituto Autonomo Case Popolari perché è un occupante e non riesce a regolarizzarsi.
Puoi spiegarci meglio cosa vuol dire per le persone che da anni vivono in questo posto e, molto probabilmente, lo considerano casa loro?
Molti a livello istituzionale si riempiono la bocca con la parola legalità, ma il discorso si sposta inevitabilmente sulla legalità se si inizia a regolarizzare, con tutto ciò che ne conseguirebbe a livello di diritti. L’art. 5 del “Piano Casa” Renzi-Lupi, ha determinato che se sei un occupante non puoi avere una residenza e questo comporta che tu non possa fruire di tutti quei servizi per cui è necessario possederla. Si tratta di un’interruzione dei diritti, come se la condizione di necessità rappresentasse una colpa. È come se fossi un apolide. A livello amministrativo e istituzionale si sono aperte delle piccole brecce su questa questione, che era un tabù fino a qualche anno fa. Di comitati per l’assegnazione delle case ne sono nati centinaia dagli anni Ottanta ad oggi e non hanno mai portato a nulla, o quasi, per cui uno degli scogli che incontriamo è la disillusione delle persone. Questo è un quartiere che paga lo scotto di decenni di politiche assistenziali che hanno disabituato le persone a mettersi in gioco, abituandole a delegare. Noi proviamo a scardinare questa dinamica, non senza fatica, perché da quando è nata l’Associazione, da quando ancora si lavorava per strada, la mission è sempre stata quella dell’accompagnamento all’autonomia. Il nostro obiettivo è mettere le persone nella condizione di saper determinare il loro stesso destino e non dover dipendere da qualcun altro.
Fabrizio Arena. Fotografia di Martina Lambazzi
Non facciamo la rivoluzione, creiamo opportunità. In un quartiere in cui una ragazzina che esce dalla scuola media quasi sicuramente andrà in un corso di formazione per fare l’estetista o la parrucchiera – due mestieri decorosissimi – vogliamo creare le condizioni affinché questa sia una libera scelta. Bisogna mettere le persone di fronte a delle opportunità che, se non esistessimo noi o altre realtà come la nostra, non conoscerebbero. Non devi fare la parrucchiera perché lo fanno tutti o perché l’alternativa è fare la casalinga, devi farlo a fronte di una scelta.
Anche per queste ragioni la maggior parte delle persone che vive allo Zen ha imparato ad arrabbattarsi, la pandemia ha inciso ma nella stragrande maggioranza dei casi non è che abbia sconvolto troppo. Bisognerebbe dare in punta di piedi, scusandosi per non averlo fatto prima: fino a cinque anni fa non c’era uno straccio di campetto per far giocare i ragazzini, dovevano scavalcare illegalmente in quelli delle scuole, eppure si alzano le voci di quelli che dicono: «ma quanto durerà allo Zen, in mezzo a questi animali?». Il campo è lì, chi se ne disinteressa sono le istituzioni che lo hanno fatto, perché a ripararlo sono le associazioni o le persone del quartiere.
Questo prova che se le cose non le cali dall’alto ma vanno a rispondere ai bisogni di una comunità, e soprattutto non le fai per la gente ma con le persone, coinvolgendole, quelle stesse cose sopravvivono. Il giardino non è un’opera di beneficenza per i poveri sgarrupati dello Zen, ma il risultato di un percorso. Abbiamo organizzato delle assemblee e abbiamo chiesto: «come lo volete questo giardino? Che ci volete dentro? A quali bisogni volete che risponda? Volete che ci giochino i vostri figli? Chi viene a spalare la terra per mantenerlo?». Se un percorso è collettivo è impossibile che una comunità che quel percorso lo ha determinato da dentro non senta come proprio quello spazio.
Alle volte, anche se non lo si fa per cattiveria, si cade nella retorica tremenda della concessione. A livello politico c’è sempre questa tendenza a chiedere – «ci dovete dimostrare», «vi concediamo». Finché non ci libereremo di questo modo di concepire le cose sarà difficile anche per noi lavorare qui perché è fondamentale avere un dialogo con le istituzioni e con il resto della città e andare a scardinare lo stigma che si porta dietro questo quartiere, che non è più quello di vent’anni fa ma ancora paga questo scotto. La maggior parte delle persone che parla dello Zen in questo modo probabilmente non c’è mai entrata.
Ci racconti com’è cambiato lo Zen negli anni?
Lo Zen era un’emergenza sociale di portata nazionale. Quando si sono accesi i riflettori sul quartiere si è innescato un meccanismo di finanziamenti a pioggia e interventi sociali raffazzonati, ma sono nate anche tante realtà che hanno lavorato bene. Noi siamo nati nell’Ottantotto ma negli anni Novanta e a seguire sono nate altre associazioni, per cui inevitabilmente qualcosa è cambiato.
Laboratorio di musica allo Zen Insieme. Fotografia di Francesco Formica
Cerchiamo di spiegare a questi ragazzini che sono fortunati perché per lo Zen si fa tanto mentre in altri quartieri non c’è neanche una scuola che fa un tempo prolungato, una parrocchia che funzioni o qualcuno che vada per le strade, fosse anche per fare animazione e far giocare i bambini. Ci sono quartieri che non hanno niente, per cui paradossalmente nasci in un posto che ha le sue difficoltà e la sua nomea ma sei comunque più fortunato di altri bambini che nascono a due chilometri da qui e non hanno nulla. Lo Zen era un quartiere enorme che non era stato concluso, non aveva la luce elettrica, l’allaccio all’acqua o le fognature ed in poco tempo è stato affollato da persone che non avevano una casa oppure abitavano in costruzioni fatiscenti, con tutte le conseguenze del caso.
Prima accennavi al rapporto tra lo Zen e il resto della città. Come lo definiresti?
Quello con il resto della città è un legame molto complicato a causa dello stigma che lo Zen si porta addosso. I tanti interventi nel corso degli anni hanno abituato gli abitanti del quartiere a vedere persone da fuori, qui viene gente da anni per le più disparate ragioni. Altri quartieri di Palermo, ad esempio il Borgo Vecchio, su cui comunque negli ultimi anni si sta lavorando tanto, non hanno magari questa abitudine così radicata. La piccola criminalità, certamente più tangibile vent’anni fa, ora è un fenomeno marginale, perché lo Zen non è più un quartiere chiuso e avulso dal resto della città. Valla a spiegare questa cosa al palermitano medio. Io sono di Palermo e sono cresciuto con il mito dello Zen.
Questo è uno degli interventi che proviamo a portare avanti con più passione, nel senso che fare il lavoro che facciamo portando i bambini fuori è bello ma è anche facile, la vera sfida è portare la città qua dentro. Dare motivo a un cittadino palermitano di venire allo Zen. Se a settembre dello scorso anno abbiamo organizzato il primo Festival della Letteratura per l’Infanzia e venivano bambini da tutta Palermo è perché si sta provando a dare alla gente motivo di partire dal centro e venire qua, perché un motivo per farlo c’è.
Tu, Paolo, sei un abitante dello Zen e lavori in questa associazione. Ti andrebbe di raccontarci il posto che hai sempre vissuto?
Non ti posso dire che è un quartiere come gli altri perché certamente ha più problematiche. È distante dal centro città ed è collegato malissimo con i mezzi pubblici: è come se alle istituzioni facesse comodo questa distanza, perché un turista che va nel centro storico difficilmente si sposta allo Zen. Difficilmente vede questi palazzi privi di restaurazioni o abbellimenti, o i cumuli di rifiuti in posti che al contrario potrebbero essere piazze e luoghi di ritrovo per i ragazzi e le ragazze. È un quartiere che deve avere una marcia in più, anche più di una.
Paolo Di Lorenzo. Fotografia di Francesco Formica
Allo Zen ci sono due scuole che arrivano alle medie, se si vuole andare al liceo bisogna prendere un autobus che non passa quasi mai, quindi bisogna svegliarsi molto presto perché se si salta una corsa si deve andare a piedi. È un po’ come se si volessero tagliare le gambe a questi ragazzi e al loro futuro.
Come sei arrivato allo Zen Insieme?
In occasione di una manifestazione ho conosciuto Mariangela, la presidente di Zen Insieme, che mi ha spiegato dell’accordo con Save the Children per ristrutturare i locali dell’Associazione. Ho pensato che un’idea del genere potesse dare tanto ai ragazzi e alle ragazze del quartiere, allora mi sono detto: «perché le persone da fuori devono venire a rimboccarsi le maniche con gli abitanti dello Zen e io che ci vivo non posso rimboccarmi le maniche per il mio quartiere e i miei vicini di casa?». Per me era importante provare a dare un futuro a questi bambini, che spesso devono crearselo in maniera faticosa. Ho iniziato come volontario, poi l’anno scorso ho partecipato al bando di Servizio Civile. Ora mi è stato proposto un contratto da operatore e devo ringraziare le persone che ho conosciuto qui se sto facendo progressi continuando a crescere.
Quali sono le attività di cui ti occupi?
Mi occupo di sostegno scolastico e poi della parte sportiva: abbiamo creato un’alleanza con il Palermo Calcio Popolare, una squadra di calcio a undici, che si basa sul vecchio calcio senza soldi. I giocatori della prima categoria, ad esempio, non vengono pagati. È una mentalità storica di questo sport che vogliamo tramandare ai ragazzi che seguiamo. Li accompagniamo agli allenamenti la domenica mattina e a volte ci riuniamo per mangiare assieme. È un modo di collegarsi ai ragazzi attraverso lo sport, ma anche al di là di questo.
Quartiere Zen 2, campetto di calcio Andrea Parisi. Fotografia di Martina Lambazzi
Cosa manca, secondo te, nella narrazione dello Zen?
Spesso nel racconto dello Zen risalta il discorso sulla criminalità, ma se alla gente non dai opportunità in qualche modo deve tirare avanti. A volte le persone si arrangiano facendo la riffa, che è come una sorta di tombola: si estraggono dei numeri che vengono messi in vendita e chi se li aggiudica compra dei prodotti, spesso si acquista il pesce in questo modo. Molti non hanno la forza di studiare e lavorare, ognuno sopporta le proprie fatiche, e magari lasciano la scuola. Io andavo a piedi e impiegavo circa trenta minuti per arrivarci, poi ho lasciato gli studi ma se avessi avuto a disposizione mezzi di trasporto avrei continuato.
Fino ai sedici anni ti tagliano le gambe con i collegamenti, poi quando vuoi provare a riscattarti non te ne viene data la possibilità. Ho mandato diversi curricula e nel momento in cui leggevano la via rifiutavano la mia candidatura, quindi anche chi sta fuori crea un muro. Tempo fa mi sono rivolto a un ferramenta, non ha voluto assumermi per via del posto in cui vivo. Mi ha detto: «Sei dello zen e non mi fido, ho avuto brutte esperienze», poi ho chiesto a un mio amico che abita in un’altra zona di telefonare e ha ottenuto il colloquio.