Tra le figure professionali incontrate nell’Hospice Casa delle Farfalle di Isola Del Liri non poteva certo mancare il personale infermieristico. A rispondere alle nostre domande, Marino Giona e Federica Vellucci, con i quali, oltre agli aspetti tecnici della professione infermieristica in hospice, abbiamo raccontato la centralità della relazione con pazienti e famiglie, indispensabile in un luogo in cui «il denominatore comune è il tempo dell’attesa». Un tempo che gli infermieri hanno il compito di riempiere di dignità, attraverso la cura e il riconoscimento della persona sofferente. Un tempo in cui la sospensione e l’indebolimento del dolore sono principi essenziali, da un lato, e misura di protezione e supporto, dall’altro.
È emerso fin dall’inizio come il ruolo degli infermieri all’interno dell’hospice sia andato incontro ad una serie di evoluzioni, come ci spiega Marino Giona: «l’Hospice Casa delle Farfalle è stato aperto il 26 maggio 2015, la giornata per le cure palliative. Ho iniziato a lavorare qui da subito e ho seguito dall’inizio tutta l’attività del reparto. Inizialmente gli infermieri erano pochi, 8 in tutto, ma nonostante le varie difficoltà abbiamo portato avanti il reparto. Oggi, ad esempio, gli infermieri che lavorano qui sono quasi tutti a tempo indeterminato, ma tutti dipendenti Asl ed è importante proprio in ragione al senso di appartenenza e di responsabilizzazione».
In cosa consiste la professione infermieristica in hospice?
Federica Vellucci: La nostra attività all’interno dell’hospice si basa sulla relazione con i pazienti. Se perdessimo il privilegio che in generale la nostra professione ci dà, nel relazionarci con la persona assistita, insieme agli altri professionisti ed enti, commetteremmo un grave errore. Il codice deontologico delle professioni infermieristiche del 2019 stabilisce che il tempo di relazione è tempo di cura. La relazione è il nostro fine, l’obiettivo. Il denominatore comune dei nostri pazienti è il tempo dell’attesa, relativa alla diagnosi così come a ricevere un’informazione. In ogni caso, il decorso, più o meno lento, è comune a tutti, quindi il paziente vede, nella figura dell’infermiere, l’interprete dei suoi bisogni.
Federica Vellucci, Hospice Casa delle Farfalle Isola Del Liri. Fotografia di Martina Lambazzi
L’articolo 24 del codice deontologico fa riferimento alla cura del fine vita, per soddisfare il quale noi infermieri riconosciamo l’importanza del lavoro di equipe nella palliazione, nonché dell’assistenza alla famiglia sia nell’evoluzione terminale della malattia, sia nel momento della perdita e nell’elaborazione del lutto. La nostra assistenza è olistica. Un infermiere in cure palliative deve avere delle prerogative essenziali e un assetto psicologico ben saldo, per evitare o quanto meno ridurre effetti di burnout. Dobbiamo essere in grado di lavorare in equipe, perché questo è un aspetto imprescindibile nelle cure di palliazione, che hanno per obiettivo il miglioramento della qualità della vita, lenendo i dolori, né rallentando né accelerando la morte.
Sulla base del livello di consapevolezza del paziente, come cambia la modalità relazionale?
F. V.: Al momento dell’ingresso, il paziente affronta il colloquio con il medico, quindi capiamo subito se è pienamente consapevole della situazione che sta vivendo o se i famigliari o il care giver di riferimento omettono determinate condizioni. In realtà, però, tutti i pazienti sanno qual è la tipologia di patologia che approda qui dentro, quindi neoplastica o a carattere cronico degenerativo. La speranza rimane comunque un fattore imprescindibile, però è impensabile credere che i pazienti siano inconsapevoli della propria malattia nell’intero arco temporale in cui si trovano qui. Può succedere all’inizio, ma in ogni caso si percepiscono: prendono consapevolezza che il loro corpo li sta abbandonando. È questo il momento in cui solitamente cominciano le domande.
In quale modo gestite i bisogni dei pazienti?
Marino Giona: I bisogni del paziente – non della malattia – rientrano nella diagnosi infermieristica, che ci consente di sviluppare un piano assistenziale individuale orientato a rispondere alle necessità della persona assistita. Possiamo prevedere quando avrà bisogno di supporto farmacologico per la terapia del dolore, del vomito e molto altro, quindi non arriverà al momento di chiederci aiuto, perché il problema viene analizzato e anticipato nella sua espressività. Per quanto possibile cerchiamo di non farlo insorgere.
Marino Giona, Hospice Casa delle Farfalle Isola Del Liri. Fotografia di Martina Lambazzi
Faccio un esempio: quando il paziente viene mobilizzato per le cure igieniche, quindici minuti prima gli sarà somministrato l’antidolorifico o l’antiemetico, in maniera tale che non avvertirà lo stimolo doloroso o del vomito. In questo modo noi riusciamo a operare in maniera più sicura e il paziente non subisce un ulteriore stress, aggiuntivo a quello a cui è già costretto nel mostrare il proprio corpo e la propria intimità a degli sconosciuti, soprattutto all’inizio.
Gli aspetti tecnici della professione infermieristica in hospice sono importantissimi, perché se tutto funziona dal punto di vista tecnico, il paziente sarà protetto nell’arco delle 24 ore e non avrà disagi correlati alla progressione della malattia e magari riuscirà anche a leggere mezza pagina di un libro e sarà soddisfatto, perché quella lettura è vita normale che siamo riusciti a mettergli a disposizione.
Il paziente subisce gli attacchi della vita così come noi, quindi se provo dolore sono giustamente anche irritato e l’essere arrabbiati non è uno stato d’animo che aiuta, alimenta il patire. Se viene a crearsi una situazione di forte disagio ci giochiamo tutto il resto: la comunicazione, il paziente si chiude in se stesso, subentra la sfiducia nei nostri confronti perché non ci reputa capaci di assisterlo adeguatamente, quindi diventa tutto più complicato da gestire.
Sala riunione, Hospice Casa delle Farfalle Isola Del Liri. Fotografia di Martina Lambazzi
F. V.: Utilizziamo giornalmente le scale di valutazione del dolore, in base alle quale percepiamo la quantità del dolore e decidiamo come agire per annientarlo nel più breve tempo possibile. Il principio cardine qui dentro è l’assenza del dolore.
Quali sono le implicazioni e le espressioni della relazione in hospice?
M. G.: Il paziente è parte di un micro e di un macrocosmo. Del primo fanno parte i familiari più stretti, del secondo anche le figure affettive più lontane e noi ci prendiamo cura anche di loro. A titolo esemplificativo posso riportare una storia risalente al 2016-2017: durante il turno di notte, intorno alle 2, venne da me il figlio di una paziente, ponendomi una domanda religiosa: “c’è vita dopo la morte?”. Era una domanda che ovviamente celava il bisogno di credere che il rapporto con la madre potesse avere in qualche modo un continuo e onestamente non seppi dare una risposta. Gli feci ascoltare una canzone dal mio telefono, L’ombra della luce di Battiato.
La nostra relazione va oltre quella che può essere la pratica tecnica, riguarda anche l’interpretazione, per quanto possibile, della spiritualità del paziente e dei congiunti. Tutti sappiamo che la vita ha un termine, ma il bello è che non sappiamo quando sarà. Come avrebbe detto De Crescenzo, sono qui per allargare la vita del paziente, migliorandone la qualità di vita, che è diversa da persona a persona.
Cercando anche di capirne il contesto culturale di provenienza, le risposte vanno accuratamente selezionate, i tempi dei verbi vanno scelti con cura. Gli infermieri passano 24 ore su 24 accanto al paziente, è per questo che la categoria degli infermieri è il perno di ogni struttura, specialmente all’interno di un hospice, perché dobbiamo rispondere ai bisogni più disparati.
Che valore hanno assunto per voi, a livello personale e intimo, il dolore e la morte?
F. V.: Per lavorare qui dentro, dobbiamo riuscire a percepire la morte in tutta la sua naturalezza, se pensassimo alla morte in termini di anormalità non saremmo in grado di accettarla, mentre invece qui siamo chiamati a farlo quotidianamente. Ovviamente poi, dentro di noi rimane sempre qualcosa, qualche paziente che ti porti per tutta la vita.
Marino Giona e Federica Vellucci, Hospice Casa delle Farfalle Isola Del Liri
M. G.: Alcuni aspetti della morte derivano dall’attuale strutturazione della società. Il 24 dicembre del 1967, ero in braccio a mio nonno, eravamo di fronte al fuoco. Lui ad un certo punto mi ha letteralmente scaraventato in braccio a mia nonna ed è morto al piano di sopra nel giro di mezz’ora. Con il tempo si acquisiscono nuove competenze e si rileggono gli avvenimenti in altri modi: in quel momento mio nonno ha avuto la dignità di non farsi vedere morente da un nipote, eppure la morte mi si era mostrata davanti in tutta la sua drammaticità e naturalezza.
Come lavorate sui confini, per non essere emotivamente investiti da quello che vivete? Rientra nella formazione della professione infermieristica in hospice questo tipo di preparazione?
M. G.: Dobbiamo essere presenti a noi stessi con carattere forte, come diceva prima la mia collega, perché un carattere forte è di difficile distrazione e quindi sempre in grado di operare e di relazionarsi in maniera giusta. Ogni volta che ci si reca al letto del paziente si instaura un tipo di relazione necessariamente complessa, che passa per il confronto. Non siamo chirurghi, non togliamo la malattia, noi ci prendiamo cura della persona ed è molto appagante.
Qui, ogni paziente che muore bene, senza avere i fastidi della malattia, rappresenta comunque un successo. Accompagnare il paziente alla morte in maniera dignitosa e, a volte, anche serena è una soddisfazione che ci fa proseguire nella nostra opera, altrimenti saremmo soltanto una fabbrica di morti, eppure non lo siamo affatto. Ai nostri pazienti cerco di far passare un unico concetto: “sono qui e sono accanto a te, sempre”.