«Patria est ubicumque est bene», Cicerone
Secondo l’enciclopedia Treccani, la patria è: «Territorio abitato da un popolo, al quale ciascuno dei suoi componenti sente di appartenere per nascita, lingua, cultura, storia e tradizioni». Un territorio delimitato da confini per sentirsi parte del quale, dunque, non si devono rispettare regole specifiche, o avere determinati parametri fisici, basta sentire di appartenervi.
Posso dire che l’Italia è la mia casa?
In un certo senso, possiamo associare questo concetto a quello di casa. Naturalmente l’accezione più stretta del termine riguarda l’edificio abitativo in cui passiamo le ore private della nostra vita, ma anche in questo caso sappiamo benissimo che “casa” può essere qualsiasi cosa, da una strada ad un parchetto, da una scuola ad un locale, fondamentalmente ciò che accomuna tutti questi luoghi apparentemente impossibili da associare all’idea di casa è dato proprio dalla familiarità che ogni individuo stabilisce con questi posti, a prescindere ad esempio dall’effettivo possesso.
Questo esempio ci serve a comprendere come il valore della propria patria non sia definito esclusivamente dai confini dello stato in cui una persona si trova, ma da un insieme di valori molto più ampi e spesso complessi. Tali dinamiche richiedono dunque un approfondimento specifico per affrontare la questione, tuttavia la politica fa spesso un uso semplicistico di questo tema per raccogliere consensi più facilmente.
Questa piccola premessa ci è necessaria per comprendere meglio il percorso storico e politico, brevemente riassunto di seguito, in cui approfondiremo in che modo il concetto di patria, ma anche quello di nazione, siano stati utilizzati nel corso degli anni dalle varie classi politiche per pilotare i popoli che controllavano o governavano.
Cos’è la patria?
Il termine patria ha origini particolarmente lontane nel tempo, tant’è che risale addirittura alla civiltà romana nella quale veniva utilizzata la terra patria per indicare gli appezzamenti di terreno che venivano ereditati dai propri antenati. Già da qui possiamo dunque considerare il termine, o la locuzione in questo caso, come rappresentante di un terreno fisico con il quale la persona in questione avesse dei legami culturali, parentali e valoriali se vogliamo. Tali legami sono alla base di quel meccanismo che porterà poi ogni cittadino a voler difendere a tutti costi la propria patria e ad ampliarla il più possibile. Non è un caso che molti storici abbiano intravisto in ciò la prima forma di patriottismo.
A Roma, però, capitale di uno dei più grandi imperi che la storia degli esseri umani abbia mai visto, il concetto di patria come terreno ereditato dai propri padri rimane un po’ stretto, riduttivo. Proprio per questo viene a crearsi una seconda concezione, riscontrabile anche in autori illustri come Virgilio, di piccola e grande patria, la prima data dalla nascita, la seconda dalla cittadinanza. Visione che ritroviamo anche in altri autori di origine barbarica, che intendono patria l’impero romano di cui ormai fanno politicamente parte.
Con il disfacimento dell’impero romano, però, la visione di una patria politica viene giocoforza meno e dunque entra in gioco un’altra tipologia di patria, che ha caratteri meno legati alla terra: la patria caelestis già nominata da Agostino, anticipatore di ciò che il Medioevo avrebbe reso concreto, ovvero una concezione di patria legata certamente di più alla sfera religiosa di tutti gli individui.
Queste sono le caratteristiche che, nonostante qualche piccola modifica o revisione, caratterizzeranno il termine patria e la sua visione per quasi tutto il medioevo. In particolar modo quando si ripropone la creazione di un impero che possa in qualche modo ricalcare le dimensioni o le volontà di quello romano, come il Sacro Romano Impero, si presenta la necessità di utilizzare tanto la dimensione terrena quanto quella religiosa, al fine di creare una nuova grande patria che possa in qualche modo unire popoli altrimenti lontanissimi, non solo geograficamente. Tuttavia, pure in questo caso, bisogna comunque considerare come l’idea di patria sia stata poi declinata in maniera diversa, spesso anche in base al singolo individuo che ne parla. Dante, ad esempio, indica con patria la sola Firenze e sempre a lei si riferisce quando cita, ad esempio, i traditori della patria, termine che per lui ha la mera valenza cittadina con una fortissima accezione politica.
Fotografia di Francesco Formica
Dall’età moderna in poi il concetto di patria inizia a convivere con quello di nazione, con cui però non sempre coincide, anzi quasi mai. Se la patria, infatti, viene vista e vissuta come un’entità più piccola e legata sicuramente alla piccola comunità in cui si vive, la nazione invece tende a rappresentare quella più grande entità astratta che riguarda il più grande concetto di stato, decisamente meno afferrabile soprattutto per le comunità più piccole come quelle dei contadini ad esempio. Non è un caso che i tentativi portati avanti nel XVII secolo di riavvicinare i due concetti si scontrano spesso con il fallimento soprattutto nelle classi sociali più basse.
È solo dalla rivoluzione francese che patria e nazione iniziano a convivere, venendo messe in opposizione dalle classi politiche al concetto di regno, legato ad una concezione monarchica ed assolutista. Tuttavia, non fu affatto semplice inculcare a popoli interi l’amore per uno stato, o meglio una nazione, che quasi non esisteva fino ad allora.
Cos’è la nazione?
Il processo di costruzione ideologica e concettuale dello stato-nazione non fu affatto semplice, come racconta Eric Hobsbawm in Nazioni e nazionalismi dal 1780. Programma, mito, realtà.
Il testo dello storico inglese ci mostra fin dai primi capitoli come definire il concetto di nazione non fosse affatto facile per le classi politiche che nel diciannovesimo secolo si trovarono ad affrontare questa questione. Sotto le loro mani si ritrovarono infatti comunità caratterizzate da numerose differenze linguistiche, religiose ed etniche, per le quali trovare una soluzione comune che non andasse a creare delle polveriere sociali e politiche non fu affatto semplice. Naturalmente bisognava assolutamente trovare un collante funzionale per tutta la popolazione, artificiale o meno che fosse non aveva alcuna importanza, ma quale?
Il primo grande scoglio fu definire i criteri necessari per la costruzione della nazione e tale compito fu ancora più complicato per quei paesi che raccoglievano al proprio interno un maggior numero di culture e religioni. I liberali dell’epoca pensarono che le etnie minori dovessero semplicemente essere inglobate dalla maggioranza, tuttavia il diciannovesimo secolo fu il secolo del pensiero liberale e la maggioranza degli intellettuali dell’epoca aveva in mente la realizzazione di una comunità ed un linguaggio globali, pertanto fu solo dal 1900, con le società di massa, che il problema emerse con tutta la sua forza e tutte le sue criticità. A tal proposito è bene sottolineare, per comprendere l’artificialità di questi concetti, che “identità nazionale” come la intendiamo oggi appare per la prima volta solo nel 1884 nel dizionario spagnolo.
In questa fase storica si cercano dunque dei criteri che possano funzionare per creare uno spirito nazionale comune, ma si riscontrano diversi problemi. Ad esempio non si può usare una lingua, poiché quella standardizzata e regolamentata appartiene soltanto alle classi alte, mentre per quelle più basse presenta un livello di alfabetismo troppo alto. Anche la religione non funziona, poiché transnazionale, come le etnie, dato che i popoli tendono a spostarsi e quindi a mischiarsi tra loro.
Tuttavia, quando si arriva allo scoppio della prima guerra mondiale, i governanti dei vari paesi sono sorpresi, poiché la ricerca tecnologica alimentata dal mito della modernità, insieme alla propaganda ormai avviata per la costruzione di uno spirito nazionale, ha fatto sì che i popoli si dotassero di un patriottismo che nessuno si sarebbe mai aspettato. A questo punto dunque le classi politiche comprendono che è giunto il momento per soffiare sul fuoco del patriottismo, creando ad esempio una religione civile, ma soprattutto puntando il dito contro gli altri, gli stranieri, poiché un nemico in comune rimane sempre il miglior modo per far unire le persone. Un problema che vale la pena sottolineare. È vero che viene definito il concetto di stato, delimitato dai confini, ma quale lingua bisogna usare? Anche in questo caso non c’è una scelta automatica o naturale.
L’apice del nazionalismo arriva dopo la fine del primo conflitto mondiale, in particolar modo nei paesi sconfitti, nei quali le classi politiche nascenti lo utilizzano come strumento di propaganda. Non è un caso, infatti, che proprio in questi anni nascano i regimi dittatoriali più brutali del novecento, in cui il concetto di nazione, storpiato per creare uno spirito comune contro altri nemici, prende vita al massimo della sua forma. In questo periodo, però, c’è da evidenziare che in paesi particolarmente grandi in cui le etnie sono numerose e diverse tra loro, come la Russia, il nazionalismo non attecchisce bene. Nel caso specifico di quella che dopo la rivoluzione diventerà l’Unione Sovietica, ad esempio, il concetto della rivoluzione riesce a trovare molto più consenso tra le classi più povere, totalmente indifferenti alla costruzione di un’unica nazione.
Dopo la seconda guerra mondiale il nazionalismo vive un momento di poco successo, almeno fino alla disgregazione dell’URSS, quando anche in quel caso le classi politiche utilizzano il concetto della nazione per forzare la dissoluzione dell’URSS e soprattutto i conflitti con gli altri popoli. L’esempio che tristemente rappresenta al meglio tale dinamica è senza dubbio il conflitto jugoslavo. Negli ultimi anni il nazionalismo sta tornando alla riscossa, mosso dalle classi politiche di destra, le quali utilizzano un linguaggio diverso da quello di inizio secolo ma puntano comunque sulla xenofobia, rappresentando gli stranieri, in particolar modo quelli non regolari, come nemici del popolo e della nazione.
Fotografia di Francesco Formica
Nel contesto odierno tale sentimento trova terreno fertile a causa della crisi economica, che ha fatto perdere la sicurezza in milioni di persone, ma anche e soprattutto nel cambiamento dei valori, che ha causato lo stesso effetto. In un panorama del genere l’immagine della nazione fornisce sicurezza e stabilità, in contrapposizione al dinamismo del mondo in cui viviamo ed è così che la propaganda xenofoba delle destre europee trova terreno fertile. Tuttavia, ci troviamo di fronte ad un mondo sempre più connesso ed unito che si è presentato già così alle nuove generazioni, sarà dunque complicato che il nazionalismo possa continuare ad esistere.
In Italia facciamo ancora finta che la società (e dunque la cittadinanza) sia quella del 1920
Recentemente, dopo i grandi successi italiani alle olimpiadi, si è tornato ancora una volta a parlare di ius soli nel nostro paese. Questo perché alcuni atleti italiani che hanno conquistato l’oro o altre medaglie sono in realtà nati da genitori stranieri e pertanto hanno potuto ottenere la cittadinanza dopo diciotto anni, nonostante siano nati e cresciuti in Italia. Questo avviene perché in Italia è in vigore lo ius sanguinis, per il quale a fare da padrone è il “sangue”: un cittadino ottiene la cittadinanza italiana alla nascita solo se almeno uno dei due genitori è italiano.
Esistono però dei casi speciali nei quali i nati da genitori stranieri possono ottenere la cittadinanza prima dei diciotto anni. Situazioni come quelle sportive, ad esempio, in cui si conferisce la cittadinanza solo per potersi assicurare che quello o quella sportiva possano poi gareggiare per l’Italia, oppure i casi in cui i minorenni si distinguono per “atti eroici”, come quello dei due bambini che hanno salvato i loro compagni dall’essere bruciati vivi sul bus e proprio per questo hanno ottenuto la cittadinanza in via del tutto straordinaria.
Questa, dunque, è la grande beffa italiana. Per essere considerato cittadino italiano non basta essere nato sul nostro suolo e aver vissuto qui per tutta la tua vita, andando nelle scuole italiane e adottando uno stile di vita che, seppur con qualche ipotetica variazione dettata dalle origini, com’è assolutamente normale che sia, rispecchia quello degli italiani. Per ottenere la cittadinanza devi essere un eroe o un campione olimpico. Eppure, io ho ottenuto la cittadinanza senza dover far niente di speciale, sono semplicemente venuto al mondo.
In Italia continuiamo a vedere una realtà diversa da quella che effettivamente c’è ed alcuni politici sfruttano ciò per cavalcare i peggiori malumori e guadagnare qualche voto in più. La patria è ovunque si stia bene, diceva Cicerone, non neghiamo diritti agli esseri umani per il consenso elettorale.