Raccontando il carcere nel corso di questi mesi abbiamo tentato di renderlo tangibile contrastando la smaterializzazione dei vissuti. Abbiamo dato voce a chi anima questi luoghi provando a superare la spersonalizzazione intrinseca alle strutture di contenimento, che a loro modo cancellano tracce di vita eccedente. Il diritto alla salute, il fine pena mai, il modello imperante di giustizia retributiva, la spettacolarizzazione della pena hanno assunto sfumature di voci reali smettendo, così, di essere argomenti confinati all’astrattezza.
Di carcere abbiamo parlato ponendo alla base il principio del reinserimento sociale, tema portante del convegno realizzato presso l’Università di Tor Vergata. Posto che ogni esistenza è degna di essere compresa e sebbene il nostro sia un sistema carcero-centrico, è quantomeno auspicabile che la detenzione rappresenti una parentesi. In quest’ottica il reinserimento sociale – di gran lunga preferibile al concetto desueto di “rieducazione” – diventa una finestra aperta sul futuro, quel segmento di tempo che in carcere assume la forma del rimpianto.
A tal proposito Gabriella Stramaccioni, garante dei diritti delle persone private della libertà di Roma Capitale, ha sottolineato l’impossibilità da parte delle strutture detentive – confermata, tra l’altro, dalla pandemia – di assolvere il proprio mandato senza la creazione di una rete sociale: «il carcere ce la fa soltanto se è in sintonia e in relazione con la società esterna, con le altre istituzioni, con la scuola, l’università, il volontariato, con una serie di agenzie educative che possano supportare quello che viene definito trattamento». Il crollo del personale – «secondo gli ultimi dati al femminile penale abbiamo due educatori per circa 350 persone» – costituisce una problematica interna che preclude, spesso, la buona riuscita delle attività trattamentali, ne è prova la chiusura del teatro femminile di Rebibbia lo scorso dicembre. «Queste cose ci interrogano per capire quale possa essere una strategia da mettere in atto per fare in modo che il carcere non sia quel tempo vuoto di cui si parlava, ma che rischia di diventarlo sempre di più. C’è bisogno di un lavoro più coordinato, più socializzato, ad esempio con la magistratura di sorveglianza».
Il reinserimento sociale è allora il risultato della creazione di un dialogo tra l’interno e l’esterno che presuppone l’importanza di non perdere il senso dell’agire sociale, la consapevolezza di essere cittadini in grado di esercitare diritti e doveri. In carcere, nel luogo del contenimento dei corpi, troppo spesso ci si dimentica che il tratto di strada compiuto fino a quel momento concorre a scrivere la sceneggiatura di un’esistenza e così, in maniera più o meno arbitraria, si lanciano ostacoli sul percorso. Come ha ricordato Stefano Anastasia, garante delle persone private della libertà del Lazio, «bisogna chiedere all’amministrazione penitenziaria che garantisca i percorsi che le persone compiono. I trasferimenti, ad esempio, sono interruzioni di percorsi, dei quali invece bisogna avere rispetto perché altrimenti il dentro non funziona». A tal proposito è stato citato l’episodio che, a seguito di una sparatoria nel carcere di Frosinone e di una notizia distorta, «ha fatto sì che 120 detenuti della sezione di alta sicurezza sono stati trasportati a Viterbo, dove è stata aperta una sezione per l’occasione, e da Viterbo altri 120 sono stati trasportati a Frosinone. Il motivo non si conosce, la cosa certa è che 240 detenuti hanno interrotto i loro percorsi. Bisogna confrontarsi nelle scelte di tutti i giorni per far sì che l’obiettivo non sia tenere chiuse delle persone finché non terminano di scontare la loro pena».
Già Mauro Palma, garante nazionale delle persone private della libertà, aveva sottolineato nella stessa occasione i limiti legati all’idea di trattamento, proponendo la conversione di questo termine in “orientamento”. A tornare prepotentemente quando si discute in materia di carcere, quindi, è ciò che all’esterno sembra essere un concetto scontato: il rispetto della dignità del singolo. Non più corpi assenti, ma identità da riconoscere. Se le strutture di controllo ricorrono alla spoliazione dell’umano per continuare ad esistere, il reinserimento sociale – la certezza che essere parte della società come condizione irrinunciabile – non può che essere l’antidoto