Silvia Semenzin è attivista e ricercatrice post-dottorato in Sociologia Digitale presso l’Università Complutense di Madrid. Nello specifico si occupa di giustizia digitale affrontando temi quali: privacy e intimità, discriminazione algoritmica, violenza online e resistenze digitali. Con lei abbiamo parlato di Revenge Porn individuando i limiti di tale espressione – sarebbe più opportuno riflettere sull’assenza di consenso nella condivisione di materiale intimo – attraverso la quale, erroneamente, si pone l’accento sul «concetto di vendetta che conduce al victim blaming» e sul termine pornografia, di cui però non è possibile parlare in assenza di consenso.
Sarebbe importante, quindi, declinare il discorso in chiave sociale e culturale, interrogando la cultura nella quale siamo immersi e immerse. «Gli uomini fin da giovani vengono socializzati a mostrare un costante desiderio sessuale: tipicamente il sesso e la sessualità costituiscono un collante per le relazioni tra uomini e un modo per costruire diverse forme di maschilità, ad esempio attraverso la condivisione delle esperienze sessuali e il consumo di materiale pornografico».
Revenge Porn: cosa contiene questa espressione e quali sono i suoi limiti?
La parola “Revenge porn“ è un’invenzione mediatica nata sull’onda di casi simili a quello di Tiziana Cantone. Letteralmente significa “pornovendetta” e fa riferimento a quei casi in cui, alla fine di una relazione, uno dei due pubblica in rete le foto o i video intimi al fine di vendicarsi dell’altro/a. Tuttavia, in generale la letteratura femminista non concorda con l’uso di questo termine. Come affermiamo anche nel nostro libro io e Lucia Bainotti, non dovremmo parlare di revenge porn per due ragioni: la prima è che il concetto di vendetta conduce al cosiddetto “victim blaming”, ovvero l’idea che chi diventa vittima di violenza abbia fatto qualcosa di sbagliato e che quindi, in un certo senso, “se la sia cercata”. Chi diventa vittima di condivisione senza consenso di materiale intimo molto spesso si sente dire che poteva stare più attenta, che sapeva a che cosa sarebbe andata incontro e che quindi poteva evitarlo.
Ciò che invece abbiamo voluto sottolineare noi con il nostro lavoro è che nella maggior parte dei casi la vendetta non c’entra nulla con questo fenomeno. Al contrario, il problema va ricercato nella preoccupante normalizzazione di questi comportamenti, molto spesso giudicati “da maschi” e trattati come semplice goliardia. Quando parliamo di condivisione non consensuale, inoltre, mettiamo al centro l’importanza del consenso della persona ritratta: un consenso che non solo è sessuale (e quindi relativo alla nostra sfera intima e alla nostra libertà di dire di no), ma anche digitale (dunque relativo all’uso che persone terze fanno dei nostri dati e contenuti). L’altro motivo per cui non dovremmo parlare di revenge porn è che, in mancanza di consenso, non possiamo parlare di pornografia. Ritenere la nudità femminile intrinsecamente pornografica, infatti, è problematico e discriminatorio nei confronti dei nostri corpi.
La legge che criminalizza la diffusione di materiale intimo non consensuale, entrata in vigore a luglio del 2019, sembra non riuscire a contrastare in maniera efficace questo fenomeno che, come ha avuto modo di sottolineare in alcuni dei suoi interventi, ha una matrice culturale. Perché lo strumento del controllo non basta?
Il controllo legale non funge mai da deterrente unico: se così fosse, non avremmo più stupri o casi di violenza domestica. È chiaro che lo strumento legale è necessario per tutelare le vittime e aiutarle a farsi giustizia, ma nel caso della legge 612-ter lo strumento è inefficace per almeno quattro ragioni: in primo luogo, il ruolo periferico e strumentale che viene assegnato ai media digitali, invece di considerarli parte attiva della violenza (anche questo è spiegato nel nostro libro); in secondo luogo, il disconoscimento della natura umana e culturale della violenza contro le donne online, che confina quindi la sua risposta legale all’interno di un rigido modello di deterrenza; in terzo luogo, il fatto che la vittima sia tenuta a dimostrare il dolo specifico del carnefice, ovvero la volontà di danneggiare, che in moltissimi casi (come i gruppi Telegram) è impossibile; infine, la mancanza di riconoscimento della natura collettiva e distribuita dalla violenza online e della condivisione non consensuale di materiale intimo. La legge, insomma, è ancora profondamente miope e, secondo l’avvocato Caletti, esperto di Diritto Penale Internazionale, inefficace per almeno l’80% dei casi di denuncia.
Nel saggio pubblicato insieme a Lucia Bainotti, Donne Tutte Puttane: Revenge Porn e Maschilità Egemone, si suggerisce l’importanza di porre l’accento sugli autori di reato, portando alla luce il concetto di “omosocialità maschile”. Ci aiuta a comprendere di cosa parliamo?
I media tendono spesso a trattare i partecipanti ai gruppi e canali di Telegram come “pazzi”, “pedofili”, “stupratori”, ma non è affatto vero. L’esistenza di queste chat nella sua versione “micro” è stata anzi finora molto normalizzata: basti pensare alle classiche chat del calcetto e da spogliatoio, e quanto non sia assolutamente visto come problematico il fatto che molte delle conversazioni si basino sull’invio di foto di donne e su commenti a sfondo sessuale. Quello che io e Bainotti abbiamo voluto sottolineare è che si tratta invece di un fenomeno legato alla costruzione sociale di ciò che è considerato “da maschi”.
Il concetto di omosocialità maschile è utile perché da un lato indica una serie di pratiche performative che si innescano in gruppi di uomini per costruire la propria identità, mentre dall’altro indica alcune caratteristiche della struttura di genere che orientano e supportano la società patriarcale. Gli uomini fin da giovani vengono socializzati a mostrare un costante desiderio sessuale: tipicamente il sesso e la sessualità costituiscono un collante per le relazioni tra uomini e un modo per costruire diverse forme di maschilità, ad esempio attraverso la condivisione delle esperienze sessuali e il consumo di materiale pornografico.
Il desiderio sessuale maschile viene così esasperato che diventa davvero difficile riconoscere l’importanza del consenso e della libertà sessuale femminile: la donna resta un oggetto sessuale utile a soddisfare i bisogni maschili e la linea tra sessualità e violenza si assottiglia fino a diventare quasi invisibile.
Secondo i dati della Polizia Postale, ha reso noto in un video pubblicato sul suo profilo Instagram, durante la pandemia la violenza online contro le donne è aumentata del 78% rispetto al 2020. Quali responsabilità hanno i gestori delle piattaforme digitali – ricordiamo il caso Telegram – rispetto alla diffusione di materiale intimo non consensuale?
Il caso di Telegram è emblematico per raccontare come le tecnologie stesse siano imbevute di stereotipi e ideologie: Telegram, per politica interna, non effettua un controllo diretto dei contenuti di gruppi e canali e lascia agli utenti l’onere di segnalare e controllare il materiale. Questo però non vale in casi come, ad esempio, il terrorismo e la pedopornografia, per cui Telegram possiede dei canali di segnalazione appositi. Trovo che sia abbastanza rilevante il fatto che la piattaforma non abbia ancora riconosciuto il problema della condivisione non consensuale di materiale intimo come sufficientemente preoccupante da effettuare maggiori controlli e interventi più repentini.
È complesso trovare delle soluzioni senza incorrere in proposte di censura e abolizione dell’anonimato online (che personalmente trovo controproducenti), tuttavia il problema è gravissimo, colpisce indisturbato ogni giorno migliaia di donne in modi sempre nuovi ed è diventato insostenibile. Urge quindi interrogarsi su come rendere più responsabili le piattaforme digitali, partendo dal presupposto che siamo di fronte ad aziende private e che quindi l’auto-regolazione non è auspicabile né possibile. Questo però non è affatto un problema solo italiano, anzi, perché Internet non conosce confini nazionali. Sul piano internazionale bisognerebbe prendere delle misure più forti nei confronti di piattaforme private che oggi hanno potere decisionale assoluto su ciò che riguarda la nostra privacy, i nostri dati e i nostri contenuti anche intimi.
Quali sono, a suo modo di vedere, i provvedimenti che andrebbero adottati sul piano culturale e legale per contrastare il reato di diffusione di materiale intimo non consensuale?
Sarebbe necessario migliorare e ampliare i testi di legge attuali, oltre a ragionare sul più ampio fenomeno della violenza online contro le donne prima di legiferare. Bisognerebbe creare regolamenti transnazionali per la regolamentazione delle piattaforme, rimettere al centro del discorso tecnologico gli esseri umani e i diritti umani, ma anche creare reti di tutela e supporto alle vittime. Infine – ma non meno importante – creare percorsi di educazione sessuale, affettiva e digitale nelle scuole e nelle università.