Le ritualità nelle dinamiche di potere sono state oggetto di riflessione nell’intervista a Cristina Cassese. «Giorgia Meloni non è interessata a rivendicare un ruolo per il genere a cui appartiene. La scelta di farsi chiamare “il presidente” (rafforzata anche in Parlamento dai riferimenti sminuenti all’espressione “capa trena”) è un tentativo di ridicolizzare la battaglia femminista in merito all’uso delle parole. Una battaglia chiaramente molto divisiva, intorno alla quale le persone fanno ancora molta fatica a orientarsi».
Quali sono gli stereotipi culturali e le ritualità che Giorgia Meloni sta ricalcando?
È una persona intelligente e furba: ha capito che rispetto alla questione dell’identità di genere fosse necessario smorzare i toni. Il suo partito proviene dal vecchio Msi, ha una gradazione di nostalgia fascista intrinseca, e questa è un’eredità molto pesante da gestire, motivo per cui ha dovuto per forza moderarsi. Ma se scaviamo più a fondo, troviamo quello che c’era prima.
Ha uno stile comunicativo molto semplice e comprensibile, soprattutto adesso che si presenta in una veste più moderata, senza urlare e sbraitare. Ha trovato anche espedienti comunicativi funzionali, Il diario ne è un esempio. È un espediente politico molto populista, soprattutto se riflettiamo sul fatto che il suo predecessore, a proposito di riti e tradizioni, incarnava perfettamente l’istituzione. Draghi è un uomo che, non solo per curriculum, risulta algido e freddo per il suo modo di essere, la sua postura e il suo stile comunicativo. Lei, al contrario, capitalizza la sua provenienza di borgata. Sicuramente non fa parte dell’establishment, Draghi è praticamente la sua nemesi.
Giorgia Meloni arriva subito dopo di lui, avvicinandosi a quelle stesse persone che al momento risultano le più danneggiate dalle sue manovre politiche. Trovo che questo sia un dato veramente molto interessante.
Non credo che sia affatto chiara questa pratica al momento, però.
Assolutamente no, perché nel frattempo – simbolicamente – Meloni ha assunto un atteggiamento rassicurante. Sta cercando un equilibrio per poter essere percepita positivamente, incarnando tutti gli stereotipi confortanti per l’immaginario collettivo, come quello della maternità o delle origini semplici di borgata, e lo fa utilizzando una comunicazione facile e un linguaggio informale.
Cristina Cassese. Fotografia di Francesco Formica
Ma al tempo stesso rappresenta un elemento di novità e quindi deve saper prevenire il dubbio sulla sua figura: per la prima volta una donna, anche relativamente giovane, è alla presidenza del Consiglio in Italia e per la prima volta è un governo di estrema destra alla guida del Paese. Deve saper dimostrare di essere in grado di stare al comando. Da qui la scelta di farsi declinare al maschile e la sobrietà negli outfit.
Sta ripensando la sua prossemica, per portarsi più vicina al modello maschile. Sembra si scusi per il fatto di essere una donna.
Per il fatto di essere una donna e – mi sento quasi male a dirlo – un underdog, pur non essendolo.
In un momento storico come il nostro, in cui cresce l’attenzione intorno a questioni come quella del linguaggio e dell’identità di genere, risulta per certi versi anacronistica la sua elezione a capo del governo.
Già la discussione in Parlamento riguardo al ddl Zan aveva mostrato quanto le idee di Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia fossero fortemente conservatrici e stereotipate, basti pensare al concetto di famiglia, di maschile e femminile che difendono.
Nel programma diffuso durante la campagna elettorale, le misure volte a contrastare la violenza sulle donne sono tutte di tipo punitivo: inaspriscono le pene e aumentano i fondi per i centri antiviolenza. Di per sé non sono misure negative, ma sono la dimostrazione di una mentalità che non considera la violenza come un fenomeno sistemico che ha bisogno di essere trasformato alla radice. Riconoscere che la violenza sulle donne sia un problema legato ai ruoli di genere, all’identità maschile e femminile stereotipata e viziata, significa elaborare una strategia risolutiva innanzitutto di tipo preventivo, anche attraverso percorsi di analisi e riabilitazione.
Lo consideri un approccio che vuole assecondare le masse per assicurarsi i loro voti o che vuole orientare?
Credo che sia più un approccio passivo che vuole assecondare la mentalità più diffusa. Il nostro Paese non ha ancora fatto i conti con il fascismo, tanto meno con il berlusconismo ed è un problema perché Silvio Berlusconi è un uomo che ha plasmato l’immaginario collettivo degli italiani intorno al sesso e al potere.
Il problema di Meloni non è in quale percentuale incarni il maschile, ma i contenuti che porta. Sono contenuti che convalidano un modello stereotipato, anziché scardinarlo e agire in maniera più coerente rispetto al dibattito attuale, in cui appunto si presta più attenzione al linguaggio e alle parole. C’è certamente tanta confusione, ma stiamo vivendo a tutti gli effetti una trasformazione e allora perché tornare indietro? La scelta della declinazione al maschile l’ho trovata semplicemente ridicola.
Tra l’altro credo che la gran parte delle persone non faccia alcuna fatica a chiamarla “la presidente”.
Credo proprio di no. La sua è chiaramente una frecciatina alle femministe, ma sono ormai anni che parliamo della cancelliera, della sindaca, della ministra e degli altri femminili professionali, quindi davvero è stato un modo per rimarcare la sua posizione politica.
La storia dei femminili professionali torna ciclicamente in ballo, perché una fazione del dibattito sostiene che la declinazione al femminile non sia importante, che quello che conta è ciò che fai e non come ti fai chiamare. Per retaggio culturale, nel caso di ruoli storicamente declinati al maschile, rivolgerli al femminile significherebbe depauperarli della loro importanza. “Maestro”, ad esempio, vuol dire grande guru, il termine “maestra” invece indica un’insegnante di scuole elementari, nella cui figura si fa convergere anche la componente materna della cura. È un sessismo interiorizzato del quale quasi non ci si rende conto.
Quanto è grave?
Molto, perché significa non riconoscere la realtà, dunque una società che discrimina e crea dislivelli. Da donna, in un sistema di uomini – dal suo partito fino alla società e al mondo politico – Meloni ha adottato questa strategia, certamente più efficace rispetto alla lotta per la parità.
Cristina Cassese. Fotografia di Francesco Formica
È molto più facile adeguarsi al modello patriarcale maschile e diventarne l’incarnazione femminile. Disarcionare quel modello invece equivale ad entrare nella tana dei lupi. Elly Schlein arriva a meno persone rispetto a Giorgia Meloni, perché sta cercando non solo di scardinare l’idea di maschile e femminile, ma il concetto stesso di potere.
Quella di Schlein è una linea di pensiero, non una strategia.
Sì, è un crederci. Resta però da capire quanto possa essere efficace perché il suo è un approccio molto diverso da ciò a cui siamo abituati e abituate. Naturalmente mi auguro che sia per lo meno l’inizio, a prescindere dal risultato delle primarie. Osservo con un certo interesse quello che succederà alle elezioni, perché sono curiosa di capire cosa arriva alle persone, soprattutto nelle periferie.
Qual è la prospettiva antropologica con cui possiamo chiudere?
Siamo all’interno di una crepa, di fronte a sfide enormi, che potrebbero essere in parte risolte guardando alle società non occidentali. L’idea che propongo è quella dell’antropologia come educazione.
Paul Preciado, in un intervento recente a Più libri più liberi, ha presentato il XXI secolo come l’era di una profonda trasformazione epistemologica, in cui i generi maschile e femminile risultano desueti e anacronistici: queste categorie non sono più sufficienti a rispecchiare il reale.
Andiamo incontro a un grande caos, perché il sistema capitalista si basa sul binarismo di genere, a partire dalla funzione riproduttiva dei corpi femminili e da quella produttiva dei corpi maschili. È dunque arrivato il momento di ripensare le categorie fondamentali del nostro vivere in comunità: il concetto di famiglia, di parentela, le relazioni, il rapporto con l’ambiente, il sistema produttivo stesso e così via. Tutto questo si traduce in nuovi modi di stare insieme, in nuove forme di ritualità collettiva e, a questo proposito, imparare dalle società non occidentali può essere molto costruttivo.