Sofia aveva lunghi capelli è un romanzo, edito da Castelvecchi, fatto di parole scelte. Sono carezze in fronte che tagliano come l’umiliazione che si prova quando a rivolgertele è la persona che dovrebbe riceverle. L’autore del romanzo è Giuseppe Perrone, persona detenuta dal 1992, attualmente nella Casa Circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso. Tratto da una storia vera, questo romanzo restituisce la verità dell’avvicendarsi di una vita che non rispetta i tempi dell’incontro, ma che rimane costretta al ritmo lento dell’attesa.
Un’attesa, in ogni caso, non lasciata trascorrere nella passività del tempo rotto del carcere, ma vissuta nella consapevolezza che, per quanto rotto, il tempo non è fermo e va impiegato. La pubblicazione di questo romanzo è una delle tante prove superate nel percorso di Perrone, ne dimostra le qualità creative, la brillante carriera accademica e lo spessore umano che arriva soltanto in seguito a un grande lavoro di introspezione e critica. Un lavoro identitario che, ormai, non può prescindere dal riconoscimento sociale, dal quale è rimasto per decenni escluso.
Questo libro testimonia la potenza degli altri nelle vite di ciascuno, il coraggio della messa in discussione, la stretta più resiliente dell’amore, il valore della formazione universitaria in carcere. Sofia aveva lunghi capelli è una storia di vita che mentre si dispiega chiede a chi la legge lo sforzo dell’empatia. È un romanzo scritto con parole urgenti e necessarie perché restituiscono lo strazio di una persona mai arresa.
È una storia di vita come tutte, eppure un’esistenza unica e rovesciata, perché obbligata a guardarsi a partire dalla condanna del ‘fine pena mai’ e poi a tornare indietro: calarsi in un presente, viverlo con pienezza per darsi ad un futuro che deve essere rivisto. Lontano e diverso da una pena senza fine e senza tempo.
Alla perdita di senso del tempo dell’ergastolo ostativo, l’autore del romanzo ha risposto vivendo: non è stato fermo. Ha costruito. Avrebbe potuto trascorrere i trent’anni, già passati, della sua reclusione limitandosi a essere parte del mobilio stantio del carcere, ma non l’ha fatto. Per quanto sarebbe stato meno doloroso. Ha costruito se stesso, in uno spazio inedito di pensieri e parole, dove l’amore e lo studio sono state ancore di salvezza, per non perdersi, perché «qui l’altro tende a scomparire o a diventare insignificante. Diventando l’altro insignificante, noi stessi perdiamo di senso».
Sofia aveva lunghi capelli è un romanzo che solo apparentemente racconta un amore che continua a respirare anche nel singhiozzo del pianto, lo spettro di un carcere che mastica e sputa le vite che lo popolano, le lunghe attese partorite dal sistema penitenziario che inebetiscono le coscienze e le induriscono. Sofia aveva lunghi capelli racconta la mancanza delle piccole cose che riempiono i gesti delle nostre mani, le impronte incerte e tese che si nascondono dietro a un passo nuovo. Racconta le ragioni di vita di un uomo che esiste, anche se nascosto da un muro che lo rende inesistente ai più. È un libro che va letto e ascoltato da dentro. Di cui si deve immaginare il battito cardiaco. Non racconta l’assenza di un abbraccio, ma la storia di una pelle che anela il diritto a essere sfiorata e voluta, sentita, ancora.
Partendo da brevi citazioni tratte dal romanzo, abbiamo voluto presentare il libro dialogando con l’autore, cogliendo così anche l’occasione di presentare il carcere per quello che è, con le parole di chi lo vive da trent’anni.
«Il carcere è della colpa il simbolo». L’ho letto nel tuo romanzo, superata la prima metà, nel cuore delle cose, in mezzo ad una storia iniziata da tempo, una storia che provavo a guardare e sentire da dentro. Credo ci sia un momento, una rottura, nella pena di ogni persona detenuta, oltrepassato il quale il carcere smette di essere retribuzione, risarcimento, rieducazione, riscatto – insomma, il tutto e il niente che può significare – e diventa mera e spietata affissione di una colpa pubblica su un corpo privato. Cosa rimane ad una vita alla quale si chiede di sopravvivere indossando unicamente le vesti del simbolo?
Mi verrebbe da dire che a questa vita rimangono le vesti. E questo sarebbe vero e verificabile, siccome però molto, per non dire tutto, non è ciò che appare, specialmente qui, risulterebbe non corrispondente alla realtà.
Il potere dell’uomo sull’uomo per levarti la vita deve averti prima spogliato. Infatti il simbolo è sintesi, che per noi equivale a corpo nudo, ovvero spoglio perfino della sua amata anima. Quindi corpo. Mi rimane dunque il mio corpo e una bella domanda: quale simbolo promuove il mio corpo nudo ignorato e declassato a cosa? Perché solo cosa può essere se gli altri, i gestori del potere, non trovano le ragioni del suo non essere altro che un corpo.
Poco lontani dall’inizio del romanzo invece, scrivi una verità troppo spesso dimenticata: «il carcere non è una proprietà e nemmeno un tesoro da nascondere o un trofeo da esibire. È solo un’idea come tante». In quanto idea come tante altre è convenzione e non assoluto. Quindi può e deve essere ripensata, ma come? Quali sono gli aspetti che l’idea in vigore non tiene in considerazione?
Tantissimi, ma uno è centrale alla questione: il carcere non tiene conto della natura degli uomini in quanto esseri sociali, che vivono in un mondo di relazioni, il cui continuum non può essere disarticolato per anni o decenni. Carcere spesso equivale a piccole deportazioni e queste equivalgono, a loro volta, a una slogatura del concetto di continuità. C’è poi una ricaduta sul vivere quotidiano che vede le persone detenute rinchiuse per 20/22 ore al giorno in spazi nei quali anche un maiale avrebbe da ridire. Per non parlare delle necessità che ogni persona ha e che sono diverse, anche di molto magari, dalla persona con la quale si è costretti a dividere lo spazio-cella.
Casa Circondariale di Rebibbia – Nuovo Complesso. Fotografia di Francesco Formica
Il concetto di fondo che caratterizza il carcere è “niente per nessuno”. Ovvero una sorta di socialismo della sottrazione per uguagliare verso il basso, molto in basso, le persone detenute affidate alla sua clemenza. È necessario intervenire per far uscire dal coma tossico le carceri italiane, nel quale sono sprofondate. Diversamente non si spiegherebbero le decine di condanne della Cedu verso il nostro paese per trattamenti disumani e degradanti.
Tra gli orizzonti auspicabili anche quello in cui il carcere «deve aprirsi al pubblico». Cosa significa il pubblico dentro un luogo di detenzione?
Innanzitutto significa che il carcere in quanto idea è qualcosa da condividere. La partecipazione pubblica segnala aspetti di una democrazia della quale il carcere ha un gran bisogno. Il carcere è spesso autoreferenziale. Nel corso degli anni ha costruito uno scudo dietro al quale nasconde e protegge prassi che sono disconnesse dal tempo che viviamo. Molti di noi hanno intrapreso il percorso di cambiamento richiesto dal carcere o dalle norme che ne regolano l’esecuzione penale, ma con tutto ciò nulla è cambiato, a cominciare dal fatto che il carcere è stato e resta uno dei regni fortificati del potere.
Rispetto alla complessità e alla potenza struggente del pensiero, un passaggio del romanzo sussurra velocemente che «per non pensare al suicidio o per non impazzire doveva stemperarlo in compartimenti primari e subordinati». È una questione enorme quella del suicidio, quella di un carcere che svuota di significato le esistenze, le vite. Forse, non si tratta solo della perdita di speranza, ma di disorientamento, della perdita di senso rispetto ad un presente che strangola le prospettive future. Qualche pagina più avanti, infatti, i pensieri di Matteo, il protagonista, si rivolgono anche a questo: «qui l’altro tende a scomparire o a diventare insignificante. Diventando l’altro insignificante, noi stessi perdiamo di senso».
Il carcere che abbiamo oggi è qualcosa di cui qualcuno pensa che quando qualcun altro ci finisce dentro è perché già era un essere insignificante per sé e per gli altri, quindi tanto valeva farla quella nobile opera di ripulitura del paesaggio urbano, prelevando gli scarti umani per depositarli nel contenitore della differenziata umanoidi.
Eccezione esiste ed è stata da me ampiamente sperimentata laddove in alcuni casi l’insignificanza ha lasciato il posto alla significanza: umanità, rispetto, diritti, salute, legalità eccetera. Questi hanno prevalso perché chi era finito dentro non era un anonimo delinquente – dell’ignoto tutti hanno inconsciamente paura – ma un amico degli amici e in questi casi si utilizza la famosa tesi dei due pesi e delle due misure.
«In un posto in cui lo spazio è dannatamente, ripetutamente interrotto, l’idea che il tempo si fermi è un’idea perfida. Perfida al punto da consegnarti vivo alla morte». Cosa sono tempo e spazio in carcere? Soprattutto dopo quasi trent’anni di reclusione.
Dopo trent’anni tempo e spazio sono un concetto assai più relativo di quanto non sia normalmente per chi il carcere non lo vive o per chi è arrivato da poco. Se, ad esempio, una persona che è dentro da trent’anni fa una qualsiasi richiesta per la quale deve aspettare mediamente una risposta che non arriverà prima di 6 o 12 mesi, questo tempo ha poco a che fare con la legalità. Perché i trent’anni di carcere dovrebbero restituirgli la massima urgenza, se tuttavia nessuno rileva questa urgenza la questione è presto risolta: ciò è la prova che il sistema è completamente fallito. Salvo che la pena non abbia fini dei quali nulla sappiamo.
Sofia aveva lunghi capelli è un romanzo fatto di parole scelte. Sono carezze in fronte che tagliano come l’umiliazione che si prova quando a rivolgertele è la persona che dovrebbe riceverle. Le scelte arrivano, dicono sempre qualcosa e tu dici che «ci sono vite che valgono e vite che non le vuole nessuno». Posto che il non essere volute non ne implica la perdita di valore, mi chiedo qual è la sorte di queste vite in carcere?
Te l’ho detto prima: la loro sorte è l’insignificanza. Tu oggi in carcere puoi morire nell’indifferenza totale di chi il carcere lo gestisce o lo controlla a tutti i livelli e anche dei media che del carcere hanno dimenticato perfino la nobile missione riportata in Costituzione. Quando ne parlano la superficialità è tale da non permettere alcuna analisi seria delle questioni.
In poche parole, se io domani mattina dovessi morire per una qualsiasi ragione, nessuno cercherebbe questa ragione. L’importante diverrebbe la mia storia criminale già passata per mille giudizi, ma che per chissà quale strampalata motivazione dovrebbe ridestare l’interesse sociale del pubblico. Lo stesso pubblico al quale oggi è fatto divieto di entrare nelle carceri della Repubblica, la propaganda strilla: “te lo diciamo noi che cosa succede all’interno dell’istituzione carceraria”. Io mi limito ad aggiungere rimasta forse l’unica impenetrabile allo sguardo e al giudizio della comunità. Perché?
«Giustizia e senso di umanità sono diventate parole vuote, perché hanno dovuto, costrette, cedere il passo alla più tracotante delle parole: la vendetta». Quando la giustizia diventa vendetta?
La giustizia diventa vendetta quando le persone che gestiscono il potere, cioè coloro che hanno potere decisionale sulla vita delle persone detenute, considerano i condannati non più persone, ma cose. Infatti, solo attraverso questo passaggio riesco a comprendere che il mio interlocutore potente è diventato prepotente e che prepotentemente attua forme di vendetta, peraltro non previste in Costituzione.
Casa Circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso. Fotografia di Francesco Formica
Ti riporto un esempio di vendetta: mio figlio è nato il 31 maggio 2016, sai quanto tempo mi è stato concesso dal magistrato di sorveglianza di Roma per stare con mio figlio? Un’ora! Per un’ora sono stato tradotto dal carcere di Rebibbia fino a Trepuzzi, a Lecce, ammanettato come un somaro, per poi, trascorsa l’ora, fare ritorno in carcere a Roma. Mentre, nove anni prima, in occasione della seconda laurea che stavo conseguendo, il magistrato di sorveglianza di Parma mi ha concesso due giorni senza scorta, trascorsi i quali ho fatto rientro in carcere senza problemi.
Qual è la funzione degli educatori e delle educatrici in carcere? «Educatore e detenuto, molto, ma molto spesso, sono due corpi che non si appartengono», cosa comporta questo?
Comporta che le aree educative spesso rimangono ancorate ai dati processuali, quindi ai reati commessi, alle condanne ricevute per tali reati e la fissità di questo pensiero non permette che ci sia un dialogo tra le parti. Così si va avanti per monologhi. Ognuno fa il suo e spesso quello a cui si riduce il ruolo dell’educatore o educatrice ruota attorno a queste parole: pericolosità, reato, gravità, pena, criminalità, sicurezza, mafia, collaborazione, revisione critica, emenda, giustizia riparativa. Capirai che di fronte a cotanto ardore, poveri corpi non conosceranno mai la parola incontro.
«L’abisso della pena senza tempo non è il solito mare di guai […] ti declassa da uomo a cosa, da debitore della società a bene di proprietà statale». Come si risale l’abisso dell’ergastolo ostativo?
Come si risale l’abisso dell’ergastolo ostativo non è spiegabile. Dovrei scrivere un altro romanzo su questo. Tuttavia, temo che non mi basterebbero le parole che oggi ho a disposizione e che in pochissimi comprenderebbero la mia lingua, ovvero la mia tesi, ossia la mia sintesi. Trent’anni quanti sono? Non lo sai. Te lo devo dire. Trent’anni sono uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove, dieci, undici, dodici, tredici, quattordici, quindici, sedici, diciassette, diciotto, diciannove, venti, ventuno, ventidue, ventitré, ventiquattro, venticinque, ventisei, ventisette, ventotto, ventinove, trenta.
In questa vita, che è in buona parte gioco sterile di apparenze, stabilire chi è il buono e chi il cattivo ha una rilevanza notevole. Perché è importante ricordare che «il male è dentro di noi depositato come farina nel sacco» e che questa è una delle radici che ci rende uguali e umani?
Non solo è importante ricordare che il male è in noi, ma è necessario anche ricordare che il male non è una composizione sezionabile o asportabile, perché appunto è polvere sottile, sensibile perfino ai nostri innocui respiri di vita. Altrettanto dico del bene, che non una cosa determinata, messa lì, e che qualcuno può prendere per farne buon uso. È ovvio che alla base di questi due elementi la volontà umana gioca un grande ruolo.
Il protagonista del romanzo ad un certo punto si ritrova a scoprire qualcosa di impossibile da spiegare a chi non lo ha vissuto: «l’isolamento del 41 bis gli stava portando via la sensibilità del tatto». Proviamo a parlarne? Cosa vuol dire subire un’alterazione nella percezione del corpo altrui e di riflesso anche del proprio?
Subire un’alterazione dei corpi, altrui e proprio, non richiesta vuol dire subire una coartazione. Essere un coartato equivale a essere un deportato del diritto. Questo modo di esistere dell’essere si riduce in sostanza a un non essere o semmai ad essere quel qualcosa che autorizza chiunque a derubarti del possibile, a cominciare da uno dei tuoi cinque sensi. Ti sembra poco?
«Se siamo capaci di amare, e accogliamo con consapevolezza l’amore di chi ci resta accanto, esso è in grado di guarire prima e in profondità le nostre ferite». L’amore concesso in carcere è ridotto all’osso o del tutto negato. Che senso ha privare della forma di cura più alta – l’amore per una moglie, un compagno, figli e figlie, genitori – qualcuno che si ha la presunzione di voler “aggiustare” o “risanare”?
Ha esattamente il senso della presunzione. L’immodestia acceca il potere, che è orbo per natura. Rarissimamente si accorge dei danni che provoca. Il punto nodale è sempre quello: in carcere tu non sei una persona, per il potere dell’uomo sull’uomo tu sei una cosa. Solo dopo averti declassato a cosa possono negarti addirittura l’amore, il sesso, l’affetto passionale e tutte le forme di affetto che ognuno di noi è abituato a manifestare in ragione di quel naturale sacrosanto dialogo degli affetti e delle passioni che ci rende diversi dalle bestie. Ti starai domandando se allora siamo delle bestie. Te lo devo dire? Sì lo siamo, almeno nelle considerazioni di chi ci detiene in condizioni bestiali.