Nella Comunità Maxwell Jones Dipartimento di Salute Mentale e Patologie della Dipendenza della Asl di Frosinone ci siamo confrontati nuovamente con alcuni dei pazienti che vivono all’interno della struttura, grazie ai quali abbiamo aggiunto un altro tassello alla conoscenza di questi luoghi. Poco prima di incontrare Amedea, Fabrizio e Domenico, però, abbiamo avuto modo di scambiare poche parole con Stefano Liburdi, uno degli operatori socio sanitari della Maxwell Jones. Il confronto con lui ha confermato che il lavoro portato avanti nelle Comunità non è altro che il tentativo di costruzione di un’autonomia. Ogni giorno si aggiunge un mattoncino alla costruzione delle proprie consapevolezze, con lo sguardo che spesso si volge indietro ma punta a dirigersi sempre più verso l’esterno. «Sono undici anni che mi trovo nel reparto di riabilitazione psichiatrica, il mio lavoro consiste nel cercare di riportare queste persone alla vita fuori. La mattina assisto i pazienti nella cura dell’igiene personale e dei loro spazi, perché è fondamentale che non si lascino andare. Creiamo gruppi, osserviamo i legami che nascono tra loro e organizziamo diverse attività. Uno dei compiti più importanti per noi operatori è contrastare la tendenza all’isolamento».
«È difficile ambientarsi, ma non sono sola»
Tra gli ospiti della Comunità c’è Amedea, che nel racconto di sé ha integrato la sua vita passata con quella presente, non facendo mistero dei timori che covava quando, dopo aver scoperto di aver bisogno di aiuto, le è stato proposto il ricovero all’interno della Comunità: «Per anni le persone a me vicine hanno cercato di farmi capire che avevo bisogno di essere aiutata, ma vivevo con mia mamma e non me la sentivo di autorizzare il ricovero perché volevo assisterla. Dopo la sua morte sono andata a vivere da sola e da quel momento ho iniziato a non stare bene. Nonostante le visite psichiatriche mi rendevo conto che non miglioravo, quindi mi hanno prospettato un ricovero in questa Comunità: a marzo saranno quattro anni che sono qui. Da quando sono arrivata mi sento bene, ho iniziato a recuperare le mie energie mentali. È difficile ambientarsi, ma non sono sola».
Si è laureata in Scienze Geologiche a Pisa, Amedea, probabilmente perché suo padre da bambina la portava sempre a visitare le grotte del suo paese. Ci racconta di aver fatto l’insegnante per un periodo – «volevo vedere se mi riusciva» – ma poi sua mamma ha avuto bisogno di aiuto. Quella di stare vicina alla sua famiglia è una scelta che rivendica con forza. «Sono soddisfatta di me, sono contenta di essere stata presente per mia madre. Forse per arroganza, o magari per timore, ci ho messo molto ad accettare il ricovero. Sui giornali e in televisione i manicomi apparivano come strutture fatiscenti nelle quali le persone non stavano bene. Ero spaventata dal modo in cui si parlava di salute mentale. Questa Comunità, però, è un posto accogliente, come fosse una casa. Vorrei che la mia esperienza potesse trasformarsi in un messaggio di fiducia e speranza per le persone che ancora non hanno trovato una soluzione ai dilemmi della propria esistenza».
«Scrivo il mio modo di vedere la realtà»
Fabrizio entra nella stanza con un libro in mano, il suo, e inizia subito a parlarci della passione per la scrittura, nata quasi dal nulla. «A un certo punto del mio percorso personale, soprattutto nel processo di cura dalla malattia mentale, ho avvertito l’esigenza di scrivere. I primi pensieri erano dedicati a una ragazza, poi ho iniziato a imprimere sulla carta tutto quello che mi sembrava importante condividere con gli altri. La cosa strana è che non leggo molto e a scuola i temi erano il mio cruccio. Scrivo il mio modo di vedere la realtà, ogni poesia trasmette l’emozione di un attimo attraverso cui cerco di descrivere qualcosa e portarlo all’esterno».
Quando gli chiediamo se c’è una poesia – o pensiero profondo, come lui li chiama – a cui si sente più legato ci racconta che Pensiero Di…Verso ha una storia particolare. È venuta fuori inaspettatamente mentre provava a buttare giù un testo per la presentazione del suo primo libro. A renderla più memorabile di altre è lo stile, la musicalità. Dopo qualche esitazione, però, ne aggiunge un’altra, Perché, una poesia nella quale affronta un tema universale, quello della sofferenza. «Inizia in maniera provocatoria: “mi dispiace davvero tanto dover affermare che mi piace guardare la gente che soffre”. Il resto della poesia non è altro che un tentativo di spiegare l’incipit. Non sono un sadico, ciò che mi piace è aiutare le persone che soffrono, così come è successo a me. Quando allunghiamo la mano a qualcuno che si trova in difficoltà, automaticamente prestiamo soccorso a noi stessi e si attiva un circolo vizioso positivo».
Un paziente della Comunità Maxwell Jones. Fotografia di Martina Lambazzi
Rispetto alle attività svolte all’interno della struttura, quella che preferisce è la cinematografia. In particolare, il momento di discussione del film «è molto importante perché ciascuno inserisce un pezzo di realtà che manca all’altro. Ultimamente abbiamo visto Come un gatto in tangenziale, un film in cui si affronta il problema della comunicabilità e dell’incomunicabilità. Credo che a volte anche le persone che appartengono agli stessi contesti di vita facciano fatica a parlarsi».
Prima di salutarci ci tiene a dire che è importante, quando si parla di salute mentale, trattare l’argomento con serietà, provando a mettere in luce la parte più positiva. «Sulla malattia mentale esiste un pregiudizio che rende difficile combattere. È fondamentale dire che le nostre difficoltà possono essere gestite. Soltanto così si potrà abbattere lo stigma. L’ultimo pensiero del mio libro l’ho scritto pensando a due cose fondamentali per l’essere umano: il cambiamento e la consapevolezza. Bisogna essere in grado di costruire un percorso che porti ciascuno ad essere diverso da com’era prima, bisogna saper essere diversi da sé stessi. È questo che permette l’ispirazione. La consapevolezza di come ci si sente, invece, è quella che rende possibile il cambiamento nel cambiamento».
«Mi piace dipingere perché mi estraneo dai pensieri negativi»
Domenico parla tanto e ama dipingere. Nel corso del nostro incontro ci regala pillole di vita mentre si alza, continuamente, per andare a prendere i suoi quadri. «Quando ho terminato le scuole medie la mia professoressa di Storia dell’Arte mi ha consigliato di iscrivermi al liceo artistico. Tutte le volte che non riuscivo a dipingere mi sedevo accanto a lei e mi faceva vedere come fare. Io in realtà mi sono iscritto all’Istituto per geometri, scoprendo che lì potevo imparare soltanto il disegno tecnico.
Un paziente della Comunità Maxwell Jones. Fotografia di Martina Lambazzi
Quando frequentavo la prima media c’era un ragazzo che dipingeva con la tempera. Mi sistemavo dietro le sue spalle, affascinato, e pensavo che avrei dovuto provarci. Da lì ho scoperto di essere bravo. Un giorno una professoressa di Educazione Artistica che passava per la Comunità ha visto i miei quadri e mi ha chiesto perché avessi smesso di dipingere, le ho risposto che non avevo più materiale. Dopo due giorni si è presentata con colori e tele, mi ha spronato a riprendere a lavorare.
Nel 2000, in occasione di una mostra in cui ho esposto i miei quadri a Roma, qualcuno mi ha definito un paesaggista realista. Mi piace disegnare fiumi, laghi, mari, ma in fondo dipingo di tutto. Amo dipingere perché mi estraneo dai pensieri negativi. Mia figlia, ad esempio, è un pensiero grande. Quando ero a casa uscivamo, andavamo a raccogliere fiori. Mi ricordo che la mettevo sulle mie spalle mentre lei mi prendeva i capelli, che all’epoca erano lunghi, e me li tirava chiedendomi di non smettere di camminare. Adesso per fortuna facciamo tante videochiamate, ma il telefono trasforma il suo viso».